lunedì 30 novembre 2015

Onofrio Lopez

LE STRADE


                               I

Le strade sono lì per stordire i perdenti, 
non c’è materiale da calpestare che possa 
rendere leggero l’esercizio di movenze
caparbie come i giudizi rimuginati, svelte
alla ricerca di soluzioni effimere, e automatiche: 
perché camminare senza meta non richiede
l’agire conveniente dei percorsi premeditati.

                               II

Quello che conta, per chi come me non indulge 
ai propri demeriti e ne scolpisce l’anacronismo
su qualunque selciato, è il ritmo dei passi 
estraniato dal resto della baraonda, è lo sguardo 
che capta – nella folla instabile – pregi e difetti  
di  vincitori inventati , è la misura della distanza 
da loro che ebbero sorti prodighe, o ne avranno.

                               III

Il mio cammino è obbligato, introspezione 
visionaria di uno sconfitto che segue un rettilineo 
infinito, tra palazzi di scena e quinte semoventi,
con la frenesia incalzante presàga di carenze.
Niente induce a dosare lo sforzo; la spinta 
inconsulta dopo un po’ sfianca e trasforma
un esperimento privato in ebbrezza malata. 
                           
                                IV

Una traversa introdurrebbe l’assunto che a tutto
c’è rimedio. Dove porta? Quali prospettive
ignote collega? Svoltarvi sarebbe una licenza
opportuna. Oltre, salite e discese si alternerebbero 
cambiando il ritmo di marcia. Avrei il tempo
di distinguere meglio, nel riepilogo di reclami
incauti, se vi fu  l’occasione favorevole. 

                                 V

Ma le mie strade sono invisibili e non hanno 
scorciatoie, non regalano il sollievo di deviazioni 
brevi, o di espedienti che riducano la fatica 
del tragitto simulato. Chi perde lo sa. Si prosegue
a diritto con la stessa estraniazione – cadenzata – 
dei gesti avulsi dalla trama. Si compongono 
sillogismi  volatili solo ad uso di sé.  

Giugno 2015

(inedita)




venerdì 27 novembre 2015

Eloy Sánchez Rosillo

Mi dicevo: «Se la Poesia sceglie il poeta al quale concedersi come una giovane donna piena di desideri, desiderosa d’innamorarsi, sceglie colui che le piace fra i suoi coetanei, io, con l’età che avanza, i capelli bianchi, il mal di schiena, la pinguedine del ventre, la gravità del dire e dei movimenti, devo aver perso ogni attrattiva; quindi è giusto che la Poesia volga lo sguardo altrove».


ANCORA LA POESIA      

Era da tempo ormai che la mia mano
non scriveva più versi e mi dicevo
spesso:
               “Può darsi che non torni più 
a scriverne; magari la poesia
non vuole appartenerti o accompagnarti, 
né portarti la luce che rendeva 
bella la vita; a volte è immeritato
ardere in questo fuoco, pronunciare 
le parole che offrono gli dèi 
come un dono agli eletti perché degni
di celebrare le cose del mondo 
e averne sulle labbra il sentimento”. 
                         Spesso questo pensiero
m’accompagnava nell’inquieto andare 
solo come un proscritto nella notte
che non sopporta più 
il peso della colpa né il dolore 
d’esser stato scagliato nell’ombra
da una mano forte e giustiziera.
E guardando quegli alberi che crescono
in una vecchia piazza della città in cui vivo,
il volo di un uccello ed i fulgori
misteriosi di un corpo che s’abbandona sento 
che la parola non ha più il potere
di riversare sulla carta bianca
la grazia ed il tremore della vita.

