venerdì 27 febbraio 2015

Umberto Saba

IL RATTO DI GANIMEDE

Era un giorno fra i giorni. Era sereno
l’Ida; le capre brucavano in pace,
date in guardia a pastore adolescente.
Solo il cane qua e là vagava inquieto.

Sul volto del fanciullo ombre passavano.
Forse troppo severo il re suo padre.
Forse anelava ai compagni
                                                  – sull’Ida  
erano molti della stessa età,

che tutti delle stesse gare amanti,
per il bacio di un serto, violenti
si abbracciavano a un coro d’alte grida. –
Bianche in cielo correvano le nubi.

Sempre il cane su e giù fiutava all’erta,
ed il gregge più unito in sé stringevasi.
Ai presagi insensibile, il pastore,
oblioso al suo compito, sognava.


Fulminava dal cielo aquila fosca.
Si sbandavano greggi, si sgolava
il cane.
              Già dell’azzurro il fanciullo
bagnava un’ultima volta la terra.


Da  Parole – Ultime cose – Mediterranee – Uccelli – Quasi un racconto, Oscar Mondadori, 1966 


mercoledì 25 febbraio 2015

Charles Baudelaire

PROFUMO ESOTICO

Quando, a occhi chiusi, una calda sera d’autunno, respiro il profumo del tuo seno ardente, vedo scorrere rive felici che abbagliano i fuochi di un sole monotono;

una pigra isola in cui la natura esprime alberi bizzarri e frutti saporosi, uomini dal corpo snello e vigoroso e donne che meravigliano per la franchezza degli occhi.

Guidato dal tuo profumo verso climi che incantano, vedo un porto pieno d’alberi e di vele ancora affaticati dall’onda marina,

mentre il profumo dei verdi tamarindi che circola nell’aria e mi gonfia le narici, si mescola nella mia anima al canto dei marinai.


Traduzione in prosa di A. B.

Da I fiori del male, I grandi libri Garzanti, 1975

lunedì 23 febbraio 2015

Francesco Dalessandro

ALTRI ACCUMULI ORO

Altri accumuli oro
ricchezze e quanti beni
sono al mondo
poi lo spaventi perderli.
Io d’una vita ben
guadagnata e da spendere
serenamente del
poco che mi regala
la sorte mi contento.

Non è un tesoro questo 
che domando: un lettuccio.
Ma là disteso mentre
fuori infuriano i venti
tenerti stretta 
tra le braccia e al tepore 
del fuoco prender sonno 
sereni, queste sì
sarebbero ricchezze.

(Imitazione da Tibullo, Corpus tibullianum, I, 1,  vv. 1-6 / 43-48)



venerdì 20 febbraio 2015

William Butler Yeats

VERSO BISANZIO


I.

Quello non è un paese per vecchi. I giovani
L’uno nelle braccia dell’altro, gli uccelli sugli alberi
– Quelle  generazioni mortali – intenti al loro canto,
Le cascate ricche di salmoni, i mari gremiti di sgombri,
Pesce, carne, o volatile, per tutta l'estate non fanno che esaltare
Tutto ciò che è generato, che nasce, e che muore.
Presi da quella musica sensuale tutti trascurano
I monumenti dell’intelletto che non invecchia.

II.

Un uomo anziano non è che una cosa miserabile,
Una giacca stracciata su un bastone, a meno che
L’anima non batta le mani e canti, e canti più forte
Per ogni strappo nel suo abito mortale,
Né v’è altra scuola di canto se non lo studio
Dei monumenti della sua magnificenza;
E per questo io ho veleggiato sui mari e sono giunto
Alla sacra città di Bisanzio.

III.

O saggi che state nel fuoco sacro di Dio
Come nel mosaico dorato d’una parete,
Scendete dal sacro fuoco, discendete in una spirale,
E siate i maestri di canto della mia anima.
Consumate del tutto il mio cuore; malato di desiderio
E legato a un animale mortale,
Non sa quello che è; e accoglietemi
Nell’artificio dell'eternità.

IV.

Una volta fuori dalla natura non assumerò mai più
La mia forma corporea da una qualsiasi cosa naturale
Ma una forma quale creano gli orefici greci
Di oro battuto e di sfoglia d’oro
Per tener desto un Imperatore sonnolento;
Oppure posato su un ramo dorato a cantare
Ai signori e alle dame di Bisanzio
Di ciò che è passato, o che è, o che sarà.

