venerdì 30 gennaio 2015

Umberto Saba

FOGLIA

Io sono come quella foglia – guarda – 
sul nudo ramo, che un prodigio ancora
tiene attaccata.

Negami dunque. Non ne sia attristata
la bella età che a un’ansia ti colora,
e per me a slanci infantili s’attarda.

Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce.
Morire è nulla; perderti è difficile.


Da  Parole – Ultime cose – Mediterranee – Uccelli – Quasi un racconto, Oscar Mondadori, 1966 

mercoledì 28 gennaio 2015

Francisco Brines

IL COMMIATO DALLA LUCE

Vieni ai miei occhi, luce,
e in essi, così stanchi,
riposa la fatica,
da’ sollievo e consumati
nell’amore dell’uomo.
Prima che si dilati
l’ombra di questa notte
nella quale dovrai
morire e anch’io morire,
alza per me il tuo velo
che, dietro le montagne,
è un fuoco di rose,
dimmi che fu la vita
un dì lungo e fedele
che seppe del mio amore
e amerò la stanchezza.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da La última costa, Tusquets, Barcelona 1995

lunedì 26 gennaio 2015

Francesco Dalessandro

SCENDI DAL LETTO SCIVOLA                                                                


Scendi dal letto scivola
furtiva fuori casa 
e raggiungimi svelta 
dove t’aspetto. Non aver 
paura. Chi ama non 
teme né il freddo invernale
quando di notte gela né la pioggia
violenta che tempesta.
Né c’è fatica
che non sopporti.
E Venere in segreto
vuole compiuti i furti
d’amore. Così non 
temere. Finge di 
non vederci chi c’incontra
abbracciati nel buio della strada
né chiede il nostro nome
o alza il lume per 
guardarci in faccia. E se 
ci riconosce sta’ pur certa
che non lo dirà mai
giurerà sempre di non ricordare
un bel niente…


(Imitazione da Tibullo, Corpus tibullianum,  I, 2, vv. 15-24 / 29-42)

venerdì 23 gennaio 2015

Gerard Manley Hopkins

PAZIENZA, ARDUA COSA

Pazienza, ardua cosa. Ardua cosa solo pregare,
solo far voti, è Pazienza! Pazienza che chiede
vuole guerra, vuole ferite; stremanti i suoi tempi 
e compiti: rinunciare, ricevere colpi, obbedire.

La rara pazienza qui mette radici, non altrove.
Edera naturale del cuore, Pazienza copre rovine 
di naufragate intenzioni passate. Dà calore                                         
a purpuree gemme e mari di fluide foglie tutto il giorno. 

Udiamo i nostri cuori dentro urtarsi: fa morire                              
ammaccarli più a fondo. Ma noi chiediamo a Dio
che a sé pieghi ugualmente le nostre ribelli volontà.

Dov’è colui che più e più distilla delizia 
e gentilezza? – Egli è paziente. Pazienza ne colma 
i freschi favi, e a noi viene per vie che conosciamo.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da I sonetti terribili, Edizioni Il Labirinto, 2003



mercoledì 21 gennaio 2015

Antonio Colinas

MADRIGALE PER SUPPLICARE LA TUA VOCE

Giace tesa la notte sopra i pini accaldati,
più febbrile è la terra, amore mio.
Anche in autunno sanno le tue labbra nell’ombra.
Parlami a voce bassa, dimmi cos’hai nell’alveo
sonoro delle vene. Se è il pozzo più profondo
della bellezza vergine, io là mi perderò.
È specchio il cielo, cupola soave.
Sulla tua pelle, qui, anche stilla il pino,
lascia il suo denso aroma, la pienezza, la fiamma.
Lungo la costa, amore, la notte passa lenta
con la sua mano d’ombra. E l’aria geme
solitaria fra gli aghi, li commuove e accarezza.
Come ti sfiora il petto, il vento inconsolabile,
col suo profumo, come lo riempie e soffoca!
Ma c’importa del vento? che singhiozzi tra le foglie? 
E importa il puro astro, il sogno della notte?
Se venisse l’inverno tutto bardato d’oro
non calmerebbe, amore, le mie ansie.
Soltanto la tua voce può placare il mio sangue.
La voce: il vento più sottile, il frutto
più maturo e gustoso di quest’autunno acceso.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Preludios a una noche total, Rialp, Madrid 1969

lunedì 19 gennaio 2015

Pierre de Ronsard

A CASSANDRA

Ciumachè, ’nnamo a vede si la rosa
ch’aveva operta ar sole stammatina
la su’ vesta de porpora odorosa
sta a perde co la sera ch’è vecina
le pieghe de la su’ vesta vermija,
er colorito ch’ar tuo rassomija.

