mercoledì 29 giugno 2016

Alessandro Ricci

LA MENZOGNA

La menzogna accudisce il colpitore
come nel cuore il tempo
di un’idea d’amore.
La menzogna è rotante: basta
un magnete che l’attragga
e s’inscrive aumentando nell’orbita.
«Lì rivoluziona per sempre»,
echeggiano i pianeti
che non si bastano.
La menzogna volve ellittica
o meno, inanella stagioni
rapide o sonnolente,
induce attese e ripetizioni.
La menzogna è schiava
dell’inganno che l’attira,
che se ne serve.



(inedita)

lunedì 27 giugno 2016

Raffaela Fazio

LE MANI INTRECCIATE


Le mani intrecciate
mio amore
tentiamo il passaggio
dalla febbre notturna
al coraggio

ma intatti
ricadiamo nel sonno

sotto le palpebre
un’onda
una stessa luce di luci

come acqua che tiene
due relitti sul fondo.

Inedita


venerdì 24 giugno 2016

Paolo Ruffilli

DEL BERE E DEL MANGIARE

  
È nel suo flusso
nel passo dell’intermittenza
in quel formare e rovinare
sorbire e espellere:
lo stato infinitesimale
della contrazione
e della sua apertura.

Col bere si rinnova
il liquido perduto, in
ogni centimetro quadrato
raggiunto e irrorato.
Si ricompone con il mangiare
quanto è stato consumato,
diluito e raffinato.

Il bere sempre in
abbondanza, nei pasti
e fuori, specie di mattina.
Acqua pura, ricca di
minerali e alcalina.
Alla temperatura con cui
sgorga alla sorgente.

Nei cibi, invece,
consuetudine e misura.
Produce guasti e
mali l’intemperanza.
La novità non giova,
come l’abbondanza
o l’astinenza.

Secondo un ordine:
prima i più leggeri
i liquidi sotto ai solidi
e, sempre, in qualche modo
grati e prediletti.
Senza che ci sia, vicina,
l’ombra del sonno.

All’ora giusta, la
mattina, prima che l’aria
si riscaldi e, la sera,
quando l’aria già
è più fresca. Con, in
mezzo, almeno sette
ore di distacco.

Senza tardare, se
viene l’appetito. E
senza aggravio di
discorsi appassionati.
Nel più assoluto stato di
tranquillità, abbandonati
a sogni e fantasie.

Mai pieni del tutto:
che resti un po’
di vuoto, di riserva.
Masticare a lungo
prima di inghiottire,
sempre lentamente
per poca quantità.

Cibi caldi più che
freddi, ma poco brodo di
carne e molto di verdura.
Grossi, d’inverno, e
teneri, l’estate.
La cena più leggera,
sempre, del pranzo.

E il cibo sia doppio
al bere, e il pane
due volte più del cibo.
La varietà è sempre
da fuggire, pestifero
l’incrocio di sapori,
le opposte qualità.

Mai la frutta mescolata
agli altri cibi o
carne e latte assieme.
Pane bene fermentato,
lievemente salato
di semola e cotto
a fuoco moderato.

Le erbe crude: rape,
cicoria, rucola, lattuga,
radicchio, cipollina,
solo in apertura
all’inizio del pasto.
I legumi, invece,
in mezzo agli altri cibi.

A conclusione, una
mela cotogna e un po’
di acqua fresca. Qualche
passo all’ombra e, poi,
seduti in calma per
non più di una mezz’ora
senza assopimenti.

Il vino, di sua specie,
è anche un cibo e come
tale va contato. In
mezzo agli altri cibi
e mai a digiuno
o con la frutta, e
all’uso degli antichi.

Tagliato magari,
per un terzo, d’acqua e
mai freddato in ghiaccio.
Gagliardo, con i cibi
grossi, e debole, con
quelli più leggeri.
In giusta proporzione.

Puro e chiaro,
limpido e brillante.
Di luoghi sassosi
aperti a mezzogiorno.
Né acre né addolcito,
né torbido o velato.
Restauratore delle facoltà.

da Natura morta, Nino Aragno Editore, 2012  

mercoledì 22 giugno 2016

Boris Pasternak


AMLETO

Spente le voci, eccomi entrato in scena.
Poggiato a uno stipite di porta,
vado intuendo nell’eco sempre più smorta
quello a cui la vita m’incatena.

