venerdì 30 settembre 2016

Attilio Zanichelli


TANTO FUOCO

Verifico il mare nell’attimo che pare s’insinui
nei miei occhi.
Il giorno che tanto sole ha bevuto tanto fuoco
nella calma estenuata
dei gabbiani
oltre lo sconosciuto fumo dei piroscafi.
Verifico la torre d’ombra
che verrà dalla notte, sulle mani
bagnate di sabbia come foglie tremanti.
Paura dell’oltretomba? Della grata
laconica dalle fiamme morenti?


Da “Arsenale”, Numero Uno, Gennaio-Marzo 1985


Da domani, 1 ottobre, fino al giorno 9, si terrà a Sorbolo, paese di Zanichelli, in provincia di Parma, nellatrio del Municipio Vecchio una mostra di fotografie, documenti, scritti ed articoli per conoscere meglio il poeta. 


mercoledì 28 settembre 2016

Pere Gimferrer

DUE FUGHE

2 - VIVERE CLANDESTINO

Una targa, sulla via di Petritxol, a Barcellona, ricorda la casa dove visse Leandro Fernández de Moratín. Furono anni duri per Moratín, che vegetava nascosto, con la sensazione d’essere vivo per miracolo in un mondo assolutamente barbaro e ostile, quale hanno spesso sperimentato gli intellettuali spagnoli. Quando per le strade di Madrid la gente grida “Vivan las caenas[1], un uomo che s’è dedicato a cose come tradurre Shakespeare e Molière, non ha certo molte possibilità di non lasciarci la pelle.
Da Barcellona, il 17 gennaio del 1816, Moratín scriveva all’amico Juan Antonio Melón. Nella lettera ci sono alcune righe davvero impressionanti, nelle quali c’è un certo apprezzamento per il modo di fare dei catalani, che però illustrano in modo raccapricciante – e probabilmente molto fedele – la sensazione di sentirsi scomodo e mal accetto che può sperimentare una persona civile quando si scatena la brutalità celtiberica. “La mia decisione – scrive Moratín da Barcellona – è quella di non muovermi da qui, di non cambiare questa gente per nessun’altra di Spagna, se si deve vivere e morire con essa. In tal caso è necessario fare una vita oscurissima e ritirata; non parlare, non scrivere, non pubblicare, non dare nessun segno della mia esistenza; e questo, fra le persone più tolleranti, meno pettegole, meno moleste di tutta la penisola; ove ognuno attende ai suoi affari e interessi e non si mischia con gli estranei, cosa che non capita altrove”.
A un certo punto, André Breton diede ai surrealisti una consegna: “passare alla clandestinità”. Ma una cosa è scegliere d’essere uno scrittore clandestino prima di diventare uno scrittore ufficiale e riconosciuto – e questo era il senso della consegna di Breton –, un’altra cosa (come nell’ammirevole poesia di Gabriel Ferrater “La vita furtiva” che spesso è stata letta equivocamente come una poesia politica) è avere la sensazione fondamentale di assedio e accerchiamento che può dare l’esistenza quotidiana; e un’altra ancora, e ben diversa, è scegliere il silenzio come Moratín, perché questa scelta amara è l’unica permessa dal trionfo della stoltezza. Un silenzio così risulta più forte e più patetico di qualsiasi accusa.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Dietario, Seix Barral, 1984



[1] Viva le catene. La frase si fa risalire all’anno 1814 ed è il grido con il quale il popolo, in opposizione al grido Viva la libertà, volle esprimere la propria adesione al re Fernando VII, quando, in quell’anno, impose il potere assoluto.