Traduzione di Giorgio Melchiorri

da Quaranta poesie, Einaudi, 1965

mercoledì 18 febbraio 2015

Eloy Sánchez Rosillo

Ogni mattina un grosso merlo (spesso con la compagna) scende nel mio giardino, per banchettare con le briciole che dopo ogni pasto faccio cadere dalla tovaglia in mezzo all’erba. Avevo deciso di scriverci una poesia, poi mi sono ricordato che l’aveva già scritta il mio amico Eloy e che io l’avevo tradotta. Eccola.

IL MERLO

Il merlo va osservato per capirlo,
perché altrimenti potrebbe ingannarti
la severa apparenza che presenta
il luttuoso piumaggio. Se lo guardi,
saprai che non ha niente del misantropo
o di simile gente. È molto allegro
sotto quella tenuta che compatta
persevera nel nero. Passa il giorno
lavorando di zappa nel giardino
col suo becco affilato color zucca
e non c’è verme per cui non dimostri
un profondo interesse. Appena alzato
esco sulla terrazza per vedere
la mattina che fa. Io m’alzo all’alba
ma lo trovo già in piedi. Mentre guardo
è lì che lui va incontro alla compagna,
saltellando superbo sopra il prato,
tutto azzimato e con la coda dritta.
Traccia piccoli voli circolari
e ad intervalli prova i suoi gorgheggi
metallici. Se stona, qualche volta,
insiste per corregge gli errori.
Lo vedo così spesso che oramai
anche lui m’avrà visto e mi conosce
e vedendomi fermo e pensieroso,
– e forse a volte che parlo da solo – 
si sarà certo detto: «Strano tipo. 
Che ci farà qui, un giorno dopo l’altro, 
quasi alla stessa ora? Di sicuro
è serio, anche se fischia, certe volte.
E sembra inoffensivo con quell’aria 
da sognatore. Ma com’è curiosa
l’ostinata mania che ha di guardarmi».


Traduzione di Francesco Dalessandro

da Oír la luz, Tusquets Editores, 2008

lunedì 16 febbraio 2015

Vladimír Holan

UNA NOTTE CON AMLETO

[...]

Perché Orfeo, nel condurla, non si è voltato a guardare
e l’ha dunque condotta di nuovo in questo mondo.
Ecco vi hanno già fatto qualche passo:


ORFEO
Sei contenta?

EURIDICE
Non so, non riesco a ricordare... Dovrò apprendere
di nuovo il dolore... Quanto tempo sono stata morta?

ORFEO
Non avevo coraggio... Ieri ha fatto mezz’anno.
E c’è voluto mezz’anno, perché mi decidessi...

EURIDICE
Taci! Il mondo andrà a ròtoli a furia di eroismi
che si trascinano dietro le viscere!

ORFEO
Te lo direi volentieri!... Ma vedi: al contrario io ricordo
troppo ogni cosa... Non so da quanto tempo sono vivo...
Mio Dio, tu stenti a camminare...

EURIDICE
Non è nulla... Non sono più abituata alle scarpine
che mi hai portato... Questi loro
tacchi alti! E anche la gonna
mi sembra di averla allacciata alla Credo...
Questo è un albero, è vero?...

ORFEO
Una trèmula, amore! La tua prediletta!...

EURIDICE
Ne vedo, ahimè, soltanto le radici
(questi nervi di demòni-vegetali),
ne vedo ormai soltanto le radici, a tal punto
mi sono assuefatta al soggiorno là sotto... Ma chissà!...
Hai detto: Amore!... Qual è il senso della parola àpeiron?

ORFEO
Infinito!

EURIDICE
Ah, sì! Prolungamento delle abbreviazioni...

ORFEO
Tu tremi!... Sei debole! Vieni a sederti
su questa pietra... Prendi il mio mantello...

EURIDICE
Hai detto: Amore!
Ah, sì, laggiù lo avevo quasi quasi obliato, e adesso
le tue parole mi riportano alla mente
che accanto alla fontana dell’oblio negli Inferi
c’è la fontana della memoria...

ORFEO
L’hai trovata?

