mercoledì 30 settembre 2015

Michelangelo Buonarroti

I’ STO RINCHIUSO COME LA MIDOLLA


I’ sto rinchiuso come la midolla
da la sua scorza, qua pover e solo,
come spirto legato in un’ampolla:

e la mia scura tomba è picciol volo,
dov’è Aragn’ e mill’opre e lavoranti,
e fan di lor filando fusaiuolo.

D’intorn’a l’uscio ho mete di giganti,
ché chi mangi’uva o ha presa medicina
non vanno altrove a cacar tutti quanti.

I’ ho ’mparato a conoscer l’orina
e la cannella ond’esce, per quei fessi
che ’nanzi dì mi chiamon la mattina.

Gatti, carogne, canterelli o cessi,
chi n’ha per masserizi’ o men vïaggio
non vïen a mutarmi mai senz’essi.

L’anima mia dal corpo ha tal vantaggio,
che se stasat’ allentasse l’odore,
seco non la terre’ ’l pan e ’l formaggio.

La toss’ e ’l freddo il tien sol che non more;
se la non esce per l’uscio di sotto,
per bocca il fiato a pen’ uscir può fore.

Dilombato, crepato, infranto e rotto
son già per le fatiche, e l’osteria
è morte, dov’io viv’ e mangio a scotto.

La mia allegrezz’ è la maninconia,
e ’l mio riposo son questi disagi:

che chi cerca il malanno, Dio gliel dia.

Chi mi vedess’ a la festa de’ Magi
sarebbe buono; e più, se la mia casa
vedessi qua fra sì ricchi palagi.

Fiamma d’amor nel cor non m’è rimasa;
se ’l maggior caccia sempre il minor duolo,
di penne l’alma ho ben tarpata e rasa.

Io tengo un calabron in un orciuolo,
in un sacco di cuoio ossa e capresti,
tre pilole di pece in un bocciuolo.

Gli occhi di biffa macinati e pesti,
i denti come tasti di stormento
c’al moto lor la voce suoni e resti.

La faccia mia ha forma di spavento;
i panni da cacciar, senz’altro telo,
dal seme senza pioggia i corbi al vento.

Mi cova in un orecchio un ragnatelo,
ne l’altro canta un grillo tutta notte;
né dormo e russ’ al catarroso anelo.

Amor, le muse e le fiorite grotte,
mie scombiccheri, a’ cemboli, a’ cartocci,
agli osti, a’ cessi, a’ chiassi son condotte.

Che giova voler far tanti bambocci,
se m’han condotto al fin, come colui
che passò ’l mar e poi affogò ne’ mocci?

L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui
di tant’opinïon, mi rec’a questo,
povero, vecchio e servo in forz’altrui,