lunedì 26 settembre 2016

Pere Gimferrer

DUE FUGHE

1 - UNA NOTTE DI GENNAIO

«Non aspettatemi – scrisse a qualcuno di famiglia – perché la notte sarà nera e bianca». Notte nera: l’anno 1855, nel cuore dell’inverno – ultimi giorni di gennaio –, la debole luce dei lampioni si esauriva nella tenebra gelida dei muri della vecchia Parigi. Notte bianca: diciotto gradi sotto zero, tutta la vita coperta dal silenzio della neve. Notte nera e bianca: dopotutto, non aveva sempre vissuto quel tipo di notti? Prima, gli occhi vedono un’oscurità; poi – viviamo già nel sogno –, si aprono le porte di un altro regno. Gli antichi dicevano che spesso queste porte sono bianche come l’avorio.
Sappiamo che alcuni amici lo videro a teatro. Non portava soprabito. Vagava senza meta per i luoghi in cui, tempo addietro, la sua vita era stata uno splendore: i palchi dei teatri, le case delle attrici. Un poeta – perché, prima di tutto, era un poeta –, a volte, si lascia affascinare dall’immaginario. Nella donna aveva cercato l’attrice, o meglio, la donna nell’attrice, in quell’amore che tempo addietro l’aveva straziato? Più che la donna, aveva amato la visione. Ce lo dice lui stesso in un sonetto: la Morte, o la Morta.
Nella fotografia che di lui ci è pervenuta, gli occhi di Gérard de Nerval sono intensi – come una fiamma placata –, affondati in occhiaie profonde. I capelli, neri, sono radi; le mani riposano, come in attesa; il vestito, scuro, non riusciamo a scorgerlo, ma lo immaginiamo liso, sbiadito, sciupato. Gli occhi non fissano solo il vuoto dello spazio fotografico. Probabilmente intravedono un altrove.
Cercava con gli occhi uno spazio più vasto e remoto. Sotto la sferza della neve di una Parigi glaciale, andò a mangiare in una taverna degli Halles. Siamo nelle viscere della città, in un fermento di formaggi, pesce e verdure: la zucca rotonda e sacra, la melanzana dal verde imperiale, le scaglie, i cesti, il baccano, le ruote di legno dei carri che rigano le pietre gelate. Ogni tanto qualcuno apre la porta della taverna. Vediamo un cielo liscio e la neve che gela sui tetti. La notte sarà nera e bianca, in fondo al freddo.
Una notte lunghissima, ma è l’alba ormai. Con le prime luci, torbide e grigiastre, la mattina impura di gennaio raggiunge l’ignobile via della Vieille Lanterne. Ferma – no, qualcosa la fa oscillare, ma non il vento –, c’è un’ombra estranea in quel vecchio luogo desolato. È Gérard de Nerval, che s’è impiccato mentre finiva quella notte nera e bianca.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Segundo dietario, Seix Barral 1985

venerdì 23 settembre 2016

Sandro Penna

SERENATA

O cielo delicato
prima dell’alba ascoltami.
Forse io non sono nato
per vivere qua giù.

Ma cielo delicato
(mi ascolti?) io ben lo sento
che è tuo quello strumento
fierissimo e dannato.

Sei tu che l’hai buttato
a vivere qua giù.
Sei tu che l’hai legato
se sempre guarda in su.


da Stranezze, Garzanti, 1977

mercoledì 21 settembre 2016

Valerio Grutt

DOVE NON ARRIVA LA SCIENZA


Dove non arriva la scienza
si apre questo cielo spaccato
sulle antenne di Roma
si apre questo cuore di scavi
di tunnel, martoriato
dalle scavatrici, cuore voragine
sotto questo cielo di Roma.
Dove non arriva la scienza, mamma
arriviamo noi, con le carezze
tremanti, i girasoli in mano
noi che camminando graffiamo
il parquet con la suola delle scarpe
e rimaniamo imbambolati
vedendo la morte che ogni giorno
ti visita gli occhi un po’ di più.
Ma sappiamo o almeno io so:
questo male che ti sgonfia i polmoni
sarà trasmutato oggi o domani
sarà ritornato da dove era venuto
giorno remoto, buio di galassie
tra i cuscini del divano
e noi ci rivedremo, senza il peso
dei bagagli a mano
in una stazione bianca
al centro perfetto del bene.

da Dove non arriva la scienza, plaquette stampata dal Policlinico di Sant’Orsola a Bologna per il progetto Le parole necessarie

lunedì 19 settembre 2016

Raffaela Fazio

TRITTICO CROATO

1.

