mercoledì 30 dicembre 2015

Bertolt Brecht

QUATTRO INVITI AD UN UOMO
DA PARTI DIVERSE IN TEMPI DIVERSI

1

Hai una casa, qui.
Ecco, hai posto per le tue cose.
Sposta i mobili come ti piace.
Se hai bisogno di qualcosa, dillo.
Questa è la chiave.
Rimani qui.

2

Questa è la stanza dove noi si sta
e per te c’è una camera e un letto.
Puoi darci una mano nei campi
e il tuo piatto, ce l’hai.
Resta da noi.

3

Ecco, hai posto per dormire.
Il letto è ancora pulito
ci ha dormito uno soltanto.
Se sei un po’ delicato
sciacquati il cucchiaio di stagno in quel mastello,
sarà come lavato.
Rimani pure.

4

La camera è questa.
Fai presto; o puoi anche restar qui
tutta la notte ma si paga extra.
Noia non te ne do
e poi mica sono malata.
Sei al coperto, qui o un altro posto è lo stesso.
Tanto vale che resti

Traduzione di Ruth Leiser e Franco Fortini


da Poesie e canzoni, Einaudi, 1961

lunedì 28 dicembre 2015

Enrico Marià

CINQUE POESIE

*

Al culmine del sole
ombre impiccate alla terra
noi, mani tese verso il nulla.


*

Tra le braccia del vento
noi polvere alzata
di corpi caduti;
vita agli occhi invalicabile
della morte l’infinita fame.


*

L’impossibilità dell’amore
sfigura il volto, mozza gli arti;
la più cruda verità
il sollievo di morire.

*

Nel silenzio del mare
le onde affogano
il grido della carne.
Trafitta dagli aghi
da una luna tesa ad arco
la nostra vana ricerca
di un qualsiasi contatto.

*

Nella morte
capire la verità
che «
l’io
si compie
solo in un tu


da Cosa resta, Puntoacapo, 2015



venerdì 25 dicembre 2015

Kenneth Rexroth

IL TEMPO È LA PIETÀ DELL’ETERNO

Il tempo è diviso in
secondi minuti ore anni
e secoli. Prendi uno
solo di essi e aggiungici
ciò che contiene al mondo.
Ogni divisione contiene
quasi lo stesso di un’altra.
Cosa puoi dire in una poesia?
Passati i quaranta, hai detto tutto.
La nera quercia nana spunta
dalla roccia ai miei piedi.
Forse ha duecento anni,
ma il fusto non è più grosso
del mio polso, la cima non
m’arriva alla spalla. Alle sue
spalle il sole del tardo pomeriggio
ne inonda di luce le foglie come
un albero di gemme, come l’albero
magico dei gioielli nelle storie
orientali. La roccia sotto di essa
cade a strapiombo per cinque-
cento piedi, fino a un pino solitario,
carbonizzato; poi per altri mille
fino ad un fiume in piena,
tumultuoso. Oltre quello, si stende
lo spazio baluginante; volute di colline
boscose offuscantisi pian piano;
poi, quasi invisibili nella
calura pulsante, le terre
basse della San Joaquin Valley
ribollente di vita e fastidi.
Le nuove foglie verde pallido scintillano
nell’aria tremolante. Nerazzurra,
cresta e becco appuntiti, una ghiandaia
si posa per un attimo in mezzo
ad esse poi si tuffa, giù,
attraverso l’afoso pomeriggio di giugno.
Lontano, la città si contorce
bruciando in un fuoco di trascendenza
e merci. Le viscere
degli uomini si torcono tra i poli
di antitesi insensate.
La santità del reale
è sempre là, accessibile
in totale immanenza. I nodi
della trascendenza si aggrumano
in te che esperimenti
ed in colui che ama.
Quando le prime gemme
spuntano sui meli e la luna
primaverile nuota in smisurati
chiari abissi di luce palpabile,
io mi siedo vicino alla cascata.
I gufi si chiamano l’un
l’altro all’infinito
nella notte calda.
Nere rocce bagnate brillano debolmente.
Di vita umida odora il muschio riccio.
La cascata è una fune
di musica, una serpe maculata
di bianco e nero nella foresta
lunare. Le cosce della dea
mi stringono. La luna sale tra
i dirupi dei monti e una nube di luce
si diffonde intorno a me, come
un profumo risplendente. Quando poi
la luna se ne va e torno a sentire
i gufi rumorosi, m’inginocchio a bere
la dolce acqua dei vortici freddi.