ch’i’ son disfatto, s’i’ non muoio presto.
Da Rime, BUR, 1975

lunedì 28 settembre 2015

Giambattista Vico


AFFETTI DI UN DISPERATO

Lasso, vi prego, acerbi miei martìri,
a unirvi insiem ne la memoria oscura,
se cortesi mai sète in dar tormento;
poiché son tanti, che lo mio cor dura,
di mille vostre offese i vari giri,
ch’i’ non ben vi conosco e pur vi sento:
talché di rimembrar meco pavento
le mie sciagure. Or voi, sospiri accesi,
ite a seccarmi i pianti in mezzo al varco
del ciglio d’umor carco;
e voi, da miei sospir miei pianti offesi,
tornando in giù, di lor vi vendicate
con sommergerli adentro ’l mesto core,
a cui per le vostr’onte ornai si toglia
che possa la sua cruda amara doglia
sfogar, poiché così agio non fate
ch’uscendo fuor con voi il mio dolore,
lasci l’albergo d’ogni nostro affetto;
perch’io, finché m’ha morto, in mezzo al petto
serbarlo vo’, se mai quel che m’avviva
potrà menarmi del mio corso a riva.
Perché cadente ornai è ’l ferreo mondo
e son già instrutti a farci strazio i fati,
di pari con le colpe i nostri mali
crebber sugli altri delle prische etati
troppo altamente, poiché sotto il pondo
di novi morbi i gravi corpi e frali
gemono smorti, ed a la tomba l’ali
il viver nostro ha più preste e spedite,
e son sempre feconde le sventure
di sì fatte sciagure
non più per nova o antica fama udite,
e dal pensier uman tanto lontane
che crederle men sa chi più le prova:
talché sembra lo ciel che non più accenda
benigno lume, onde qua giù discenda
un’alma lieta. Or chi cotanto strane
guise di mali intende mai per prova,
se potesse mirar qual è lo scempio
che di me fa mio destin fèro ed empio,
al suo, ch’or chiama avaro ed or crudele,
grazie sol renderia, non che querele.
Di qualunque animal, quando primiero
a l’ime soglie del suo viver giunge,
lo ’nfocato vigor onde ha la vita,
con dolci nodi amici e’ si congiunge
la sua salma; e un caso adverso e fèro,
pur sia stella avara in darmi aita,
o natura dal suo corso smarrita,
di duo adversari me, lasso! compose:
il mio mortale infermo, afflitto e stanco,
ch’omai par venir manco,
strazia l’alma con pene aspre, noiose;
e ’l mio miglior, che d’egre cure abonda,
affligge ’l corpo con crudeli pesti:
e mentre, oimè! con pensier molto e spesso
me ’nterno a sentir me contro me stesso,
membro non ho ch’a l’anima risponda,
poiché non ho vertù che i sensi désti,
se non se ’n quanto mi si fan sentire
gli acerbi effetti de’ lor sdegni ed ire.
In sì misero stato e sì doglioso
va’, spera, se tu puoi, qualche riposo.
Ma ’l piacer fèro di dolermi sempre
parmi ch’alleggi in parte ’l mio cordoglio,
se del mio stato a lamentar mi mena;
ond’io, ch’a più e a più dolor me ’nvoglio,
farò, cantando con suavi tempre,
che pel contrario suo poggi mia pena.
Vita sovra ’l mortai corso serena,
moderati piacer, delizie oneste,
tesori per valor vero acquistati,
onori meritati,
mente tranquilla in abito celeste;
e, perché più lo mio dolor s’avanzi,
talché null’altro mai fia che l’agguagli,
amor di cui è sol amor mercede,
e vicende gentil di fé con fede,
venite al tristo pensier mio dinanzi,
ch’e’ vi farà sembrar pene e travagli
a lo mio cor, perché di duol trabocchi,
sì come rossa gemma avanti gli occhi
posta talora, egli adivien che facci
rassembrar sangue il latte e fiamme i ghiacci.
Rinfacciatemi or voi, s’unqua potete,
qualche vostro favor, stelle crudeli!
Ite, e ven prego, a ritrovarlo ornai
entro quei moti de’ benigni cieli,
che ’nfluiscon qua giù gioie men liete.
Solo ben io da me so che non mai
bevvi respir, che non traessi guai.
Deh! perché da la vita altra beata,
stanco da tante alte sciagure e rotto,
misero, fui condotto
a la presente amara e disperata?
Poiché, se mai a’ giorni, a’ mesi, agli anni,
c’ho speso nel dolor, i’ son rivolto,
veggio esser nato per mia cruda sorte
solo a fiamme, sospir, lagrime e morte.
E così crudi scempi e acerbi affanni
non m’hanno in quel che i’ era ancor disciolto.
Ah, che daranno tempo al fato rio
che meglio studi ’l precipizio mio;
se non è forse che la morte avara
tema col mio morir farsi più amara!
Mi venne sol da luminosa parte
del cielo una vaghezza di destare
a pie de’ faggi e poi de’ lauri a l’ombra
la bella luce che fa l’alme chiare,
ch’a la povera mia si spense in parte
quando se ’ndossò ’l velo onde s’adombra:
talché, d’alto stupor finor ingombra,
parea a se stessa dir: – Lassa! chi sono? –
debbami dar il nome;
ma sempre ’l chiamerò pena e non dono,
se affligge più chi più conosce il male.
Oh inver beati voi, ninfe e pastori,
cui sa ignoranza cagionar contenti,
ch’obliati sudor, fatighe e stenti
acquetar vi sapete a un dono frale
o di poma o di latte over di fiori;
ed al caldo ed al gel diletto e gioco
vi reca l’ombra fresca e ’l sacro foco;
ne altra gioia a voi sembra che piaccia
che rozzo amore o faticosa caccia!
Ma qual piacere i’ seguo, afflitto e lasso,
fra tanti strazi abbandonato e solo,
ne la misera mia vita che meno?
che fatto son noioso incarco al suolo,
anco infecondo, dove ’l tronco e ’l sasso,
come in suo centro, han la lor quiete. Almeno
il mio piacer e’ fosse il venir meno;
ma ’l fato me ’l disdice. Or, se mi serbo
sempre a novi sospiri e a pianti novi,
piovi miserie, piovi
sovra ’l mio capo, empio destino acerbo;
e non voler meco mostrarti avaro
d’altri scempi più infesti e più nemici,
ch’i’ tua penuria e non pietà la stimo;
se non è forse invidia ch’i’ sia ’l primo
tra disperati e che mi renda chiaro
essempio di dolor agl’infelici.
Ma per le pene mie i’ giuro a queste
aspre selve, solinghe, orride e meste,
che non mai turberà, mentre respiro,
i lor alti silenzi un mio sospiro.
Canzon, sola rimanti a pianger meco
dove serbo ’l dolor, né fra la gente
d’ir chiedendo piotate abbi vaghezza;
che l’alto mio martìr conforti sprezza.
Ma, se doglia compianta e’ men si sente,
sdegna ch’ancor tu resti a pianger seco
l’afflitto cor, che disperato vòle
che l’aspre pene sue si sentan sole.

