lunedì 6 febbraio 2017

Kenneth Rexroth

QUANDO NOI CON SAFFO

« … vicino all’acqua gelida
il vento suona tra i rami
del melo, e dalle foglie tremanti                 
il sonno si versa… »

Siamo qui, in un frutteto incolto,
pieno d’api d’un podere in rovina
del New England, distesi
con l’estate fra i capelli e l’odore
dell’estate sui nostri corpi uniti,
l’estate nelle bocche, l’estate
nei frammenti luminosi di parole
di questa greca morta.
Smetti di leggere. Piegati.
Dammi la bocca. Eguaglia,
la tua grazia, la bellezza del sonno.
Mi vieni incontro come un’onda
che si muove nel sonno. Il tuo corpo
s’espande nel mio cervello                 
come un’estate piena di uccelli;
non come corpo o cosa a sé stante
ma come nembo che incombe
su ogni altra cosa al mondo.
Appoggiati a me. Sei bella,
bella come la piega
delle tue mani nel sonno.

Siamo invecchiati, nel pomeriggio.
Qui, nel nostro frutteto adesso abbiamo
l’età di Saffo, ovunque sopra mari
lontani la sua polvere sfavilli
e sparsa lampeggi sulla cresta
delle onde o macchi la conchiglia
del murice. Intorno a noi
la vecchia fattoria sprofonda
nel miele del caos estivo.
In quelle isole lontane i templi
sono stati abbandonati e il marmo
è color miele selvatico.                                                                     
Non resta nulla dei giardini
che un tempo li circondavano, delle
grasse zolle segnate dagli zoccoli.
Solo erba di mare resiste
sulla pietra sgretolata,
sui gradini scheggiati,
solo il blu e il giallo
del mare, e in lontananza
gli scogli rossi oltre la baia.
Piegati indietro.
Ora, la sua memoria è sulle nostre
labbra. Attraverso il caos estivo i baci
ci cadono sul petto, sulle cosce.

Colossali cupole d’oro,
cumuli di nubi si levano
sull’ondeggiante, sibilante foresta.
L’aria preme la terra.
Il tuono scoppia sui monti.
Lontano, sugli Adirondacks,
un lampo tremola, quasi invisibile
nel cielo vivido, violetto
contro il grigio carico
dell’ombra di nuvole grasse.  
La fresca chioma virile
dei temporali spazzola
il gonfio orizzonte. Togliti
scarpe e calze. Ti bacerò
le dolci gambe e i piedi
mezzo sepolti nell’intrigo
di maleodoranti fiori estivi.                     
Spogliati. Voglio schiacciare
la tua carne d’estivo miele
contro il suolo caldo, e sull’erba
pesta, pungente di mezza
estate. Lascia che il tuo corpo
scenda come miele tra le calde
ruvide dita dell’estate.

Fermati. Aspetta. Basta poco.                        
Baciami con la bocca umida e aspra,
la tua bocca che ha lo stesso sapore
della mia carne. Leggi ancora
per me la musica sinuosa
di quella lingua che comprende tutte
le altre lingue ed è un’opera d’arte.
Leggimi ancora quelle singole,
toccanti parole salvate
da filologi antichi per spiegare
coniugazioni e declinazioni
di morti ancora più antichi.
Piegati nell’incavo del mio corpo.
Premi le tue spalle contuse
contro i madidi peli del mio corpo.
Baciami ancora. Pensa, dolce linguista,
che al mondo l’ablativo è impossibile.
Nessun altro qui ci aiuterà.
Dobbiamo aiutarci reciprocamente.
Il vento s’allontana lentamente
dalla tempesta; vira sulle creste
boscose; fischia nelle valli.
Qui siamo isolati, l’un con l’altra;
e c’è isolamento al di là
di questo frutteto, l’isolamento
del mondo intero. Non lasciare
che s’intrometta mai niente
nella solitudine di questo giorno,
di queste parole, isolate da lingue
morte, di questo frutteto, nascosto
ai fatti e alla storia, di queste ombre
in armonia con la luce estiva, tutt’insieme
isolati oltre la reciprocità del mondo.

Non dire altro. Non parlare.
E non rompere il silenzio
finché l’uno dell’altra non saremo
stanchi. Facciamo correre le dita
come lame d’acciaio sui contorni
dei nostri corpi dorati. Non parlare.
Il mio viso affonda nell’estate
invischiata dei tuoi capelli.
Il ronzio delle api è cessato.
La quiete cade come una nube.
Taci. Lascia andare il tuo corpo
nel silenzio pieno di stupore
dell’estate compiuta –
indietro, indietro, all’infinito –
le nostre labbra, deboli,
esangui per l’immobilità.

Guarda. Il sole è tramontato.
Ora ci sono lunghe luci ambrate
sui tronchi spaccati dei vecchi meli.
I nostri corpi s’avvicinano
come nel sonno; esausti
e sazi insieme, come l’estate
va verso l’autunno e noi,
con Saffo, incontro alla morte.
Le mie palpebre sprofondano nel sonno
nel caldo autunno dei tuoi capelli sciolti.
Il tuo corpo tra le mie braccia
si muove sul bordo del sonno;
e è come se tenessi
tra le braccia il serale
cielo estivo pieno d’uccelli.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da The complete poems of Kenneth Rexroth, Copper Canyon Press, 2003



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