Da millenni
una carezza verde
la placa
le rinnova il ventre
di cespugli e cicale
mantiene
l’antica promessa
              d’entroterra.
Ma da millenni
lei teme
il riflesso
che le faccia voltare
la schiena
appena una scaglia
                      d’azzurro
la più silenziosa
un ricordo.
Dopo millenni        
                      un istante
perché lei s’inabissi
irredenta vogliosa 
                falesia
nel fondo 
della sua condanna.

2.

Apro gli occhi e cado
a un passo 
dal presente
               fuori
               dal mio corpo.
Sgranati
i contorni
        non vedo
più i fili
che tengono insieme
le mie parti.
Mi rincorro
come un cane
                 la coda
mozzata:
il tempo ha per lama
la tua assenza.

3.

Si danno le cose
                in frammenti:
la rosa tra i tralci di pietra
a spirale
il teschio nel legno
dello scranno
la vergine in trono 
sul portale
la sirena stretta
al capitello.
                Il doppio perfetto:
la pace
e il feroce
                bisogno.

(inedita)


venerdì 16 settembre 2016

Kenneth Rexroth

SCALATA DEL MONTE MILESTONE, 22 AGOSTO 1937


Da un mese ormai, vagando per la Sierra,
una poesia prendeva forma nella mia mente,
con dettagli di ritmo e di senso,
come succede alle poesie non ancora messe a fuoco.
Ieri notte mi sono ricordato della data e tutto
ha cominciato a crescere e ad avere senso.
     Siamo rimasti alzati fino a tardi, con Deneb allo zenit
e io che dicevo a Marie di Boston e di come appariva
in quell’ultima terribile settimana, e di come centinaia
di persone si fermarono in lacrime per strada,
impotenti, quell’ultima mezzanotte.
Le raccontai di come quelle ore cambiarono la vita
di migliaia di loro, e di come l’America da allora,
per molti, fu per sempre un posto diverso.
                                                                             La mattina
nuotammo nel gelido lago trasparente: milioni
di libellule azzurre volavano sulle canne
come sottili fiori metallici, e io ti ho pensato,
dietro le sbarre di Dedham, Vanzetti, che dicevi:
«Chi avrebbe mai pensato che avremmo fatto questa storia?»
Attraversando il brillante miglio quadrato
del prato, illuminato da astri e ciclamini,
col vento incostante che vi spargeva il polline
dei pini e che spingeva farfalle colorate d’azzurro
e di zolfo, ti vidi nell’acida luce della prigione,
dire: «Addio compagno».
                                               Nel bacino sotto la cresta,
dove finiscono i pini e iniziano le primule della Sierra,
un gruppo d’avvocati sparava a una bottiglia di whisky.
La bottiglia restò dritta: non riuscirono a colpirla.
Guardando indietro, sui canyon e i picchi, dall’ultimo lago,
la forma degli esseri umani sembrava più semplice
delle diagonali dell’acqua e della pietra.
Risalendo la pista, su neve disciolta e speroni di roccia,
mi ricordai quel che dicevi di Sacco,
di come sfuggisse di mente e chiedesti fosse messo a verbale.
Durante la traversata sotto una cresta di roccia irregolare,
una guancia contro la parete
e l’altra schiaffeggiata dal vento,
vidi voi due marciare con un esercito,
tu con la bandiera rossa e nera e Sacco col vessillo
del serpente a sonagli. Salito a grandi passi sull’ultimo spiazzo
di neve raggiunsi l’incredibile polemonio blu fragrante,
il cielo smorto, l’arido granito cristallino
e l’estremo monolite della vetta. Sono queste
le cose che resteranno, Vanzetti, e io sono contento
d’esserci stato in mezzo per una volta nel tuo giorno.
In futuro ci saranno montagne chiamate come te e Sacco.
Staranno qui e con esse il vostro nome,
«Quando questi giorni non saranno che un vago ricordo 
                                                                                   del tempo
in cui l’uomo era lupo per l’uomo».
Credo che molti si ricorderanno di voi
a lungo, sulle montagne
molti uomini, a lungo, compagno.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da The complete poems of Kenneth Rexroth, Copper Canyon Press 2003