venerdì 25 settembre 2015

Saffo

DICONO ALCUNI

Dicono alcuni che sulla terra nera sia la cosa
più bella un esercito di cavalieri,
altri di fanti, altri di navi, io invece
quel che uno ama.

È così facile farlo capire
a chiunque; perché colei che superò
ogni umana bellezza, Elena, lasciò lo sposo
che era valente,

andò per mare a Troia;
e non si ricordò della figlia, né dei genitori
cari, ma Cipride la trascinò
presa da amore.

[...]



Traduzione di Rosita Copioli

da Più oro dell’oro, Medusa, 2006

mercoledì 23 settembre 2015

Saffo

DUE FRAMMENTI

*

Eros mi scuote la mente,
come il vento sbatte le querce sul monte.


**

Chi è bello risulta bello finché lo si guarda,
ma chi ha valore è subito anche bello.


Traduzione di Rosita Copioli

da Più oro dell’oro, Medusa, 2006

lunedì 21 settembre 2015

Saffo

È TRAMONTATA LA LUNA

È tramontata la luna
e le Pleiadi; sono a metà le ore
della notte, il tempo passa
e io giaccio sola.

Traduzione di Rosita Copioli

da Più oro dell’oro, Medusa, 2006


venerdì 18 settembre 2015

Guillaume Apollinaire

NEVICATA

Angeli angeli in cielo
uno è vestito da ufficiale
uno è vestito da cuoco
e gli altri cantano

Bell’ufficiale che color cielo hai,
la dolce primavera tempo assai
dopo Natale
medaglia ti farà con un bel sole
con un bel sole

Il cuoco spenna le oche
ah cadi neve cadi
e perché io dunque non ho
la cara mia tra le braccia


Traduzione di Eurialo De Michelis

da Poesie, Nuova Accademia Editrice, 1960

mercoledì 16 settembre 2015

Raffaela Fazio

QUESTA È L’ORA


Questa è l’ora
tra il cane e il lupo
quando il ciglio non sa
se all’erba
sposarsi piano
o cedere al dirupo
è l’ora
in cui non ho appigli
né viscere voli versi
da indagare
è l’ora
in cui ho voglia di scordare
che lungamente
ovunque
prima del tempo
sei
         ma proprio là
         all’estremo spingersi
è l’ora
del preludio di un’altra ora


mio bene mio male
mia irreale linea d’orizzonte


che unisci tocco a tocco
i punti che neppure vedi
e insieme spacchi
il mondo a metà
perché lo ami
dalla testa ai piedi.


(inedita)


lunedì 14 settembre 2015

Francesco Serrao

DAL MARE

Unirà la burrasca di marzo primavera sul mare                                                 / in autunno
col vento che stride
la donna che si mette il rossetto,
scogli,
nero uccello che plana sul verde,
e lontane cabine da accendersi più tardi,
al tramonto.