EURIDICE
No, non l’ho cercata... L’essere più profondo
è proprio nell’inconscio sopraffatto dall’amore...
L’ansia, la compassione dell’amore
la sua delizia,la sua verità
bastavano perché mi fossi accanto
a soccorrermi e ad illuminarmi
con tutto quello che non ci è concesso
sapere di noi stessi...

ORFEO
Come in uno specchio... Ah, parla, parla!
Perché mi sto accorgendo che sei di nuovo sulla terra...

EURIDICE
È vero! Le valvole scoppiano... Vedo
un raggio solare che adorna il tuo brutto sfregio
sulla guancia sinistra, talmente
che devo baciarla... Nessuno ci segue?...

ORFEO
Tutto ciò che hai lasciato quassù...
Ed inoltre la curiosità, reclina come una statuetta
sul radiatore iracondo di un’auto... Non aver paura,
racconta! ... Posso baciarti?

EURIDICE
Sai, quando io quella volta...
L’amore è mortale?

ORFEO
Non so... Vi sono treni che non fermano
né a una fermata né alla stazione centrale...
Ma è un rozzo confronto... Non crederci!

EURIDICE
Laggiù chiedevamo dell’anima, e tutto
ci rispondeva col corpo perduto...

ORFEO
Si! Ed io qui sopra baciavo le tue
giacchettine notturne. Alcune odoravano solo di questo,
che non avevi dormito le tue proprie notti... Le altre
mi sembrava di estrarle da un letto di fiori,
tanto erano intrise della tua cipria... E le gonne e le camicette!
È folle, ma avevo diviso lo spazio
della mia memoria soltanto col fatto
che ormai non vi entravi... Avevo ormai paura
che i solitari rimorsi finissero
per incontrarsi col proprio fascino...
C’era qui per fortuna Giulietta...

EURIDICE
Ah, l’avevo obliata!... Dimmi: È viva?

ORFEO
Sì!... La tenebra infantile del suo giorno
imita la notte d’ieri... Non riesco
a immaginare che farà nel vederti...

EURIDICE
Come può ricordarsi di me?... Quanti anni ha ormai?

ORFEO
Sei anni a oriente della tua voce!

EURIDICE
Ma non avevi detto che ero morta da mezz’anno?

ORFEO
Mia cara, lo sai, l’uomo che non ha mai provato paura
non sa che cosa siano la volontà o la sposa...

EURIDICE
Mi hai dunque mentito...

ORFEO
Sì... Ma sei viva... Immagina quando ti vedrà...

EURIDICE
Giulietta, hai detto?...

ORFEO
Sì, Giulietta... una bimba... qualcosa
tra la visione e il prodigio... Come te...
Incontrandovi (come due bambine deposte
sulla soglia dell’orfanità), entrerete
nell’interno caldo della casa...
Lo so, vi sono troppi libri... Ma
anche statue e dei quadri ed inoltre
un canovaccio e un pianoforte e la bestia
del tavolo che beve i colori del tappeto...
E v’è anche la vostra modestia che, sorpresa
dal molto disordine, spazzerà la polvere
e poi preparerà la cena...

EURIDICE
Posso infine baciarti?

ORFEO
Non ancora, cara!... Già da molto
vado osservando che tu ascolti solo
il canto intorno e aspetti solo che a uno
di questi maestrevoli uccelli fallisca la voce...

EURIDICE
Fatale a te stesso, come mi comprendi!

ORFEO
Sei in me... Attònito, non chiedo
perché siamo... A che serve la volontà nel sogno
che ha smesso d’esser vigile?
Posso infine dormire solamente per questo,
che voglio con tenerezza svegliare... Noi siamo, mia cara, noi                                                                                        [siamo!...

EURIDICE
Giulietta! ... La bambina!... Ora ricordo:
aveva poco più di un anno, mentre morivo...
Gli alberi flettevano le cime al vento...
Era stupore o grido?... Supplicavo
Iddio: per lei, per te! Commiseravo
tutto, avevo compassione... Ma quello
che nella carità non è perdono
esprimerebbe volentieri il linguaggio straniero di entrambi...
Siamo già al sacrilegio...

ORFEO
Così in noi vaga il bosco e incontra gli alberi.

EURIDICE
Fu un albero solo ed un piccolo fiore...

ORFEO
Già sai quale... Fra un istante
ne fiuterai l’odore...

EURIDICE
Fra poco andrà a scuola, è vero?