Tutto il giorno sul canyon s’accumulano nubi.
A mezzogiorno le alte cime sono scomparse.
Il tuono brontola in lontananza.
D’improvviso il canyon sparisce.
Sulla stretta sporgenza, il campeggio
è isolato in un turbine di nebbia.
Anche i pini più prossimi diventano indistinti,
perduti nel grigiore.
Una folgore gialla erompe, fuoco tra
fumo, e infiamma la nebbia.
Il tuono esplode ai miei piedi.
Sibilando, la pioggia si riversa fra
gli aghi di pino. Tra i rossi tronchi
cadono chicchi bianchi di grandine.
Picchiettano sulla tenda. Ne raccolgo
qualcuno e lo guardo sciogliersi sul palmo
della mano. Gli uccelli, come fa sera,
arruffano le penne e volano cauti
di ramo in ramo, cantando
poche note; nel crepuscolo arancione
verdi e rade gocce di pioggia cadono.

Le nuvole per tre giorni si sono ammassate.
E la pioggia ha accerchiato le montagne.
Fra non molto cadrà sul
Black Rock Pass, traverserà
i Kaweahs rossi e poi
la bianca Whitney Range. Ma
qui al lago non cade
e l’afa diventa opprimente.
Nuoto con indolenza. L’acqua
stessa sembra più pesante.
L’aria è piena di zanzare.
Dopo un pranzo svogliato mi siedo
a riva a leggere le sagge poesie
di Charles Cros. All’improvviso
s’alza il vento. La tenda sbatte rumorosa.
Polvere e rami, aghi di pino volano
in ogni dove. Poi il vento
cade e scende la pioggia sul lago.
Sulle onde brevi, le gocce tintinnano
come le campanelle a vento giapponesi
che mi piacevano tanto da ragazzo.
Dopo un’ora la pioggia è finita.
Nella chiara frescura della sera,
dal prato a un miglio di distanza,
odo la campana del somaro.
Gridandomi sulla testa, i caprimulghi
si tuffano: virando le ali vibrano.
Un cervo scende fino all’acqua.
Gli alti passi sono chiusi dalla neve.
Sono la prima persona in questa stagione.
Non c’è nessun altro. Solo io
in mezzo a centinaia di montagne.

Le cinque, nella sera di mezz’agosto:
la lunga luce solare si dora
sull’erba verdecupo e fiori
rossi rilucono sul prato.
Mi fermo dove un meandro
del ruscello fa una pozza profonda.
L’acqua è di un verde scuro,
però perfettamente trasparente.
Una piccola nube, non più grande
della mia testa, con centinaia
di moscerini, si libra densa in alto.
Sulla riva, due piccoli ranocchi.
Nell’acqua, scarafaggi,
idre, cimici d’acqua, le larve
di vari insetti. In superficie
nuotano le notonette.
Capisco che il colore
stesso dell’acqua è dovuto
a milioni di verdi macchie
attive di vita. È come se
scrutando una macchia d’inchiostro
si scoprisse di fissare
la Via Lattea.
Il profondo riverbero
del mio essere con tutta
questa pienezza di vita
mi lascia scosso e stordito.
Attraverso lentamente
il prato mentre i cervi alzano il capo
e mi osservano indolenti.

Sull’altopiano, qui dove
non viene mai nessuno, vicino
a questo lago di monti specchiati,
ore giorni e settimane
trascorrono senza un mutamento.
Anche i rari temporali passano
per scaricarsi sui picchi.
Nell’acqua non ci sono pesci.
Orsi e cervi, nei boschi, sono pochi.
Solo l’azzurra damigella
vola lucente sul canneto
tutto il giorno, e su in alto la sera
i caprimulghi. Sospeso
nell’aria acqua tempo
più trasparenti, io
assumo una specie d’essenza
cristallina. In questo traslucido
e immenso qui ed ora, se mai,
dovrebbe essere visibile la forma
della persona, la sua geometria
e cristallografia, la sua
astronomia. Il bene
e il male della mia vicenda
trascorrono. Li riconosco
e so valutarli. Se ne vanno
per primi, insieme a tutti
gli altri fatti personali,
sensazioni e desideri.
Alla fine non resta che
la conoscenza, anch’essa
un vasto cristallo che racchiude
l’infinito cristallo d’aria acqua
roccia. Ambedue i cristalli
sono perfettamente
silenziosi. Di loro non c’è niente
da dire. Proprio niente.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da The Complete Poems of Kenneth Rexroth, Copper Canyon Press, 2003



