mercoledì 31 agosto 2016

Wallace Stevens

MONDO SENZA PECULIARITÀ

Il giorno è grande e forte –
Ma suo padre, che era forte, ora giace
Nella miseria della terra.

Niente potrebbe essere più quieto
Della luna che trascorre lenta nella notte.
Ma quel che era sua madre torna e gli piange in                                                                       /petto.

Il rosso maturo delle foglie è pregno
Delle spezie della rossa estate –
Ma colei che amava si raffredda al tocco suo                                                                       /leggero.

A che serve che la terra sia giustificata,
In sé completa e di per sé finita,
In sé abbastanza?

È la terra l’umanità…
Lui il figlio inumano e lei,
Lei la madre fatale, che lui non conosce.

Lei è il giorno, il cammino della luna
Tra le spezie mozzafiato e talvolta
Anche lui è umano e la differenza scompare

E la miseria della terra, la cosa in petto,
La donna nemica, il luogo insensato, 
Diventano una cosa sola, sicura e vera.

Traduzione di Nadia Fusini

da Aurore d’autunno, Adelphi 2014

lunedì 29 agosto 2016

Carlo Alberto Parmeggiani

NELLA CASA A POCHI PASSI DAL PONTE DELLA CETRA

Alla maniera di Tu Mu

Il sole è già calato dietro casa
e ancora mi aggiro senza luce.
La notte già si avventa su ogni cosa
e mi circonda senza avere voci.
Ho radunato tutti i miei pensieri:
il vento con me ansima fra i rami.
Attendo che qualche melodia mi avvicini:
e non intendo che un esordio di frastuoni.



da “Poeti e Poesia”, N. 37 – Aprile 2016

venerdì 26 agosto 2016

Eloy Sánchez Rosillo,

RECANATI, AGOSTO 1829

(Omaggio a Giacomo Leopardi)

Passano lenti i mesi. È quasi un anno
che sono ritornato – controvoglia,
perché purtroppo non ebbi altra scelta –
alla casa paterna, ed ogni giorno
sembra un’eternità: il tempo non passa
mai se non c’è speranza e si respira
nel dolore e nel tedio. Forse mai
riproverò ad andarmene da qui.
La borsa vuota e le indicibili miserie
che patisce il mio corpo – senza dire
la costante avversione dei miei a farmi partire –
non permettono che pensi a una nuova fuga.
Com’è lontano il mondo, con i giorni
di Firenze e di Pisa in cui credetti
d’essere finalmente un uomo libero.
Fra le pareti dell’inevitabile
vecchio palazzo lotto con l’angoscia
maledicendo il funesto destino
che m’oppone gli affanni. Non ho niente,
e in questo posto infame in cui nessuno
riuscì a capirmi, semmai volle farlo,
m’è estraneo tutto quel che mi circonda.
Solo la cara sorella – forse uguale
a me nella sfortuna – con la sua
premurosa presenza mi è di conforto
e di riparo, dà consolazione
alla mia solitudine. Ma non basta.
Qui, sono solo un morto che respira.
Sì, davvero la vita dura poco.
È un forte, intenso abbaglio che finisce
all’improvviso quando i giovanili
anni sono passati. All’apparenza,
l’esistenza continua. Però no,
non è più vita quello che ci accade
e in questo niente siamo testimoni
postumi di un ben triste simulacro.
Non resta né presente né futuro:
quello che accade ci rinvia al passato,
alla sua antica fiamma. M’è sfuggita,
la gioventù. L’estate inutilmente
canta sul mio dolore. Un altro giorno
d’agosto che finisce. Cade notte.
Dal cielo guarda la pietosa luna.
Sul silenzio profondo delle campagne
trema la luce delle costellazioni.
Alla memoria accorrono le immagini
di ieri. Ed il ricordo mi riserva
lo strano fiore della malinconia.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Hilo de oro, Antología poética, 1974-2011, Catedra, 2014

mercoledì 24 agosto 2016

Carlo Alberto Parmeggiani

DI NOTTE, UN LUME DALLA STRADA

Alla maniera di Ssu- K’ung Shu

Lontano ci ha tenuti l’allegria e la tristezza,
estranei io e te a quello che eravamo.
In camera d’albergo tale e quale una reggia
mettiamo fine alla nostra incomprensione.
Il barbaglio della luce di un fanale
che riga illuminando il soffitto dalla strada
ci avverte che ancora prigionieri
siamo di un amore che non ha domani.