ORFEO
Fra un mese, amore...

EURIDICE
Ha il sillabario? E la lavagna e la spugna ed il règolo?
E la borsa con lo specchietto dentro?
Vieni, dobbiamo affrettarci... Chi è rimasto
con lei? ... La trèmula?

ORFEO
Mio Dio... La trèmula, aspetta,
ma sì! Marta, ricordi? La vecchia Marta...La balia...

EURIDICE
Lei? È ancora viva? Già allora
doveva avere la casa fasciata di paglia,
come se fosse una casa con dentro un’inferma,
che anelasse al silenzio.

ORFEO
La vecchia Marta è con lei...

EURIDICE
Dunque adesso tu parli così,
tu che presagivi le eclissi e deviavi il corso dei fiumi?
Ma... lo sai... ma lo sai
che sono morta incinta;
con dolcezza dicevi: come soprappensiero?...

ORFEO
Vieni, mia cara!... No!... Ti porterò
e bacerò... Ti bacerò, accarezzandoti,
ti porterò, ti porterò, ti porterò e bacerò, accarezzandoti...


Ma il poeta non sa come continuare – 
e gli uomini ormai non si spaventano... 

[...]

Traduzione di Angelo Maria Ripellino

da Una notte con Amleto, Einaudi, 1966

venerdì 13 febbraio 2015

Elizabeth Barrett Browning

Interrompo la serie di tre poesie dedicate a Euridice (la terza di Vladimir Holan la leggerete lunedì), per segnalare che domani (18.15-19.30), alla Keats-Shelley House, piazza di Spagna 26, Roma, si terrà una lettura degli straordinari sonetti di Elizabeth Barrett Browning dedicati al marito Robert Browning. L'evento è anche una delle ultime occasioni per poter ammirare la mostra temporanea invernale "Robert Browning, Reporting from Rome" che prende in esame la storia del poeta inglese Robert Browning (1812-1889) durante e dopo la sua permanenza in Italia e che include una serie di ritratti e manufatti in prestito da Provost & Fellows of Eton College, raggruppati insieme nel Cabinet of Curiosities. Tra questi oggetti c'è anche lo splendido anello di fidanzamento risalente al diciottesimo secolo che Browning diede alla sua amata Elizabeth Barrett. 

NB: Ho saputo che i posti sono purtroppo già esauriti.  



DUE SONETTI


XIV

Se devi amarmi, sia solo per amore
e nient’altro. Non dire: «È per lo sguardo        
e il sorriso che l’amo, per il modo gentile 
di parlare, per una finezza di pensiero                 
che risponde alla mia, perché un giorno             
mi fece sentire sereno». Queste cose 
cambiano in sé, caro, o possono cambiare 
per te: come è fatto può essere disfatto, 
l’amore. E non amarmi nemmeno 
per la tua compassione che mi asciuga 
le guance: se chi a lungo hai confortato
dimentica di piangere perde il tuo amore. 
No. Amami solo per amore, affinché
tu possa amare in eternità d'amore.


XIX

Il Rialto dell’anima ha le sue merci.
Al mercato, io baratto riccio con riccio.
Dalla fronte del mio poeta, uno il cuore 
ne riceve, più pregiato di merci rare, 
nero come porpora - o le purpuree, cupe 
trecce che sulle bianche fronti delle muse 
apparvero agli occhi di Pindaro. Per tale
corrispondenza, credo, l’ombra del lauro 
che t’incorona indugia sul tuo riccio – così nero! 
Col filo lieve del respiro di un bacio 
lego l'ombra, che non scivoli via, e il dono 
qui sul cuore assicuro: perché come 
sulla tua fronte non gli manchi il calore 
naturale, finché non geli il mio la morte.




Traduzione di Francesco Dalessandro

da Sonetti dal portoghese, Edizioni Il Labirinto, 2002, rist. 2014

mercoledì 11 febbraio 2015

Rainer Maria Rilke

ORFEO. EURIDICE. ERMETE


Era la prodigiosa miniera delle anime.
Come vene d’argento silenziose
scorrevano il suo buio. Tra radici
sgorgava il sangue che affluisce agli uomini
e greve come porfido appariva nel buio.
Di rosso altro non c’era.