mercoledì 23 dicembre 2015

Alessandro Ricci

LETTERA AL PADRE

Caro papà, ti scrivo in versi per le solite
ragioni di stile ma non col dizionario
dei sinonimi e senza
intenzioni di pubblicazione
o lettura.
                Ti scrivo credo per
vigliaccheria – «Papà, c’è
l’inferno?» – e perché non ho
dèi, né cristi né madonne
più importanti di te dall’altra
parte della barricata. Non
credere – ma spero che tu non
pensi, che tu non senta – ch’io
faccia subito, ora, quanto tu
hai sempre temuto per me.
Che paura viene.
Oggi ho rallentato sulle pozzanghere
dell’Ardeatina, ho provato i freni
più volte dopo ogni
guado, pulito i vetri di destra perché
completamente appannati.
                                                Però mi sono chiesto:
«Se uomini soddisfatti o comunque calmi
non hanno saputo costruire cunette
e tombini e rappezzi stradali
in macadam bitumato – ricordi? –, come
posso io col cuore più schiantato che
nel momento della tua morte, non dico
amare o produrre qualcosa
di grande o rasserenarmi
alla noia, ma fare il mio sciocco
lavoro, rispondere alle domande
semplici della gente, farmi
i caffè?».
                Caro papà, io spero
proprio che tu sia morto
del tutto, che non provi quest’altro
dolore che ti do. Parlo a te
giovane, quando ’sta cosa non
m’era avvenuta e tu già
la temevi e ne eri triste
perpetuamente.
                            Ti chiedo scusa,
scusa sul serio. E ancora: se
mi perdoni, se non ti riguarda, se
non senti più né caldo,
né freddo, papà, che cosa

devo fare?

(inedita)

lunedì 21 dicembre 2015

Francesco Dalessandro

NEL SILENZIO DELLA MENTE


Nel silenzio della mente anche una piuma
fa rumore se cade,
anche una foglia se il vento la tocca.
Questo i poeti sanno dai poeti.
Ma l’hanno mai sentito
il fruscio di quella foglia
come voce terrena all’improvvisa
tramontana nelle sere
d’autunno o quando l’ora
o il brevissimo istante che precede
il sonno allerta i sensi,
li fa tinnire, vibrare come i fili
elettrici tesi sul muro
di casa sul balcone che si spiuma?


(inedita)

venerdì 18 dicembre 2015

Charles Hubert Sisson

TRISTIA, 1

Causa l’esilio sono qui, all’estremo limite
del mondo, perché la vecchiaia ti porta
al margine delle cose tra le quali vivevi.
Prima della partenza ero uno della razza
di chi trascorre il tempo però pensando ad altro,
mentre ora il tempo riempie l’orizzonte:
non quel che ieri è stato o porterà
il domani, se quel che è stato è morto
e quello che verrà non vedrà mai la luce.
Quando avrà fine? Chiedo solo questo.
La questione non coinvolge altri che me,
io che non vivo neanche più tra quelli
che mi vedono ora come io vedo loro.
Ma non è “come” la parola giusta:
l’età ha dato alla vista la propria cecità,
nessun segno mi dice che il mio posto
è questo. Io sono l’estremo limite di ciò
che è stato, oltre non c’è che il mare.
L’immutabile gelo del Ponto serra tutto.
Ad esso guardo, non a chi conosco,
sebbene corpi occasionali passando
in fretta per strada riescano a catturare
lo sguardo per il tempo di un’occhiata,
non è dove vanno loro che andrò io:
mi volgo indietro all’acqua e sono perso.