Pure infine stasera, d’improvviso,
mentre il sole già stanco se ne andava
e non immaginavo d’esser chiamato ancora,
ho ascoltato una voce che diceva:

“Prendi la penna, scrivi”.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Las cosas como fueron. Poesía completa, 1974-2003, Tusquets, 2004

mercoledì 25 novembre 2015

Mario Santagostini

PETRARCA, IPERSECRETUM. IN PRIMA PERSONA

Il mio dizionario era minimo,
la prosa impraticabile.
Ma ho visto nelle parole
ansie di protagonismo che vengono
da lontano, non so da dove.
A volte penso: stanno
qui, ma come dopo una caduta.
E siamo noi il loro abisso.
Noi autori di opere, intendo.
Chissà cos’erano prima.

Un surplus d’universo, nemmeno
il più dolente: questo
è stato il mio Canzoniere, in fondo.

Da Felicità senza soggetto, Mondadori, 2014

lunedì 23 novembre 2015

Onofrio Lopez

LA PESCAIA


                         I

La pescaia rende rapida l’acqua 
della piena a valle dell’ultimo ponte,
non trattiene rami e zolle estorti 
alle sponde sorprese inermi, ingaggia
la paratoia della memoria che apro 
allo scorrere incontinente di misture 
inconscie simili a corpi fluidi.

                          II

Da sempre volubile, il fiume orchestra 
fragore e schiuma nel salto ipnosi 
della corrente, si disperde da un tempo 
zero, convenuto, al tempo infinito, postulato, 
tra argini liberati dalla macchia superflua 
usati come tribune gratuite, di fronte  
all’impeto che sommerge ogni intralcio.


                          III

Un sentimento già provato gorgoglia
d’instabilità nello stesso riflusso che guardo,
cercando la formula del cambiamento
negli eventi  più ovvii, negli schizzi 
che bagnano senza necessità un bersaglio, 
nella competizione di gabbiani prolifici 
rientrati in città a svezzare la discendenza. 


                          IV

Di giorno, un’illusione ottica stordisce 
di luce riflessa l’archivio immateriale 
di miei frammenti d’epoca, paradigma
effimero di qualcosa che muta e che
disseta. Di sera, distorti i contorni 
della scena, poi il buio salverà almeno 
il suono degli scrosci senza colori. 


                         V

Solo l’aridità ostinata ucciderà 
quest’abbondanza di umori e di moti. 
Sotto la diga asciugata – le crepe 
nel fondamento tornate allo scoperto, 
le fratture dell’esistente macchiate 
di fango – il guado a piedi della terra 
secca sarà un gioco fra le rive indurite. 

    
Aprile 2015

(inedita)

venerdì 20 novembre 2015

Rosa Salvia

UN SOTTILE SCRUTARE


XV

Va’, naviga per me,
e non voltarti mai,
disse la pietra che guardava.


XVI

Il nàutilo fioriva e fluiva,
pervasivo ed evasivo
come l’esperienza.


XVIII

L’alluvione:
tutto ghiacciato in una foto,
tutto bruciato in un lampo.


XXI

Mio caro Giobbe
la tua pazienza fa fiorire
persino le pietre!


XXII

L’audacia della ragione sta nel
riconoscere che c’è un’infinità di cose
che la sorpassano.


XXIV

Il senso dell’ironia
e dell’auto-ironia
sono una garanzia di libertà.


XXV

Il dolore dei Sassi era tanto
vicino
da poterlo toccare con le mani.


Da Dolore dei Sassi, Puntoacapo, 2015

mercoledì 18 novembre 2015

Rosa Salvia

UN SOTTILE SCRUTARE


VII

Nell’ insensibilità si annida
il caos –
così la parola innocente appare
stolta
e una ragnatela acceca la finestra
sino al millimetro; lentamente,
lentamente.


X

Stanca di quelli che si presentano
con parole, parole,
ma nessuna lingua,
mi son messa a inseguire il suono della luce
nel libro degli alberi.


XI

Capovolto
il pensiero
scivola
in un mondo
tagliato a strisce,
sforbiciato con precisione,
tra raffiche di vento
nel crudo gioco delle stagioni.


XII


Pina Bausch nuota incontro alla danza
e scuote via l’acqua
dal suo petto di cigno.


