venerdì 6 novembre 2015

Silvia Bre

ENTIERRO

                                        Dal 5 agosto al 13 ottobre 2010
                                        trentatré minatori sono rimasti sepolti
                                        nella miniera San José do Copiacó (Cile).


Fiore che si depone
ai propri piedi
e con il collo piegato dai raggi
devasta tutte le scene,
ecco che noi sorgiamo
eloquenza della pena
incatenati
dove l’aria sovverte il respiro
in archi tanto acuti che si muore
e la caduta è libera di cominciare.



Estamos bien nella terra che ci mangia
per atroce diritto, la radice da cui siamo
fuoriusciti di testa dentro il tempo
violento del cielo
quello del glicine
che si torce un braccio alla volta tra i sibili
e sale lungo le bianche sere
sulle notti, finché sboccia
crollando azzurro nel suo aprile.
Qui è nero, s’inala attesa
ed è una festa di ubriachi
estasiati dall’umido della vena gonfia
suoi globuli
al ristagno nella quinta essenza
al bordo di tutte le vite.
Che storia godere da vivi la fama dei morti:
ogni momento sta naturale nella sua purezza
come piombato in un emblema d’oro
ogni parola pesa il suo giusto
che è miracoloso –
ha nevicato in tutti noi oggi
perché qualcuno ha bisbigliato neve.
I nostri giorni adesso
sono vostri, son tornati da voi
i lontani –
noi ci accostiamo insieme
al denso cuore che rallenta
un’ala profumata leva le mani dalle facce
e sotto resta l’occhio
la nuda qualità che ci è propria
ci siamo noi nella povera luce.
Estamos bien qua sotto
come bambini nella disobbedienza
con questo senso che nel cervello
dorme e si sveglia al fondo
di un silenzio minerale –
il nome che ci detiene urla da solo
tatuato sui muri.
Nell’antro stretto il pensiero s’incurva
tanto vicino ai corpi da sembrare
uno specchio che ci osserva
è come se quello che diciamo
fosse ciò che prega d’esser detto
per rimanere intorno
come una stagione –
uno splendore minimo incendiarsi
allucinati non troviamo altro
lampi
dell’estate in un sudario.
Pare impossibile a quelli che eravamo
e ancora spostano i piedi scorticati
calmi nella memoria della terra
amandone la forma con le mani.
Noi cambiamo.
A turno uno veglia
ripara nella solitudine la tana
più insicura, la figura del vivere
mentre si sfalda teneramente, mentre
il fuori arriva. E molti dormono
tuffati nel guscio aperto
dove i mondi si urtano uno con l’altro
come all’ombra di un sole.
L’aria che ci respira è inesauribile.
Così lontani non torneremo mai –
ci riusciranno altri
quelli che stanno muti in fila per salire
sradicati come gli esuli, gli spaesati
i nati appena.

Da La fine di quest’arte, Einaudi, 2015


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