da “Poeti e Poesia”, N. 37 – Aprile 2016

lunedì 22 agosto 2016

Ana Rossetti

PURIFICAMI

                           Felici coloro che lasciarono se stessi.
                                                                                Colette        

È vero, qualche volta cerco di
                                                 /ribellarmi,
di privarmi e spogliarmi di te.
E ti sogno, il vestito che scivola,
afflosciandosi in terra le pieghe
                                         /innumerevoli,
e ti nego. Le tue foto abbandonano
le angoliere intarsiate, il vetro delle
                                          /cornici,
e il tuo nome s’infrange, io dimentico
che era maggio, le Pleiadi, il fiore
                                               /somigliante
al crisantemo.
Non credo più che esista la quinta di
                                                 /Ciaicowski,
però ricorro a te.
Alla fine, ricorro sempre a te,
al tuo silenzio schivo di fronte alla
                                                   /meraviglia,
ai riccioli pazienti iridantisi al sole,
quando stringevi papaveri e volevi
                                              /essere santa,
alla desolazione, opale torbido,
e alla caparbietà di non mostrarlo mai.
Volontà educata a conservare,
affinché dal tuo volto non un cenno
di te trasparisse, a non aprire il cuore
su fogli silenziosi o sulla stoffa viola
dei confessionali. A non versarlo in
                                                     /lacrime.
Come ti controllavi per celare
paure o sventure; il disastro e la colpa
disdegnati, lo stupore nascosto.
Bambina mia ferita e mai, mai dolce,
facevi tesoro di maschere, metafore,
ingenui simulacri di armatura o
                                                  /esorcismo
e non mi immaginavi erede o alunna.
Non so vivere, io, senza imitarti.
In me non c’è emozione che non si
                                             /appaghi in te,
né ricordo che in fondo non parli di te,
né esperienza che io non confronti con 
                                                                /te,
regina della cautela e dell’enigma.
Però è tanto il riserbo che non so più 
                                                       /il nome
delle cose né di questo sentimento,
dolce e impetuoso, forse doloroso
e disperato, che mi ha sopraffatta.
Nell’ignorarlo è la mia vanagloria,
sono la mia prudenza e l’obbedienza.
Bambina mia, mia tiranna, guardandoti
io so che è tutto inutile e che ti
                                                 /rassomiglio,
che per mia volontà resto in te,
                                                  /prigioniera.
La mia memoria è carcere, tu il mio
                            /marchio mio orgoglio,
io solo esecutrice delle tue volontà,
bocca divulgatrice
che segue i tuoi precetti,
infanzia, patria mia, bambina mia,
                                                         /ricordo.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Devocionario, Visor, 1986


venerdì 19 agosto 2016

Eloy Sánchez Rosillo

LA VIA DEL SILENZIO

Fermati. Non aggiungere parole
a quelle che hai già scritte. Che il silenzio
cali sul foglio e la voce si spenga
in mezzo alla notturna solitudine.
Il libro è terminato. In esso, indenne,
deve pulsare ancora la memoria
della tua vita, di quello che il tempo
volle darti e poi toglierti, il fulgore
intenso di tuoi giorni ormai fuggiti.

Traduzione di Francesco Dalessandro


da Las cosas como fueron, Tusquets, 2004

mercoledì 17 agosto 2016

Ivan Fedeli

LE ANIME BELLE, QUELLE CODE TUTTE

Le anime belle, quelle code tutte
in attesa di verde mentre va
via il sogno e il giorno stagna come il fumo
sulle tangenziali. Sanno di nuovo
se profumano di Denim e si specchiano
furtive per dirsi non sembro poi
male. Sono sentinelle dei tempi
e danno occhiate veloci sul mondo
prima di una chiamata al cellulare
o un’immersione in rete. Crederle intere
perché hanno spiccioli per ogni angolo
quando il male è degli altri e non sai a chi
toccherà domani. Dicono sia
per scaramanzia, necessità.
Ma donano se stessi nell’idea,
con l’occhio alle nuvole, a quanto il vento
abbassi il cielo. Sperano così
in una quiete prospera finché
va. E abbracciano la vita irripetibile
senza aspettare altro, soltanto un giorno
nuovo, la sua presenza inarrestabile.