Traduzione di FD

da The C. H. Sisson Reader, Carcanet Press, 2014



mercoledì 16 dicembre 2015

Mario Santagostini

PETRARCA, IPERSECRETUM. IN PRIMA PERSONA
FRAMMENTO

Il tutto, quel maratoneta
eterno in viaggio
verso l’io. Forse, la più lontana
delle mete. Ignoro
come, e se ci è arrivato.
Se andrà via, un giorno. Senza tornare.
A volte, credo che non è bastato
per darmi la vita
che volevo. Ma lo ringrazio.
Grazie, tutto, grazie.

Da Felicità senza soggetto, Mondadori, 2014


lunedì 14 dicembre 2015

Antonella Anedda

ADESSO, ORE 21

È quasi buio ma scrive. Si crede in pace
invece il mondo trema.
Le fiamme avvolgono latrine, tetti di lamiera,
gli oleandri ardono sabbia dentro il cielo
e più a oriente altri roghi, terrore, gente a schiera.
In fuga? Non lo sa. Tende la gola,
vede soltanto in parte, si addormenta.

Sogna che il viola non è fuoco ma tramonto
misto alle luci che accendono in cucina,
che lo spavento è un nome come un altro
e la storia un’eco che ripete: “Dormi per sopportare,
pensa che il vento è uguale a ieri,
un fiotto contro le lenzuola”.

Da Salva con nome, Mondadori, 2012


venerdì 11 dicembre 2015

Umberto Fiori

PARTENZE

Mentre il palazzo di fronte
riflette
il palazzo di fronte,
nelle poltrone anatomiche
del terminale, uno sente
la gente darsi ragione.

Rimane lì incantato: fermo rimane,
come nei piatti in tavola
un po’ di pane, una foglia,
il boccone della creanza.


Da Poesie 1986 – 2014, Oscar Mondadori, 2014


mercoledì 9 dicembre 2015

Pietro Ingrao

EPPURE

Per gli incolori
che non hanno canto
neppure il grido,
per chi solo transita
senza nemmeno raccontare il suo respiro,
per i dispersi nelle tane, nei meandri
dove non c'è segno, né nido,
per gli oscurati dal sole altrui,
per la polvere
di cui non si può dire la storia,
per i non nati mai
perché non furono riconosciuti,
per gli inni che nessuno canta
essendo solo desiderio spento,
per le grandi solitudini che si affollano
i sentieri persi
gli occhi chiusi
i reclusi nelle carceri d'ombra
per gli innominati,
i semplici deserti:

fiume senza bandiere senza sponde
eppure eterno fiume dell’esistere.

da L'alta febbre del fare, Mondadori, 1994





lunedì 7 dicembre 2015

Onofrio Lopez

LA VALLE DELL’ARTE

                           
                                  I

Questa è la valle dell’arte: pensare è come morire
ogni istante e rinascere per combinazioni 
di vita improbabili. Posso solo recitare, senza 
pubblico, intenzioni e promesse del presente 
su scale di arengari e su dorsi di  leoni di pietra, 
misurando da cupole e torri azzardate la distanza
dai limiti, dove la casualità svela gli inganni.

                                  II

La valle è un’iperbole, un miraggio solare
sotto un mare di nuvole, raccoglie tutte
le età, ognuna con materie da modellare. 
I silenzi goduti nei chiostri e nei parchi
occultati trasformano le mie verità sottaciute
in presenze ostinate. Per amicizia, offro
un biglietto d’ingresso al primo forestiero.

                                  III

A sfide impareggiabili servono creazioni, sogni  
irragionevoli, alle aspirazioni tempi durevoli 
per far belle le storie, non facili agiografie 
intarsiate su cornici di marmo. Indelebile rimane
solo la piattaforma di tetti rossi, quasi lasciva, 
a nascondere le stagioni d’internauti compulsivi 
impegnati a sondare l’impercettibile, che siamo noi.          


                                    IV               

Noi, stereotipi inconsapevoli, nomi cancellati 
da archivi già obsoleti, senza spunti narrabili 
di odi e di amori,  non avremo l’onore dei fermenti
e delle passioni affrescate nei palazzi dei Signori 
(eredità passate di mano a successori inadeguati). 
I nostri sono tempi di esodi, di cortei arcaici  
e di stragi, di odori di mirto e di grano perduti.
                       