Il buio notte mi ha già puntato addosso
mille binocoli nel loro fuoco incrociato.
Padre dolcissimo, considera il mio stato
e fa’ che io sfugga a questo calice, se posso.

La tua regia ostinata va comunque accolta
e io reciterò, va bene, la mia parte.
Ma un altro dramma dettano le carte,
dispensami almeno questa volta.

Si innesca la trafila dei gesti come un lampo,
non più eludibile il viaggio, fino in fondo.
Solo, affogato tra i farisei di questo mondo.
Vivere non è come attraversare un campo.

Traduzione di Paolo Ruffilli


da La notte bianca – Le poesie di Živago, Biblioteca dei Leoni, 2016

lunedì 20 giugno 2016

Stefano Guglielmin

ANTONELLA (1958-1993)

L’ultima volta in giardino
pesavi metà di ogni cosa felice.


Aspetto un figlio
ti ho detto. E io la morte, hai risposto
quieta, come se ci fosse una logica
segreta, che lega forbice a fiore.

Sei stata la prima a saperlo
l’ultima a partire.



da Ciao cari, La vita felice, 2016

venerdì 17 giugno 2016

Paolo Ruffilli

DEL PIENO E DEL VUOTO



Il corpo non si vuole
o pieno o vuoto,
perché la vita
consiste appunto
nel margine sottile
che si dispone tra
il niente e la materia.

Nel moto breve
palpitante, nel ritmo
entrata uscita
in una intercapedine
nel passo che ha congiunto
un punto a un altro,
appena, della cavità.

La ritenzione avvelena
e fa il corpo di sasso,
rigidi i tessuti.
L’inanizione impoverisce
genera spasmi incontrollati
il mal caduco, l’ossessione
e la nevrastenia.

Le superfluità del ventre
e dell’urina, ogni
giorno, due volte
almeno, fuori, di regola
o di necessità, mai
meno: la sera, intanto,
e la mattina.

Quando si avverte
pesantezza, occorre
incitare la natura.
Nel luogo circoscritto
rilassati, in balìa
per tutto della fantasia
in mezzo a cose certe.

Correggerla con cura
quando è pigra. La notte,
sul dorso. Passati di
verdura, miele rosato,
per lubrificare.
E, prugne cotte,
per svuotare l’intestino.

Aiuto a vincere
la ritenzione
è il bagno in acqua
tiepida e salina.
Senza il sapone, che
corrompe gli strati di
cui la pelle si compone.

Con l’aggiunta di salvia
cotta dentro il vino.
Ma il bagno prolungato
o in acqua troppo calda
dilata i vasi, dissolve
le virtù e lascia
senza forze, inanimati.

E, per aprire i pori,
le frizioni. Ma solo
dopo aver svuotato
vescica ed intestino.
E che non superino mai
il piacere, venendo
nel fastidio o nel dolore.

Olio canforato e un po’
di sale. Nelle ore
fresche dell’estate e,
massime, d’autunno
e a primavera, dopo
l’equinozio, ad eccitare
la virtù vitale.

La ritenzione del seme
genera visioni
passioni incontrollate,
con la massa che
dentro sale e preme
contro le pareti, e
lascia le forze più sfibrate.

Accarezzate fino a
un punto, avanti, ma
poi non soddisfatte.
Stanchi e delusi.
Dà vita, il coito, ai sensi
se dà soddisfazione, con
i compensi dell’eiaculazione.

Senza, però, una regola
precisa, che non
coincida se non
col desiderio,
la voglia di schizzare
a un tratto fuori del cerchio
in cui si è chiusi e prigionieri.


da Natura morta, Nino Aragno Editore, 2012

mercoledì 15 giugno 2016

Gino Scartaghiande

CANZONE


E non era cominciata l’ora
dappoco oscurata da una meraviglia
eterna; come i crinali lungo i monti
che vanno da una luna all’altra
vedendo la sua sera.
Pare che s’apre lunghesso il
vento. Calmo, come alcuno rumore
mai, che cala
conforme l’una sua
erta pendice: non hai tu mai
veduto come tra la dura siepe
s’effondi pure l’eco
di tua meraviglia, sapere
solo dove corpo tace
infatti chiude altra cosa
oltre presenza.
E s’alzano di punto
in bianco, uno scaturire
bianco ed un respirare solo.
S’aprono frapposti quasi
biancospini, che splendono
d’intorno cuori,
ora che già sembrano tali.