XIII

Primo vagito.
La melagrana che ha spaccato
era piena di stelle.


XIV

Gli alberi sussurravano:
le foglie bevevano il vento.
E dal vuoto sorse a nuoto la luna.


(segue)

Da Dolore dei Sassi, Puntoacapo, 2015

lunedì 16 novembre 2015

Rosa Salvia

UN SOTTILE SCRUTARE


I

Sarà la voce
dei nostri amici morti
o la tramontana
che penetra nelle ossa
e le consuma?


II

Se annotta
se albeggia
rimane in preghiera
il crisantemo.


III

Lucidi specchi
nel tuo tempo di neve
splendevano i ghiaccioli –

Tu li raccoglievi
nel grembo della mano
rossa di freddo:
suono duro della realtà
contro i tuoi candidi, candidi sogni.


IV

Oh, il fiume Basento della tua infanzia
che risali e passi e guadi,
mai lo smarrisci: acqua con acqua
come gabbiani voi due vi cullate!


V

Sul fiume, a sera, scoppia un clamore:
fughe d’ali, pigolii, tremolii d’onde…

Perché tanto trambusto?

Si accende un disco sulle acque nere:
è la luna che s’alza e viene a bere.


VI

Sul fiume c’è una barca:
ha i remi rotti –

scendi…
esplori il relitto…
carezzi ogni fessura
e aspetti
che un gabbiano si posi
dentro il legno cavo
e scaldi in tal modo
quel nido selvaggio.



(segue)

da Dolore dei Sassi, Puntoacapo, 2015

venerdì 13 novembre 2015

Philippe Jaccottet

L’IGNORANTE

Più invecchio e più io cresco in ignoranza,
meno possiedo e regno più ho vissuto.
Quello che ho è uno spazio volta a volta
innevato o lucente, mai abitato. E il donatore
dov’è, la guida od il guardiano? Io rimango
nella mia stanza, e taccio (entra il silenzio
come un servo che venga a riordinare),
e attendo che a una a una le menzogne
scompaiano: cosa resta? Cosa rimane a questo moribondo
che gli impedisce ancora di morire? Quale forza
lo fa ancora parlare tra i suoi muri?
Potrei saperlo, io, l’ignaro e l’inquieto? Ma la sento
parlare veramente, e ciò che dice
penetra con il giorno, anche se è vago:

«Come il fuoco, l’amore splende solo
sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere... »

Traduzione di Fabio Pusterla

da Il barbagianni. L’ignorante, Einaudi 2010


mercoledì 11 novembre 2015

Vincenzo Anania

DILEMMA

Seguendo l’estro di quelle mani amate,
che schermendosi in aria architettano difese,
da un sortilegio è catturato: girovaga,
ma come spinto, fra muri a picco e cangianti,
su mobili scalee sotto rotanti archi. Sfiora,
in volo lungo e lento, volte candide e viola,
la grazia di un giardino replicato in specchi.
Finché si arresta a un fitto labirinto
di bosso e lauri, di sibili e sospiri,
a dilemma costretto fra due fili serici:
uno che porta alla selva carezzevole
l’altro al precipizio del rifiuto.

da Biblioteca, Zona Editrice, 2007


lunedì 9 novembre 2015

Sivia Bre

LA POCA LA POVERA COSA

La poca la povera cosa
si mette davanti, s’imposa
come una donna nascosta
in un velo da sposa.

E io maledetta che ho scelto
la sua parte, quel buio senza ritegno
in cui cadere,
la fine di quest’arte.



Da La fine di quest’arte, Einaudi, 2015

venerdì 6 novembre 2015

Silvia Bre

ENTIERRO

                                        Dal 5 agosto al 13 ottobre 2010
                                        trentatré minatori sono rimasti sepolti
                                        nella miniera San José do Copiacó (Cile).