                                    V

Giuditta e Perseo vibrano armi bianche all’aria
della piazza, tacciono sbigottiti tutti i linguaggi. 
L'estetica è morta nell’Oriente dissolto. Nessuno sa 
delle fughe nei deserti. L’ingegno dell’Occidente
produce esuli muti a cui bruciarono le radici 
in terra; non ne vedremo l’anima scolpita su cippi
sotto gli archi di una loggia esposta ai vènti.


Giugno-Settembre 2015

(inedita)

venerdì 4 dicembre 2015

Giovanna Sicari

NON PRETENDI LA NOTTE

Non pretendi la notte, evochi la rotta
con svagato malumore, ti lasci condurre
nella mia passione. Sul ponte d’ingresso
al primo scatto respiro dentro i timpani
annuso con pudore, depongo sulla strada
te e la luce, proprio là dove s’intrecciano
i voli. Le scale, le porte ariose annunciano
il ritrovato senso.

Se mi baci la fronte, con la lingua
scali e scagli fendenti, bevi acque
dell’ultima altura, nel tepore
sotto le bende, in balia di un’erba
curiosa sono bimba esangue
nella paglia dimoro
sotto la diga che rintocca.


Da Ponte d’ingresso, Rossi e Spera Editori, 1986


mercoledì 2 dicembre 2015

Folgóre da San Gimignano

DI DICEMBRE

E di dicembre una città in piano:
sale terrene e grandissimi fuochi,
tappeti tesi, tavolieri e giuochi,
torticci accesi e star co’ dadi in mano;

e l’oste inebrïato e catelano,
e porci morti e finissimi cuochi;
e morselli ciascun, bèa e manuchi;
le botti sien maggior che San Galgano.

E siate ben vestiti e foderati
di guarnacche, tabarri e di mantelli
e di cappucci fini e smisurati;

e beffe far de’ tristi cattivelli,
de’ miseri dolenti sciagurati
avari: non vogliate usar con elli.


Da Sonetti dei mesi, a cura di Valerio Bartoloni, con incisioni di Romano Masoni, Comune di San Gimignano, 2007


lunedì 30 novembre 2015

Onofrio Lopez

LE STRADE


                               I

Le strade sono lì per stordire i perdenti, 
non c’è materiale da calpestare che possa 
rendere leggero l’esercizio di movenze
caparbie come i giudizi rimuginati, svelte
alla ricerca di soluzioni effimere, e automatiche: 
perché camminare senza meta non richiede
l’agire conveniente dei percorsi premeditati.

                               II

Quello che conta, per chi come me non indulge 
ai propri demeriti e ne scolpisce l’anacronismo
su qualunque selciato, è il ritmo dei passi 
estraniato dal resto della baraonda, è lo sguardo 
che capta – nella folla instabile – pregi e difetti  
di  vincitori inventati , è la misura della distanza 
da loro che ebbero sorti prodighe, o ne avranno.

                               III

Il mio cammino è obbligato, introspezione 
visionaria di uno sconfitto che segue un rettilineo 
infinito, tra palazzi di scena e quinte semoventi,
con la frenesia incalzante presàga di carenze.
Niente induce a dosare lo sforzo; la spinta 
inconsulta dopo un po’ sfianca e trasforma
un esperimento privato in ebbrezza malata. 
                           
                                IV

Una traversa introdurrebbe l’assunto che a tutto
c’è rimedio. Dove porta? Quali prospettive
ignote collega? Svoltarvi sarebbe una licenza
opportuna. Oltre, salite e discese si alternerebbero 
cambiando il ritmo di marcia. Avrei il tempo
di distinguere meglio, nel riepilogo di reclami
incauti, se vi fu  l’occasione favorevole. 

                                 V

Ma le mie strade sono invisibili e non hanno 
scorciatoie, non regalano il sollievo di deviazioni 
brevi, o di espedienti che riducano la fatica 
del tragitto simulato. Chi perde lo sa. Si prosegue
a diritto con la stessa estraniazione – cadenzata – 
dei gesti avulsi dalla trama. Si compongono 
sillogismi  volatili solo ad uso di sé.  