Rupi c’erano,
selve incorporee e ponti sul vuoto
e quell’enorme, grigio, cieco stagno,
sospeso sopra il suo lontano fondo
come cielo piovoso su un paesaggio.
E in mezzo a prati miti di pazienza,
pallida striscia, un unico sentiero era visibile
come una lunga tela distesa ad imbiancare.

E per quest’unico sentiero essi venivano. 

In testa l’uomo snello in manto azzurro,
guardando innanzi muto e impaziente
divorava la strada col suo passo
a grandi morsi senza masticarla. Gravi, chiuse,
dalle pieghe del manto pendevano le mani,
diemnticata ormai la lieve lira
ch’era incarnata nella sua sinistra
come tralci di rosa nel ramo dell’ulivo. 
Ed i suoi sensi erano in due divisi: 
mentre l’occhio in avanti correva come un cane, 
tornava ed ogni volta nuovamemte lontano
alla prossima svolta era ad attenderlo — 
l’udito gli restava — come un odore — indietro. 
Talora gli sembrava di percepire il passo
degli altri due viandanti che dovevano
seguirlo fino al colmo dell’ascesa.
Poi nient’altro che l’eco del suo ascendere
dietro di lui e il vento del suo manto.
E tuttavia venivano, si disse
a voce alta, e udì perdersi la voce.
Venivano, gli parve, ma con passo inudibile,
i due. Se per un attimo
gli fosse dato volgersi (se il volgersi a guardare
non fosse la rovina dell’intera sua opera
prima del compimento) li vedrebbe
i silenziosi due che lo seguivano:

il dio dei viandanti e del messaggio
lontano, sopra gli occhi chiari il pètaso,
lo snello caducèo proteso innanzi,
e alle caviglie il battito dell’ali;
e affidata alla sua sinistra: lei.

La tanto amata che un’unica lira
la pianse più che schiera di prèfiche nel tempo, 
e dal lamento un mondo nuovo nacque, 
ove ancora una volta tutto c’era: selva, valle,
paesi, vie e campi, e fiumi e belve;
e intorno a questo mondo del lamento
come intorno ad un’altra terra, un sole
ed un cielo stellato taciti si volgevano, 
un cielo dal lamento pieno di astri stravolti —:
Lei, la Tanto-amata.

Ma ella andava alla mano di quel dio,
e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza;
chiusa in sé come grembo che prepari una nascita,
senza un pensiero all’uomo innanzi a lei,
né alla via che alla vita risaliva.
Chiusa era in sé. E il suo essere morta
la riempiva come una pienezza.
Come d’oscurita e dolcezza un frutto,
era colma della sua grande morte,
così nuova che tutto le era incomprensibile.
Ella era in una verginità nuova
ed intangibile. Il suo sesso chiuso
come un giovane fiore sulla sera,
e le sue mani erano così immemori
di nozze che anche il dio che la guidava
col suo tocco infinitamente lieve, 
come un contatto troppo familiare l’offendeva.

E non era più lei la bionda donna
che echeggiava talvolta nei canti del poeta,
isola profumata in mezzo all’ampio letto;
né più gli apparteneva.

Come una lunga chioma era già sciolta,
come pioggia caduta era diffusa,
come un raccolto in mille era divisa.

Ormai era radice.

E quando il dio bruscamente
fermatala, con voce di dolore
esclamò: Si è voltato —,
lei non capì e in un soffio chiese: Chi?

Ma in lontananza — oscuro contro la soglia chiara —
qualcuno in volto non riconoscibile
immobile guardava
la striscia di sentiero in mezzo ai prati 
dove il dio messaggero, l’occhio afflitto,
si voltava in silenzio seguendo la figura
che per la via di prima già tornava,
e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza.

Traduzione di Giacomo Cacciapaglia

da Poesie 1907-1926, Einaudi Tascabili, 2000

lunedì 9 febbraio 2015

Maria Clelia Cardona

EURIDICE

Il mio già innamorato orecchio ascoltava
più che la musica il tuo patteggiare che a me
– francamente – sembrò sventato.
Così balzai dal letto – mi copriva una coltre
di bianchi papaveri e appena distinguevo
nello specchio il mio viso sbiadito più lieve
tra le garze dei petali. Mi amerà
ancora? Pensavo, così sfarinata e
il sangue mutato in bruno terriccio in fondo
alla ferita. La coroncina di mirto dai
capelli mi scivolò sui fianchi: ero appena
una reliquia. E ad ogni movimento
il mio corpo levava sbuffi di polvere.
Dov’è Euridice? Dov’è il mio bene? cantavi
al suono della lira. Non era una festa
ma per farmi notare ballavo e ballavo:
trovai la forza per qualche piroetta in alto
mulinando come un soffione sul prato.