Se fosse vero che tu non hai
corpo che un manto di sole
che scintilla e non saresti
per così poco indetta delle notti
allo schianto che fragoroso
si frappone invece di uno corpo
la spada sulla nuda pietra
altra sarebbe infine lo splendore
e il tuo non esserti più giù rimessa.

Per noi soltanto avendoti
altra della pace serena
è un viso tra le foglie.
Come durano più a lungo
questo qualcosa tra cielo e terra
rotto in un lungo gesto della spada
né Egli non meno che nudo attende
la vinta stagione delle erbe.

da Oggetto e circostanza, Il Labirinto, 2016


lunedì 13 giugno 2016

Guido Cavalcanti

FRESCA ROSA NOVELLA

Fresca rosa novella,
piacente primavera,
per prata e per rivera
gaiamente cantando,
vostro fin presio mando – a la verdura.

   Lo vostro presio fino
in gio’ si rinovelli
da grandi e da zitelli
per ciascuno camino;
   e cantine gli auselli
ciascuno in suo latino
da sera e da matino
su li verdi arbuscelli.
   Tutto lo mondo canti,
po’ che lo tempo vène,
sì come si convene,
vostra’altezza presiata:
ché siete angelicata – crïatura.

   Angelica sembranza
in voi, donna, riposa:
Dio, quanto aventurosa
fue la mia dïsianza!
   Vostra cera gioiosa,
poi che passa e avanza
natura e costumanza,
ben è mirabil cosa.
   Fra lor le donne dea
vi chiaman, come sète;
tanto adorna parete,
ch’eo non saccio contare;
e chi poria pensare – oltra natura?

   Oltra natura umana
vostra fina piasenza
fece Dio, per essenza
che voi foste sovrana:
   per che vostra parvenza
ver’ me non sia luntana;
or non mi sia villana
la dolce provedenza!
   E se vi pare oltraggio
ch’ad amarvi sia dato,
non sia da voi blasmato:
ché solo Amor mi sforza,
contra cui non val forza – né misura.


da Rime, BUR, 1978

venerdì 10 giugno 2016

Paolo Ruffilli

DELL’ARIA



Serena e chiara
aperta a oriente
e non corrotta
da nebbie e da vapori
di stagni e fossi,
e non seccata
da polveri e da fumi.

Pura e temperata
non torbida e infetta
frizzante nel sangue
e nella testa.
E, se è offuscato e
grave il corpo, acqua
fresca e aceto, in casa.

Erbe, semi, fiori
e rami sparsi
nelle stanze: cime
di rovi, foglie
di lattuga, canna
essiccata mischiata
a petali di rose.

Col caldo, scorze di
cedri e di limoni,
menta e mele in giro.
E, quando è freddo,
decotto di salvia
bacche di ginepro
alloro e rosmarino.

Notti odorose di
pino, nell’estate.
E imposte non serrate:
che un filo d’aquilone
soffi l’alchermes
della tazza fuori dal
balcone, all’alba.

Nella stanza piegata
a settentrione.
E, d’inverno, intorno
acqua di melissa
aceto e rosmarino
nella casa alta
e volta a mezzogiorno.

Pelli di volpe
e lane fitte,
lenzuoli di cotone
sciacquati nella cenere
e panni avvolti
in fiori di lavanda
e zafferano.

Tela di lino sotto
alle coperte, canfora
e cera, nelle mezze
stagioni e
fuoco di larice
per intenerire umori
e sciogliere pollini.

Acqua di rose,
nei vasi, e gocce
di laudano,
un pomo sempre
sopra al comodino,
una carruba e
una castagna in tasca.

da Natura morta, Nino Aragno Editore, 2012

mercoledì 8 giugno 2016

Eloy Sánchez Rosillo

UNA STAGIONE ALL’INFERNO

La fine dell’infanzia – a dodici anni –
la trascorsi da interno in uno degli orribili
collegi religiosi di quell’epoca.
Inospitale e fredda, la città
dove quel centro alzava le sue mura
carcerarie. Trascorsi dietro di esse
un corso intero, solo, disperato,
tra insegnanti crudeli e strani condiscepoli.
Ricordo soprattutto il lunghissimo inverno:
neve triste che cade sopra cortili tristi
e umidità sottile che penetra le ossa.
Vi soffrii l’indicibile. Nel cuore
di un bambino talvolta può albergare
il dolore del mondo.

