lunedì 4 agosto 2014

Wallace Stevens

DOMENICA MATTINA


I

Compiacimenti di peignoir, e sul tardi      
Caffè ed arance su una sedia al sole,
La verde libertà di un pappagallo,
Sopra un tappeto, uniti per disperdere                   
Il riverente silenzio di un antico sacrificio.
Lei sogna un po’, risente l’intrusione
Cupa della vecchia sciagura
In un calmo abbuiarsi tra luci equoree.
Le arance aspre, le splendenti ali verdi
Sembrano parte di un corteo funebre
Che si snoda su liquida distesa senza suono.
Il giorno è una liquida distesa senza suono,
Placata sotto i passi dei suoi piedi sognanti
Vòlti oltremare, verso la silenziosa Palestina
Regno del sangue e del sepolcro.


II

Perché concedere i suoi tesori ai morti?
Che divinità è se può venire solo
In ombre silenziose oppure in sogno?
Possibile che nel tepore del sole,
Nei frutti aspri e nelle splendenti ali verdi,
O in ogni balsamo e bellezza terrena non trovi
Cose da amare come l’idea del cielo?
È in lei che deve vivere il divino:
Passioni da pioggia e umori dalle nevicate,
Solitarie afflizioni, indomabili
Entusiasmi al fiorire del bosco; emozioni
A folate sulle strade umide nelle notti
D’autunno; ogni gioia, ogni pena, ricordando
Le gemme estive e i rami invernali.
Queste misure nell’intimo le sono destinate.


III

Giove ebbe nelle nubi la sua origine disumana.
Non lo allattò una madre, né la terra soave
Concesse munifici moti alla sua mente mitica.
Passò tra noi come un re che parlando
Solo passi, solenne, tra i suoi sudditi,
Finché il nostro sangue immacolato, fuso
Col cielo, fu tale ricompensa al desiderio
Che i sudditi lo scorsero in una stella.
Fallirà o riuscirà il nostro sangue
A tramutarsi in sangue di paradiso? E la terra
Sarà tutto il paradiso che noi conosceremo?
Più che ora, allora il cielo sarà amico
Nostro. In parte fatica, in parte pena,
Secondo in gloria solo all’amore eterno.
Non questo azzurro ostile e indifferente.


IV

Dice: “Mi piace che gli uccelli appena svegli,                              
Ma prima di volare, provino la realtà
Dei campi nebbiosi coi loro dolci quesiti;
Ma una volta partiti gli uccelli se non tornano
Quei campi assolati, dov’è il paradiso?”.
Non c’è nessun antro di profezia,
Nessuna remota chimera della tomba,
Neanche inferi dorati o melodiosa
Isola, dove le anime trovino dimora,
Né immaginario sud, né nubilosa
Palma, lungo i pendii del cielo, che resista
Come il verde d’aprile o che resista
Come il ricordo in lei degli uccelli al risveglio,
O il desiderio d’una sera di giugno che viri
Al compimento d’ala della rondine.


V

Dice: “Ma nel piacere sento ancora il bisogno
D’una felicità che sia immortale”.
La morte è madre di bellezza; lei,
E lei sola, esaudirà i nostri sogni
E desideri. Benché sparga le foglie
Del certo oblio sui nostri sentieri,
Lungo i sentieri del dolore e i molti
Dove risuonano i clamori del trionfo
O l’amore sussurra appena tenerezze; è lei
Che fa trasalire il salice nel sole
Per ragazze sedute a rimirare l’erba 
Abbandonata ai loro piedi, e che spinge i ragazzi
A riempire di nuovo i vassoi dimenticati
Di pere e susine. Le ragazze assaggiandone                             
Si smarriscono commosse tra le foglie sparse.                         


VI

Ma la morte non muta in paradiso?
E il frutto maturo non cade? I rami
Pendono sempre carichi in quel cielo sereno
E immutabile ma così simile alla terra mortale, 
Con fiumi come i nostri sempre in cerca
Di mari introvabili e coste che recedono                   
Con angoscia inespressa sempre intatte?           
Perché piantare il pero sulle sponde                                       
Del fiume o profumarle col susino fragrante?
Ah, portano lassù questi colori,
I serici tessuti delle nostre sere;
Pizzicano le corde dei nostri liuti insulsi!
La morte, mistica madre di bellezza:
Nel suo grembo bruciante immaginiamo
Le nostre madri terrene in un’attesa insonne.


VII

Uomini in cerchio, agili e turbolenti,
Un mattino d’estate salmodieranno un’orgia
Di tempestosa devozione al sole;
Non come a un dio, ma al dio che tra loro
Nudo sorgesse come una fonte selvaggia.
Scaturito dal sangue il loro canto
Salendo al cielo sarà canto di paradiso;
Voce per voce in esso entrerà il vento
Del lago in cui il loro dio gioisce,
Alberi come serafini e colline
Da cui l’eco del coro a lungo si riverbera.
Essi sapranno bene la divina comunione
Dei mortali con un mattino estivo.
Da dove vennero e in che luogo andranno
Lo dirà la rugiada ai loro piedi.


VIII

Di una voce, sull’acqua senza suono,
Lei ode il grido: “La tomba in Palestina
Non è luogo per spiriti indugianti
Ma è il sepolcro dove Gesù giace”.
Viviamo nell’antico disordine del sole,
L’antico vincolo del giorno e della notte,
Solitudine d’isola, incustodita, libera
Sulla liquida distesa senza scampo.
Il cervo s’aggira per i monti, fischia
Spontaneamente intorno a noi la quaglia;
Dolci bacche maturano in solitudine,
E saltuari colombi nel cielo
Vuoto della sera passano ondulando
E cullandosi ambiguamente in volo
Sprofondano nel buio, ad ali stese.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da Domenica mattina, Edizioni Il Labirinto, 1998 


Nel 59° anniversario della morte di Wallace Stevens (2 ottobre 1879 - 2 agosto 1955).

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