ENTIERRO
Dal
5 agosto al 13 ottobre 2010
trentatré
minatori sono rimasti sepolti
nella
miniera San José do Copiacó
(Cile).
Fiore
che si depone
ai
propri piedi
e
con il collo piegato dai raggi
devasta
tutte le scene,
ecco
che noi sorgiamo
eloquenza
della pena
incatenati
dove
l’aria sovverte il respiro
in
archi tanto acuti che si muore
e
la caduta è libera di cominciare.
Estamos
bien nella terra che ci mangia
per
atroce diritto, la radice da cui siamo
fuoriusciti
di testa dentro il tempo
violento
del cielo
quello
del glicine
che
si torce un braccio alla volta tra i sibili
e
sale lungo le bianche sere
sulle
notti, finché sboccia
crollando
azzurro nel suo aprile.
Qui
è nero, s’inala attesa
ed
è una festa di ubriachi
estasiati
dall’umido della vena gonfia
suoi
globuli
al
ristagno nella quinta essenza
al
bordo di tutte le vite.
Che
storia godere da vivi la fama dei morti:
ogni
momento sta naturale nella sua purezza
come
piombato in un emblema d’oro
ogni
parola pesa il suo giusto
che
è miracoloso –
ha
nevicato in tutti noi oggi
perché
qualcuno ha bisbigliato neve.
I
nostri giorni adesso
sono
vostri, son tornati da voi
i
lontani –
noi
ci accostiamo insieme
al
denso cuore che rallenta
un’ala
profumata leva le mani dalle facce
e
sotto resta l’occhio
la
nuda qualità che ci è propria
ci
siamo noi nella povera luce.
Estamos
bien qua sotto
come
bambini nella disobbedienza
con
questo senso che nel cervello
dorme
e si sveglia al fondo
di
un silenzio minerale –
il
nome che ci detiene urla da solo
tatuato
sui muri.
Nell’antro
stretto il pensiero s’incurva
tanto
vicino ai corpi da sembrare
uno
specchio che ci osserva
è
come se quello che diciamo
fosse
ciò che prega d’esser detto
per
rimanere intorno
come
una stagione –
uno
splendore minimo incendiarsi
allucinati
non troviamo altro
lampi
dell’estate
in un sudario.
Pare
impossibile a quelli che eravamo
e
ancora spostano i piedi scorticati
calmi
nella memoria della terra
amandone
la forma con le mani.
Noi
cambiamo.
A
turno uno veglia
ripara
nella solitudine la tana
più
insicura, la figura del vivere
mentre
si sfalda teneramente, mentre
il
fuori arriva. E molti dormono
tuffati
nel guscio aperto
dove
i mondi si urtano uno con l’altro
come
all’ombra di un sole.
L’aria
che ci respira è inesauribile.
Così
lontani non torneremo mai –
ci
riusciranno altri
quelli
che stanno muti in fila per salire
sradicati
come gli esuli, gli spaesati
i
nati appena.
Da
La fine di quest’arte, Einaudi, 2015
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