Fiore che si depone
ai propri piedi
e con il collo piegato dai raggi
devasta tutte le scene,
ecco che noi sorgiamo
eloquenza della pena
incatenati
dove l’aria sovverte il respiro
in archi tanto acuti che si muore
e la caduta è libera di cominciare.



Estamos bien nella terra che ci mangia
per atroce diritto, la radice da cui siamo
fuoriusciti di testa dentro il tempo
violento del cielo
quello del glicine
che si torce un braccio alla volta tra i sibili
e sale lungo le bianche sere
sulle notti, finché sboccia
crollando azzurro nel suo aprile.
Qui è nero, s’inala attesa
ed è una festa di ubriachi
estasiati dall’umido della vena gonfia
suoi globuli
al ristagno nella quinta essenza
al bordo di tutte le vite.
Che storia godere da vivi la fama dei morti:
ogni momento sta naturale nella sua purezza
come piombato in un emblema d’oro
ogni parola pesa il suo giusto
che è miracoloso –
ha nevicato in tutti noi oggi
perché qualcuno ha bisbigliato neve.
I nostri giorni adesso
sono vostri, son tornati da voi
i lontani –
noi ci accostiamo insieme
al denso cuore che rallenta
un’ala profumata leva le mani dalle facce
e sotto resta l’occhio
la nuda qualità che ci è propria
ci siamo noi nella povera luce.
Estamos bien qua sotto
come bambini nella disobbedienza
con questo senso che nel cervello
dorme e si sveglia al fondo
di un silenzio minerale –
il nome che ci detiene urla da solo
tatuato sui muri.
Nell’antro stretto il pensiero s’incurva
tanto vicino ai corpi da sembrare
uno specchio che ci osserva
è come se quello che diciamo
fosse ciò che prega d’esser detto
per rimanere intorno
come una stagione –
uno splendore minimo incendiarsi
allucinati non troviamo altro
lampi
dell’estate in un sudario.
Pare impossibile a quelli che eravamo
e ancora spostano i piedi scorticati
calmi nella memoria della terra
amandone la forma con le mani.
Noi cambiamo.
A turno uno veglia
ripara nella solitudine la tana
più insicura, la figura del vivere
mentre si sfalda teneramente, mentre
il fuori arriva. E molti dormono
tuffati nel guscio aperto
dove i mondi si urtano uno con l’altro
come all’ombra di un sole.
L’aria che ci respira è inesauribile.
Così lontani non torneremo mai –
ci riusciranno altri
quelli che stanno muti in fila per salire
sradicati come gli esuli, gli spaesati
i nati appena.

Da La fine di quest’arte, Einaudi, 2015


mercoledì 4 novembre 2015

Silvia Bre

SE IL NOSTRO LUOGO È DOVE

Se il nostro luogo è dove
il silenzioso guardarsi delle cose
ha bisogno di noi
dire non è sapere, è l’altra via,
tutta fatale, d’essere.
Questa la geografia.
Si sta così nel mondo
pensosi avventurieri dell’umano,
si è la forma
che si forma ciecamente
nel suo dire di sé
per vocazione.


Da La fine di quest’arte, Einaudi, 2015

lunedì 2 novembre 2015

Folgóre da San Gimignano

DI NOVEMBRE

E di novembre a Petrïuolo, al bagno,
con trenta muli carchi di moneta:
le rughe sien tutte coperte a seta;
coppe d’argento, bottacci di stagno;

e dare a tutti stazzonier guadagno;
torchi e doppier che vengan di Chiareta,
confetti con cedrata di Gaeta;
bëa ciascuno e conforti ’l compagno.

E ’l freddo vi sia grande e ’l fuoco spesso;
fagiani, starne, colombi e mortiti,
levori e cavriuoli arrosto e lesso;

e sempre avere acconci gli appetiti;
la notte ’l vento e ’l piover a ciel messo,
e siate nelle letta ben forniti.

Da Sonetti dei mesi, a cura di Valerio Bartoloni, con incisioni di Romano Masoni, Comune di San Gimignano, 2007