mercoledì 14 settembre 2016

Elizabeth Barrett Browning

SONETTO VII 

L’intero mondo cambiò aspetto, penso,
dall’istante che i lievi oh lievi passi
della tua anima udii venirmi accanto
furtivi e frapporsi tra me e l’estremo abisso
spaventoso della morte dove pensando
di cadere fui presa dall’amore,
e scoprii della vita un ritmo nuovo.
Con te vicino amo bere, e la dolcezza
ne lodo, anche la coppa del dolore
che mi battezzò. Di terra, cielo, i nomi
si scambiano, qui o là dove tu sei, o sarai.
Liuto e canto amati ieri (i cori angelici
lo sanno) sono cari perché il nome
tuo ben s’accorda con quel che dicono.
        
Traduzione di Francesco Dalessandro       


da Sonetti dal portoghese, Edizioni Il Labirinto, 2000 

lunedì 12 settembre 2016

Gerard Manley Hopkins

UN PEGGIO NO, NON C’È

Un peggio no, non c’è. Confitti oltre fitte di dolore, 
più aspri spasimi, dai primi spasimi istruiti, strazieranno. 
Confortatore, dov’è, dove, il conforto? Madre nostra,
Maria dov’è il soccorso? Le mie grida, lungo gregge,                  
s’innalzano; si accalcano in un capitale, supremo sconforto, dolore
del mondo; su un’incudine antica rimbalzano e cantano –
poi si placano, smettono. La Furia ha urlato: ‘Basta
indugiare! Fammi essere crudele: sarò per forza breve’. 
Oh la mente, la mente ha montagne; dirupi a precipizio, 
spaventosi, scoscesi, insondati dall’uomo. Sono niente           
solo per chi non vi fu mai sospeso. Né a lungo la nostra
misera resistenza resiste a quella fossa o abisso. Qui! striscia,
sciagurato, sotto un conforto apprestato nel turbine: mette
fine a ogni vita morte e muore ogni giorno col sonno.

Traduzione di Francesco Dalessandro


da I sonetti terribili, Edizioni Il Labirinto, 2003

venerdì 9 settembre 2016

Eloy Sánchez Rosillo

MELVILLE, NELLA DOGANA

Quanto più un uomo appartiene ai posteri, ovvero all’umanità intera, tanto più è sconosciuto ai suoi contemporanei... La gente riconosce più facilmente l’uomo utile nelle circostanze immediate o all’umore del momento al quale appartiene e nel quale vive e muore.
                                                                                                                                           Schopenhauer