Dov’è il mio bene? Non mi vedevi o
fingevi? lusingato da tanto silenzio
e ombre intorno al tuo canto.

Non guardarla – bisbigliavano i cinerei
sovrani – Non è che una fulina, anche
uno sguardo la può lacerare. Siamo
ormai disavvezzi ad ogni violenza.
Solo negli occhi si vive, ma noi
siamo qui per morire.
E poi allungando le già lunghe lingue:
Se la vuoi pur così sciupacchiata è tua
con ancora indosso la veste nuziale e ancora
amorosa la bocca cilestrina.
E tu che fingevi di cercare sotto i sassi,
nei tronchi, in qualche ghianda d’argento,
in un nido di civetta per guadagnare tempo.

Ti seguivo con le mie ali di carta
appesa ai tuoi capelli.
Tutt’intorno un dormiveglia di ombre
che leccavano latte.

Notte – spiegata davanti ai miei occhi,
immenso abbandono.

                                            Tu bruciavi già per la voglia
di stenderti al sole, pensavi a me
come al frutto carnoso di cui ero ormai
solo il seme bianco e amaro.

E io con la gola chiusa da un nauseante miele:
Ma parla! Almeno di’ qualcosa! Chi ti impedisce
di parlare? E tu: Dov’è Euridice? Dov’è il mio bene?
cantavi a gran voce per il sentiero in salita, finché mi dissi:
ma chi cerca?

Quella lite silenziosa non ha lasciato ricordi.
Una piccola nube di api nere ha invelenito
il nostro viaggio nuziale.
Voltandoti non ti sei accorto neppure
che già in silenzio me ne ero andata.


Da Il vino del congedo, Amadeus, 1994

venerdì 6 febbraio 2015

Alfred Edward Housman

EPITAFFIO PER UN ESERCITO DI MERCENARI

Questi, nel giorno in cui il cielo crollava,
nell’ora in cui le fondamenta della terra 
cedevano, fedeli al mestiere di mercenari 
ne riscossero il soldo e poi morirono.

Sostennero il cielo con le spalle, resistendo;
le fondamenta della terra resistettero con loro.
Ciò che Dio abbandonò, questi difesero,
e per la sola paga salvarono ogni cosa. 

Traduzione di F. D.

da A Shropshire Lad, A Public Domain Book

mercoledì 4 febbraio 2015

Kenneth Rexroth

VIAGGIATORI IN EREHWON


T’apri il vestito 
sul letto polveroso 
dove nessuno 
ha dormito per anni 
sul tetto un gufo si lagna
tu dici
mio caro mio
caro
nella luce fumosa della vecchia
lampada ad olio le tue spalle
il ventre i seni le natiche
sembrano fiori di pesco
enormi stelle lontane distanti fra loro
fuori dal vetro rotto della finestra
immensi animali immortali
ciascuno solo un occhio
guardano
che offri il tuo corpo
senza fine alla notte
senza fine alla foresta
la casa abbandonata da una vita
nella foresta nella notte
non verrà mai nessuno
a questa casa
solitaria
in un mondo di tenebre
nel paese degli occhi

Traduzione di Francesco Dalessandro

da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003



lunedì 2 febbraio 2015

Folgóre da San Gimignano

DI FEBBRAIO

E di febbraio vi dono bella caccia
di cerbi, cavrïuoli e di cinghiari,
corte gonnelle con grossi calzari,
e compagnia che vi diletti e piaccia;

can da guinzagli e segugi da traccia,
e le borse fornite di danari,
ad onta degli scarsi e degli avari,
o chi di questo vi dà briga e ’mpaccia;

e la sera tornar co’ vostri fanti
carcati della molta salvaggina,
avendo gioia ed allegrezza e canti;

far trar del vino e fumar la cucina,
e fin al primo sonno star razzanti;
e poi posar infin’ alla mattina.

Da Sonetti dei mesi, a cura di Valerio Bartoloni, con incisioni di Romano Masoni, Comune di San Gimignano, 2007