Lo vedi, ciumachè? Che ciavrà messo 
la su bellezza a pèrdese pe’ tera
e a scomparì? Mesà che la natura
ciè matrigna davero si mo adesso
quer fiore profumato manco dura
da la matina fin’a che viè sera.

Perciò me devi crede, ciumachè,
fin’a che verde fiorisce l’età
coji, ricoji la tu’ giovenezza
perché doppo comincia l’invecchià 
e poc’a poco tutta la bellezza 
come ar fiore sfiorisce pur’a te.

Traduzione in versi romaneschi di Francesco Dalessandro

venerdì 16 gennaio 2015

Emily Dickinson

RENDI GRANDE QUESTO LETTO

Rendi grande questo letto – 
preparalo con tremore – 
attendi spuntare il Giudizio
splendido e imparziale.

Sia diritto il materasso – 
e il cuscino ben gonfio – 
che il giallo rumore dell’alba
non interrompa questo suolo – 

Traduzione di Nadia Campana

da Le stanze d’alabastro, Universale Economica Feltrinelli, 1982

mercoledì 14 gennaio 2015

Francisco Brines

TRITTICO DELL’AVVENTURA

(mito)

Una volta la vita
fu un magico trascorso,
un transito infinito.


(realtà)

Quello che persi e che più non attendo,
sebbene esista, forse.
Ed il presente attonito dell’essere.


(destino)

Quest’attesa del tempo avvenire,
il calore e la rosa.
Dopo la cecità di quel dio Vuoto.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da El otoño de las rosas, Renacimiento, Sevilla 1986

lunedì 12 gennaio 2015

Nino Majellaro

GIOCHI DELLA MEMORIA QUI DOVE

Giochi della memoria qui dove
la terra sembra comporre le stagioni,
e scoprire nella luce di una foglia
viaggiatori in cammino.
                                                Nel tronco dell’albero
il tempo scandisce la quiete degli anni:
la vita di ognuno si accorda in segni.
Di poche ali è fatto il disegno
di un giorno.
                          Intorno
fantasmi attraversano il deserto di terra.
Gelo, sputi di semi, letarghi invisibili.
Neppure un richiamo lacera il cielo.


Da Viaggi di notte, Edizioni del Laboratorio, 1992

venerdì 9 gennaio 2015

Umberto Saba

ENTELLO

Per una donna lontana e un ragazzo
che mi ascolta, celeste,
ho scritte, io vecchio, queste
poesie. Ricordo,
come in me lieto le ripenso. Antico
pugile. Entello era il suo nome. Vinse
l’ultima volta ai fortunosi giochi
d’Enea lungo le amene
spiagge della Sicilia, ospite Anceste.
Bianche si rincorrevano sull’onde
schiume che in alto mare eran Sirene.
Era un cuore gagliardo ed era un saggio.
“Qui – disse – i cesti, e qui l’arte depongo”.


Da  Parole – Ultime cose – Mediterranee – Uccelli – Quasi un racconto, Oscar Mondadori, 1966 

mercoledì 7 gennaio 2015

William Carlos Williams

RITRATTO DI DONNA A LETTO

Ci sono le mie cose 
ad asciugarsi, nell’angolo:
quella gonna azzurra,
con la camicetta grigia –

Sono stufa di guai!
Solleva le coperte
se mi vuoi,
e vedrai 
gli altri indumenti – 
farebbe freddo stare
con niente addosso!

Non mi va di lavorare
così non ho soldi.
Che vuoi 
farci? 
– e nessun gioiello
(da matti)

Ma ho gli occhi
e una faccia liscia
e questo qui! Guarda
com’è alto!

Cervello e sangue
c’è lì –
mi chiamo Robitza!
Reggiseni
e mutandine
vadano pure al diavolo –
Che m’importa?