                                      Ma conservo
di quel gelido inferno alcuni bei ricordi:
m’accompagna e mi salva inesauribile
la loro luce. Una volta a trimestre
m’avvisavano che c’era mia madre,
venuta a visitarmi. E io correvo
nella lugubre sala dove lei m’aspettava.
Ed aprendo la porta di colpo la vedevo.
Era vero, era lei, giovane ancora,
bella, vicina, pronta ad abbracciarmi,
piena di baci e risa e di dolci parole.



Traduzione di Francesco Dalessandro

da Hilo de oro (Antología poética, 1974-2011), Catedra, 2014

lunedì 6 giugno 2016

Isaac Rosenberg

CREPUSCOLO

Un murmure d’innumeri acque, un dedalo di ruscelli in movimento;             l’incerta voce del silenzio dai fantasmi delle ombre dei sogni,
il lontano saluto del giorno che sfiora le dita della notte,
tutto sveglia all’occhio e all’udito ma simile ad ali spiegate 
                                                                                         /per l’anima in volo.

Possiamo guardare avanti o dietro di noi, guardare a sogni già sognati?
Luci fioche baluginano in lontananza, la lontananza è più fioca raggiunta.
Appena più fioca scolorirà alle nostre spalle e la notte innanzi a noi sarà 
                                                                                                          /giunta,
chi di noi, oh, attenderà l’alba, mentre le ombre della notte svaniscono?


Traduzione di Francesco Dalessandro

da The collected works of Isaac Rosenberg, Chatto and Windus, London

venerdì 3 giugno 2016

Paolo Ruffilli

DEL SONNO E DELLA VEGLIA



Come dall’orlo
di un burrone, dal
colmo su della salita
pronti a soddisfare
la sete trattenuta,
precipita nel vuoto
sta e dilaga.

Flussi e riflussi
ondate, alla deriva,
in mezzo ai ritagli
di parole, di immagini
slegate, in storie che
sovrappongono figure e
attorcigliano le trame.

E dall’avvolgersi, in
se stessa, della trottola
riemerge a tratti per
spire lente e successive
fino al pluff, al soffio
che risucchia dalle rive
nuovamente ai fatti.

Il sonno è traditore
se si prolunga troppo,
se ricomincia ad inseguire
la sua ombra, a rivoltarsi
a forza, a mordersi la coda.
Rafferma le sostanze
dentro i vasi.

Fa più traversa e spessa
l’aria, riempiendo
parte dei polmoni e
parte lasciandone al ristagno
e grava il cuore
e svuota il capo,
facendolo dolere.

A quell’estremo passo,
prima del salto a
capofitto, della caduta
su reti di vapore,
lasciarsi non si può
slittare dentro,
se corrono i pensieri.

Occorre opporsi un muro
contro cui attestarsi
sicuri del sicuro.
Nell’attimo lasciato e
chiusi a ogni futuro,
disporsi a cogliere
quel filo nella cruna.

Ed è più difficile
se non c’è margine
dal pasto, e il cibo
grava sullo stomaco
spostando il baricentro
verso il basso,
rompendo l’equilibrio.

Se piedi e pancia
non sono già
coperti e non si
è stesi al duro,
se non è posto in mezzo
un giusto schermo
ai raggi della luna.

Se non può entrare
l’aria fresca, se non
tranquillo e scuro
è il luogo, sulle prime.
E se non c’è una piega
gradita per il corpo:
forma del sonno.

Calcolo e misura
di un altro regime
di tensione, nel punto
in cui si pone a
condizione pura e
semplice del moto
lo stato della quiete.

Labirinto incantato
in cui si scioglie
il vincolo più ingrato,
si chiude la ferita.
Soffio vincente:
droga e macchia
d’olio nella mente.

Ma ruba vita
il sonno diurno,
aggrava e fa marcire
la ferita. Specie
quello meridiano,
di più nei giorni
accesi di canicola.

Sollievo sa darne
anche la veglia.
I nervi tesi e
l’attenzione del corpo
a tutte le sue parti,
gli sguardi vòlti
fino nei dintorni.

La mente che si scioglie:
si piega, si distende e
passa per le vene con il
sangue, si raccoglie nel
più piccolo interstizio,
riempie il vuoto
della carne.

da Natura morta, Nino Aragno Editore, 2012