Da Tra notte e mattino, Garzanti, 1985

venerdì 11 settembre 2015

Guillaume Apollinaire

L’ADDIO DEL CAVALIERE

Dio mio com’è bella la guerra
coi suoi canti i lunghi riposi
Quest’anello l’ho molato io
Si mesce il vento ai tuoi sospiri

Addio! Ecco già il buttasella
Scomparve al voltar del cammino
e morì laggiù che ancora ella
rideva al meraviglioso destino


Traduzione di Eurialo De Michelis

da Poesie, Nuova Accademia Editrice, 1960

mercoledì 9 settembre 2015

Roberto Pazzi

IL VIAGGIO

Tu sei la terra che non finisce mai
e gira e torna sempre alle stagioni,
tu sei la fine della paura
che il sole non risorga
e la vita d’una colpa si spenga.
Vince il tuo canto il sapore
d’un corpo solo e prigioniero,
il timore del ritorno
alla solitudine delle stelle.
Tu sei lo spavento della bellezza
quando mi chiami e non parli,
il desiderio della fine
quando mi stringi,
il tempo che si rompe nel sospetto
d’un altro tempo tuo senza di me,
quell’era arcaica ch’io non vedrò mai.
Io sono il fumo della vita
che bruciò quel tempo favoloso
e vago in te come esploratore
timoroso che l’altro, dagli antipodi,
lo preceda allo zero del polo
per piantare il vessillo del suo re.

Da Calma di vento, Garzanti, 1987


lunedì 7 settembre 2015

Nicola Dal Falco

IN QUELLE SPIAGGE ANTICHE

in quelle spiagge antiche, in cui la risacca
rimescola oggetti di forma consueta, levigati
dall’ora marina che svolge e riavvolge il tempo
in meandri sonori, cogliendo l’eco
di qualcosa che non può abbandonarci
del tutto,

dove una riga di case s’imparenta al sale,
ai colpi di vento che scavano nicchie nei muri
per il prossimo sole, chiaro appena e già maturo;
dove il porto tiene avvinto un piccolo mare,
sufficiente a qualsiasi sogno di traversata
per uomini o pesci; dove chi cammina
lo fa inconsciamente sull’acqua anche
quando rende visita a lecci e ginestre;

qui, in attesa che si ragioni una cena
mettendo nuove scie nel piatto,
che la distanza tra due capi converga
in un punto remoto, stimando vicino
quanto prima annegava alla vista


(inedita)

venerdì 4 settembre 2015

Guido Cavalcanti

DI VIL MATERA MI CONVEN PARLARE

Di vil matera mi conven parlare
e perder rime, silabe e sonetto,
sì ch’a me stesso giuro ed imprometto
a tal voler per modo legge dare.

Perché sacciate balestra legare
e coglier con isquadra archile in tetto
e certe fiate aggiate Ovidio letto
e tra quadrelli e false rime usare,

non po’ venire per la vostra mente
là dove insegna Amor, sottile e piano,
di sua manera dire e di su’ stato.

Già non è cosa che si porti in mano:
qual che voi siate, egli è d’un’altra gente:
sol al parlar si vede chi v’è stato.

Già non vi toccò lo sonetto primo:
Amore ha fabricato ciò ch’io limo.

Da Rime, Einaudi, 1967


mercoledì 2 settembre 2015

Folgóre da San Gimignano

DI SETTEMBRE

Di settembre vi do diletti tanti:
falconi, astori, smerletti e sparvieri,
lunghe, gherbegli e geti con carnieri,
bracchetti con sonagli, pasti e guanti;

bolze, balestre dritte e ben portanti,
archi, strali, pallotte e pallottieri;
sianvi mudati girfalchi ed astieri
nidaci e di tutt’altri uccel volanti,

che fosser buoni da snidar e prendere;
e l’un all’altro tuttavia donando,
e possasi rubare e non contendere;

quando con altra gente rincontrando,
le vostre borse sempre acconce a spendere,
e tutti abbiate l’avarizia in bando.


Da Sonetti dei mesi, a cura di Valerio Bartoloni, con incisioni di Romano Masoni, Comune di San Gimignano, 2007