Per diciotto lunghi anni,
giorno per giorno ho atteso a quest’ufficio inesorabile,
ormai mi sono quasi rassegnato al mio strano destino:
il tempo placa tutto, e la voce che fino a poco prima
mi spingeva insistente a porre fine
una volta per sempre a tutto questo
ora l’ascolto appena, e se a volte la sento
non mi faccio ingannare e m’aggrappo con forza
ai braccioli assennati di questa vecchia seggiola
e così mi sottraggo al canto di sirene ormai improbabili.
Pesano troppo gli anni e le miserie dell’età
– questi occhi intorpiditi, e la sfida delle ossa per                                                                                           /mantenermi in piedi –
impongono ai miei resti la loro orrida legge.
Benché io senta, in giorni come questo per esempio
– chissà perché, forse oggi è l’influenza
dell’autunno magnifico che spoglia i parchi
della città terribile –, l’accresciuta avversione
per l’impiego noioso e la tristezza dei suoi simboli
(gli oscuri arredi in legno dell’ufficio, la polvere
che ricopre le assurde carte archiviate,
e scolorite macchie d’inchiostro che negli anni
caddero sul paesaggio scomodo della mia vecchia cartella);
a lungo resto assorto e con invidia
penso alla silenziosa lucidità del povero Bartleby,
o agli indimenticabili giorni della lontana gioventù,
anni liberi – eppure disperati – di quando andai per mare
per trovare rimedio ai miei mali d’allora, idee confuse 
quando consideravo compiaciuto l’immagine
di me stesso suicida con una palla in testa.
Ora so che quegli anni furono forse i soli
che vissi veramente, con la pazzia e il coraggio
d’un essere divino e libero.
                                                 Poi il resto è stato morte,
o vita ricordata, forma diversa e triste
del lasciarsi morire, perché un ricordo di felicità
non è felicità, solo elegia
di uno spossessamento.
                                            E tutti i libri
che con dolore scrissi sono cenere
di quel fuoco intensissimo, relitti del naufragio
dell’insensata gioventù.
                                            Perciò, a volte mi chiedo:
valse la pena? Tutto l’impegno messo
nella carriera di scrittore, mestiere desolato
al quale consegnai il decennio più triste della vita,
più tardi abbandonato (non che lo consigliasse
il fallimento, perché scrissi sempre precisamente i libri
che la stupidità contemporanea con sufficienza ottusa                                                                                                        /destinava
al fallimento, ma perché l’oscuro territorio che un giorno mi                                                                                                  /proposi
d’esplorare era lì che finiva. È noioso
una stessa avventura viverla per due volte).
È tanto che non pubblico e solo quando sento
bisogno di parlare con me stesso
prendo la penna e scrivo qualche verso
destinato a nessuno, ma che serve
a me per non star solo nei deserti gelidi
della vecchiaia.
                             In essi e in certi libri
degli uomini che amo – soprattutto nelle opere
di William Shakespeare, solo comparabili
con la bellezza infinita dell’acqua azzurra
che navigai da giovane – trovo la compagnia
che prima non ebbi mai.
                                             E così serenamente
passano i giorni inarrestabili che mi avvicinano
al silenzio e alla pace dell’ombra tanto attesa.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Hilo de oro, Antología poética, 1974-2011, Catedra, 2014

mercoledì 7 settembre 2016

Attilio Bertolucci

LA NEVE

Come pesa la neve su questi rami
come pesano gli anni sulle spalle che ami.
L’inverno è la stagione più cara,
nelle sue luci mi sei venuta incontro
da un sonno pomeridiano, un’amara
ciocca di capelli sugli occhi.
Gli anni della giovinezza sono anni lontani.


da Al fuoco calmo dei giorni, Poesie 1929-1990, BUR, 1991

lunedì 5 settembre 2016

Carlo Alberto Parmeggiani

NELLA SERA DEL SETTIMO GIORNO DEL DECIMO MESE

Alla maniera di Chang Chi

Si alza la luna e ghiaccia il ruscello
che ha mormorato per un giorno intero.
Al posto tuo mi ha fatto compagnia,
senza mai svelarmi il suo pensiero.
Eppure, al crepitìo della legna
che arde nel camino in un bel fuoco,
ora so che non c’è caldo senza gelo
che la tua assenza è il più dolce dei dolori.


da “Poeti e Poesia”, N. 37 – Aprile 2016



venerdì 2 settembre 2016

Aleksandr Blok

I DODICI

9.

Sulla torre del fiume regna calma,
s’è chetato il fragore cittadino.
Non si vedono in giro più gendarmi:
fate orgia, ragazzi, senza vino!

S’è fermato un borghese sul quadrivio
e il naso dentro il bavero nasconde.
Ai fianchi gli si struscia col suo grigio
pelo rognoso un cane vagabondo.

Come il cane famelico sta muto
il borghese, con aria di domanda.
Sta il vecchio mondo come un can perduto
dietro a lui, con la coda fra le gambe.



Traduzione di Renato Poggioli


da I dodici, Einaudi, 1965