lunedì 22 agosto 2016

Ana Rossetti

PURIFICAMI

                           Felici coloro che lasciarono se stessi.
                                                                                Colette        

È vero, qualche volta cerco di
                                                 /ribellarmi,
di privarmi e spogliarmi di te.
E ti sogno, il vestito che scivola,
afflosciandosi in terra le pieghe
                                         /innumerevoli,
e ti nego. Le tue foto abbandonano
le angoliere intarsiate, il vetro delle
                                          /cornici,
e il tuo nome s’infrange, io dimentico
che era maggio, le Pleiadi, il fiore
                                               /somigliante
al crisantemo.
Non credo più che esista la quinta di
                                                 /Ciaicowski,
però ricorro a te.
Alla fine, ricorro sempre a te,
al tuo silenzio schivo di fronte alla
                                                   /meraviglia,
ai riccioli pazienti iridantisi al sole,
quando stringevi papaveri e volevi
                                              /essere santa,
alla desolazione, opale torbido,
e alla caparbietà di non mostrarlo mai.
Volontà educata a conservare,
affinché dal tuo volto non un cenno
di te trasparisse, a non aprire il cuore
su fogli silenziosi o sulla stoffa viola
dei confessionali. A non versarlo in
                                                     /lacrime.
Come ti controllavi per celare
paure o sventure; il disastro e la colpa
disdegnati, lo stupore nascosto.
Bambina mia ferita e mai, mai dolce,
facevi tesoro di maschere, metafore,
ingenui simulacri di armatura o
                                                  /esorcismo
e non mi immaginavi erede o alunna.
Non so vivere, io, senza imitarti.
In me non c’è emozione che non si
                                             /appaghi in te,
né ricordo che in fondo non parli di te,
né esperienza che io non confronti con 
                                                                /te,
regina della cautela e dell’enigma.
Però è tanto il riserbo che non so più 
                                                       /il nome
delle cose né di questo sentimento,
dolce e impetuoso, forse doloroso
e disperato, che mi ha sopraffatta.
Nell’ignorarlo è la mia vanagloria,
sono la mia prudenza e l’obbedienza.
Bambina mia, mia tiranna, guardandoti
io so che è tutto inutile e che ti
                                                 /rassomiglio,
che per mia volontà resto in te,
                                                  /prigioniera.
La mia memoria è carcere, tu il mio
                            /marchio mio orgoglio,
io solo esecutrice delle tue volontà,
bocca divulgatrice
che segue i tuoi precetti,
infanzia, patria mia, bambina mia,
                                                         /ricordo.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Devocionario, Visor, 1986


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