mercoledì 29 ottobre 2014

Kenneth Rexroth

DE SIGNATURA RERUM         

Con la testa, le spalle e il libro
all’ombra, al fresco; col corpo                                   
allungato in un bagno di sole,
vicino alla cascata, me ne sto 
a leggere Boehme, De signatura
rerum. Per tutto il lungo giorno 
di luglio, le foglie del lauro, 
nelle varie sfumature dorate, 
s’avvitano nella loro stessa ombra 
scura in movimento. Fluttuano 
per un attimo nel riflesso
del cielo e della foresta, poi ancora
vorticando lente affondano
nel cristallo profondo dello stagno
fino al suolo dorato da altre foglie.
Il santo vide scorrere il mondo 
nell’elettrolisi dell’amore.
Metto da parte il libro e attraverso 
l’ombra chiusa nell’ombra del lauro
snello, guardo foglie e tronchi   
pieni di sole. Lo scricciolo cova 
sotto la volta del suo nido di muschio. 
Un tritone è alle prese con una 
falena bianca che annega
nello stagno. I falchi gridano, 
giocano insieme sotto la volta 
celeste. Passano lunghe ore. 
Ripenso a chi mi ha amato,                    
ai monti che ho scalato, 
ai mari dove ho nuotato. 
Il male del mondo sprofonda. 
Il mio stesso peccato e la pena 
svaniscono come il fardello 
del Cristiano, e io guardo 
le mie quaranta primavere 
cadere come le foglie morte 
e l’acqua stillante sospesa 
in eterno nell’aria estiva.



Nel plenilunio di luglio, i cervi 
scalpitano nelle radure.                                  
C’è odore d’erba secca nell’aria,
e più debole l’odore di una puzzola
lontana. Stando ai margini del bosco 
a scrutare nel buio, in ascolto 
della quiete, un piccolo gufo,
con ali più silenti del mio respiro,
si posa sul ramo sopra di me.
Quando gli punto contro la luce,
i suoi occhi brillano come gocce 
di ferro e lui come un gattino 
curioso alza testa verso di me.
Il prato è luminoso come neve.
Il mio cane fiuta l’erba, macchia
nera in una macchia di lucentezza.
Attraverso il querceto dove
una volta c’era il campo indiano.
Là, in una ragnatela di luce 
e macchie scure, confuse nella foschia
blu, ci sono venti vitelle Holstein,
bianche e nere, stese in terra
tutte insieme, quiete, sotto 
enormi alberi radicati nelle tombe.



Quando lo tirai fuori dal fondo 
dello stagno, quel ciocco fradicio
sembrava pesante come un masso.
Lo lasciai al sole per un mese. 
Per farne legna da ardere,
poi, lo spaccai in tante parti, 
che sparsi per farle seccare 
ancora un po’. Quella notte 
sul tardi, dopo aver letto per ore – 
filosofi e santi sull’umano 
destino –, mentre le falene 
sbattevano contro la lampada,
uscii sulla veranda e attraverso 
l’oscura foresta guardai in alto 
isole oscillanti di stelle.
E subito vidi ai miei piedi,
disseminate sul fondo della notte, 
barre di tremula fosforescenza,
e sparse tutt’intorno schegge
di luce pallida e fredda, ma viva. 


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

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