I miei due ragazzi? 
– sono in gamba!
Lascia che se ne occupi
qualche ricca signora –
magari andranno bene 
a scuola, o altrimenti
che finiscano per strada –
e il problema è risolto.

Questa casa è vuota,
non è così?
Perciò è mia
perché ne ho bisogno.
Oh, non morrò di fame
finché la bibbia li costringe
a darmi da mangiare.

Se vuoi guai
puoi aiutarmi,
se no lascia perdere –
e il problema è risolto.

Il medico condotto
è un dannato scemo
e tu
vattene pure al diavolo!

Entrando, avresti potuto
chiudere la porta;
fallo adesso che esci.
Sono stanca.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The collected poems of William Carlos Williams: 1909-1939, New Directions Publishing Corporation, 1991

lunedì 5 gennaio 2015

John Keats

ODE SU UN’URNA GRECA


I
Tu, vergine ancora, sposa della quiete, 
figlia adottiva del silenzio e del tempo
tardivo, narratrice silvestre che più dolce-
mente dei miei versi sai esprimere la favola 
fiorita, quale mito orlato di foglie 
riempie la tua forma? di mortali o dèi 
o di entrambi? A Tempe o in Arcadia?
Quali uomini o dèi, e vergini restie? 
Quale folle caccia e lotta per fuggire?
Con cembali e flauti, che estasi selvaggia?
             
II
Dolci sono le udite melodie, le non udite
anche più dolci; perciò suonate ancora, 
teneri flauti, non per l’orecchio: preziose
per lo spirito dolci arie senza suono suonate. 
Nella selva, amato giovane, il tuo canto 
non può tacere né quei rami sfrondarsi.
Tu, amante audace, non potrai baciare
chi ti è così vicina; però non lamentarti
per la gioia svanita: lei non potrà svanire
e sarà sempre bella, per sempre l’amerai.

III
Piante, felici piante, voi non vedrete mai
sparse le vostre foglie né alla primavera
direte addio; te felice, musico mai stanco,
che suoni sempre sempre nuovi canti; 
ma più felice amore, più felice il felice
amore, caldo per sempre e da godere
ancora, anelante per sempre, eternamente
giovane; più alto d’ogni umana, vivente 
passione che il cuore sazia di pena, 
che fa bruciare la fronte, seccare la lingua.

IV 
E questi che s’avviano al sacrificio chi sono? 
A quale verde altare, sconosciuto sacerdote, 
conduci la giovenca dai lucidi fianchi
coperti di ghirlande che muggisce al cielo? 
Quale piccola città sulla riva di un fiume 
o sul mare, o turrita di mura nella pace
dei monti s’è svuotata di gente nel pio
mattino? Le tue strade saranno per sempre
silenziose, città, e non un’anima potrà
tornare a dirti perché fosti abbandonata.


V
Oh attica forma, la tua linea armoniosa, 
esaltata nel marmo da trame di fanciulle
e uomini, rami frondosi, erbe schiacciate;
la tua silenziosa figura come il pensiero 
dell’eterno ci tormenta, fredda pastorale! 
Quando l’età avrà guastato anche questa generazione, 
tu ancora sarai qui, testimone di dolori 
diversi dai nostri e, amica dell’uomo, dirai:
«Bellezza è verità e verità bellezza» – questo solo 
sapete sulla terra, solo questo dovete sapere. 

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Sull’indolenza e altre odi, Edizioni Il Labirinto, 2010

venerdì 2 gennaio 2015

Folgóre da San Gimignano

DI GENNAIO

I’ doto voi del mese di gennaio
corte con fuochi di salette accese,
camere e letta d’ogni bello arnese,
lenzuol di seta e copertoi di vaio,

treggea, confetti e mescere a razzaio,
vestiti di doagio e di racese;
e ’n questo modo star alle difese,
muova scirocco, garbino e rovaio;

uscir di fuor alcuna volta il giorno,
gittando della neve bella e bianca
alle donzelle che saran d’attorno;

e quando la compagna fosse stanca,
a questa corte facciasi ritorno,
e sí riposi la brigata franca.

Da Sonetti dei mesi, a cura di Valerio Bartoloni, con incisioni di Romano Masoni, Comune di San Gimignano, 2007