Giugno 2015

(inedita)




venerdì 27 novembre 2015

Eloy Sánchez Rosillo

Mi dicevo: «Se la Poesia sceglie il poeta al quale concedersi come una giovane donna piena di desideri, desiderosa d’innamorarsi, sceglie colui che le piace fra i suoi coetanei, io, con l’età che avanza, i capelli bianchi, il mal di schiena, la pinguedine del ventre, la gravità del dire e dei movimenti, devo aver perso ogni attrattiva; quindi è giusto che la Poesia volga lo sguardo altrove».


ANCORA LA POESIA      

Era da tempo ormai che la mia mano
non scriveva più versi e mi dicevo
spesso:
               “Può darsi che non torni più 
a scriverne; magari la poesia
non vuole appartenerti o accompagnarti, 
né portarti la luce che rendeva 
bella la vita; a volte è immeritato
ardere in questo fuoco, pronunciare 
le parole che offrono gli dèi 
come un dono agli eletti perché degni
di celebrare le cose del mondo 
e averne sulle labbra il sentimento”. 
                         Spesso questo pensiero
m’accompagnava nell’inquieto andare 
solo come un proscritto nella notte
che non sopporta più 
il peso della colpa né il dolore 
d’esser stato scagliato nell’ombra
da una mano forte e giustiziera.
E guardando quegli alberi che crescono
in una vecchia piazza della città in cui vivo,
il volo di un uccello ed i fulgori
misteriosi di un corpo che s’abbandona sento 
che la parola non ha più il potere
di riversare sulla carta bianca
la grazia ed il tremore della vita.

Pure infine stasera, d’improvviso,
mentre il sole già stanco se ne andava
e non immaginavo d’esser chiamato ancora,
ho ascoltato una voce che diceva:

“Prendi la penna, scrivi”.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Las cosas como fueron. Poesía completa, 1974-2003, Tusquets, 2004

mercoledì 25 novembre 2015

Mario Santagostini

PETRARCA, IPERSECRETUM. IN PRIMA PERSONA

Il mio dizionario era minimo,
la prosa impraticabile.
Ma ho visto nelle parole
ansie di protagonismo che vengono
da lontano, non so da dove.
A volte penso: stanno
qui, ma come dopo una caduta.
E siamo noi il loro abisso.
Noi autori di opere, intendo.
Chissà cos’erano prima.

Un surplus d’universo, nemmeno
il più dolente: questo
è stato il mio Canzoniere, in fondo.

Da Felicità senza soggetto, Mondadori, 2014

lunedì 23 novembre 2015

Onofrio Lopez

LA PESCAIA


                         I

La pescaia rende rapida l’acqua 
della piena a valle dell’ultimo ponte,
non trattiene rami e zolle estorti 
alle sponde sorprese inermi, ingaggia
la paratoia della memoria che apro 
allo scorrere incontinente di misture 
inconscie simili a corpi fluidi.

                          II

Da sempre volubile, il fiume orchestra 
fragore e schiuma nel salto ipnosi 
della corrente, si disperde da un tempo 
zero, convenuto, al tempo infinito, postulato, 
tra argini liberati dalla macchia superflua 
usati come tribune gratuite, di fronte  
all’impeto che sommerge ogni intralcio.


                          III

Un sentimento già provato gorgoglia
d’instabilità nello stesso riflusso che guardo,
cercando la formula del cambiamento
negli eventi  più ovvii, negli schizzi 
che bagnano senza necessità un bersaglio, 
nella competizione di gabbiani prolifici 
rientrati in città a svezzare la discendenza. 


                          IV

Di giorno, un’illusione ottica stordisce 
di luce riflessa l’archivio immateriale 
di miei frammenti d’epoca, paradigma
effimero di qualcosa che muta e che
disseta. Di sera, distorti i contorni 
della scena, poi il buio salverà almeno 
il suono degli scrosci senza colori. 


                         V

Solo l’aridità ostinata ucciderà 
quest’abbondanza di umori e di moti. 
Sotto la diga asciugata – le crepe 
nel fondamento tornate allo scoperto, 
le fratture dell’esistente macchiate 
di fango – il guado a piedi della terra 
secca sarà un gioco fra le rive indurite. 

    
Aprile 2015

(inedita)