Da Gli occhiali di Sartre, puntoacapo, 2016


lunedì 15 agosto 2016

Raffaela Fazio

RONDINI

Fidati
dico alla mia fionda.
Lo vedi, il mio prescelto
è stato visitato
da un vento di rondini
stamani.
È segno
che sotto la sua gronda 
è il tiro. Mira
al vetro buio
sfonda
l’occhio del ciclope!
Che dolga liberato
dentro il petto
il suono
del garrulo sfiorarsi
lo sfarsi il ricomporsi
di un paese
tutto nostro
alto
sopra i tetti!

(inedita)



venerdì 12 agosto 2016

Domenico Adriano

HO FATTO UNA PASSEGGIATA

«Ho fatto una passeggiata per vedere
le mie piante:  i melograni verdissimi
e pieni di piccoli frutti, sulle viti
grappoli acerbi d’uva, le amarene
ancora sull’albero
già appassite. Ho incontrato
un albero di fichi
dal vecchissimo tronco così saldo
e forte che mi ha commosso».

«Questa è l’ora delle cicale», ti meravigli,
tu che l’estate è la stagione che ami; e io
per questa poesia antica che mi doni,
vorrei chiederti in sposa ai tuoi genitori.


Roma, 9 luglio 2016

(inedita)

mercoledì 10 agosto 2016

Michele Colafato

FUGA IN EGITTO


Fuga in Egitto è chiamata la notte,
la porta chiusa, la strada...

Eppure tra il promontorio di roccia e la palma
in mezzo al nero luccicare delle tenebre
che rischiara e riscalda
erompe una macchia di fiamma


(inedita)

lunedì 8 agosto 2016

Saint Geraud


SONNO

Noi sfioriamo l’altra, invisibile luna.
Le sue caverne escono e ci portano dentro.

(1968)

Traduzione di Gianni Menarini

da Giovani poeti americani, Einaudi, 1973


venerdì 5 agosto 2016

Francesco Dalessandro

NOTTE AUSTRALE
(da Lêdo Ivo)

Il tuo corpo è il mio giorno quando la notte cade
Il tuo pube la mia notte quando il giorno rinasce

Chiarità dell’amore nel buio mezzogiorno
Nera culla della vita nel chiarore notturno

Poso la testa e m’addormento sulle tue                                                                                      costellazioni
Tutto inizia e finisce con le stelle, nella tua 
                                                                            nudità

(inedita)


mercoledì 3 agosto 2016

Gerard Manley Hopkins

ANDROMEDA

Ora l’Andromeda del Tempo, senza pari
per ingiuria o bellezza, da questa rude roccia
scruta i due corni della costa, il fiore, parte
del suo essere, condannati a cibo per il drago.

In passato fu insidiata e inseguita da molti
flagelli e colpi, ma oggi ode da occidente
ruggire una bestia selvaggia più d’ogni altra,
più capace di mali, più sfrenata, più laida.

Indugia il suo Perseo, lasciandola allo stremo?
Cuscini d’aria egli calpesta per un po’, i pensieri
sospende su di lei, sembra che l’abbandoni,

mentre, morsa da spasimi, la pazienza di lei cresce;
allora egli scende, impensato, a disarmare
con armi e nudo ferro di Gorgone / cappi e artigli.


(1879)


Traduzione di Francesco Dalessandro

da The Poems of Gerard Manley Hopkins,Oxford University Press, 1970

lunedì 1 agosto 2016

Aleksandr Blok

I DODICI

8.

Amarezza amara,
            noia noiosa,
                        mortale!

E così il mio tempo
passe – passerò…

La mia nuca sempre
gratte – gratterò…

Semi io bel bello
sgrane – sgranerò…

E col mio coltello
colpi – colpirò…

Fuggi, borghese, come un passerotto!
            il tuo sangue corrotto
            berrò alla gloria d’una
            bella ragazza bruna!...

Placa, o Signore, l’anima tua schiava…

                        Che tedio!


Traduzione di Renato Poggioli

da I dodici, Einaudi, 1965