mercoledì 30 aprile 2014

Alessandro De Santis

PARCO DI VEIO
Ore 19,29. Par condicio. A correre nei boschi

La città è sveglia e
suda fin dal mattino e
il capitano è l’unico riferimento
per un’estate di diete e cronaca nera
Scavando nella buca invece
dell’osso ci trovi una pistola
quella di Agostino, stretta nel pugno
prima di tirare l’ultima
cannonata su rigore
e quella appena immaginata
di Re Luciano, che fa paura
anche quando non dovrebbe.
Vedi capitano, svegliarsi coi fantasmi
è portare a spasso il cane e ritrovare
i bossoli di quello che rimane.

Da Metro C, Manni, 2013

lunedì 28 aprile 2014

Ezra Pound

da Momenti di François-Marie Arouet (Voltaire)

III – A MADAME LULLIN

Stupirete che un vecchio di ottant’anni
Séguiti a scrivere versi d’amore...

Erba che spunta di sotto la neve
Uccelli che cantano tardi nell’anno!

E della sua morte dire poté nel suo latino Tibullo:
« Che io ti guardi, Delia, nell’ora mia ultima ».

E Delia, anch’essa, appassisce
E nemmeno sa più d’essere stata bella.

Traduzione di Vittorio Sereni

Da Opere scelte, Meridiani Mondadori, 1970

venerdì 25 aprile 2014

Geoffrey Hill

IL CANZONIERE DI SEBASTIAN ARRURRUZ  (III)
               Sebastian Arrurruz: 1868-1922


UNA LETTERA DALL’ARMENIA

Così, da lontano, nella tua parte di mondo:
le mature fioriture glandulari e i cipressi
rabbrividiscono dal caldo (sopportato,
a modo nostro, anche da noi) io rivolgo
la mente al saccheggio delicato, alla pro-
venienza di cocci smaltati e non smaltati,
alle tre specie superstiti di grano. Esito
tra disastri circostanziati. E fisso i morti
                          autentici.


UNA CANZONE DALL’ARMENIA

Ruvide foglie argentate che sono la neve                   
Sull’Ararat vista attraverso quelle foglie.
Il sole vi distende un fogliame d’ombra.

Una sorgente d’acqua zampilla                                       
A qualche centimetro dall’abbeveratoio.
Una vecchia vi succhia tenendosi al bordo.

Perché devo rivivere, anche ora,
La tua bocca, la tua mano che corre su di me
Lesta lucertola, come un tendine d’acqua?


A SUA MOGLIE

Ti sei avventurata ogni tanto –
Come questa fosse casa di un altro –
Non da intima, ma da conoscente
Che vanta diritti modesti; come una
A malapena compatita da due nuovi
Amanti che si godono il giusto piacere
Quando gli ospiti se ne sono andati.


(1921)

11

Detto in breve: diventa una specie di
Freddezza tra vicini di casa. Spesso
C’è quest’orgia di sonno. Mi sveglio
A coccolare il decoro con insolite parole
E godo dell’astinenza in una vocazione
Di disperazione ormai quasi insensata.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Collected Poems, Oxford University Press New York, 1986


mercoledì 23 aprile 2014

Geoffrey Hill

IL CANZONIERE DI SEBASTIAN ARRURRUZ (II)
               Sebastian Arrurruz: 1868-1922



4

Una fantasia praticabile. Il vecchio petulante
Dolore ci torna metamorfosato
E semiprezioso. Ambra fortuita.
Come questo compensasse la nostra privazione.
Guarda come ogni frammento prende fuoco,
rigirato, alla fine, nella luce della valutazione.


5

L’amore, oh amore, verrà
Di sicuro. Un temporale cova
Tutto il giorno la terra arida.
Le persiane di notte pulsano nel rovescio.

La metafora tiene: è una casa accogliente.
Tu sei fuori, perduta in qualche posto. Io mi trovo
A divorare versi di più strana passione
Ed esilio. Le parole esatte

Alimentano la mia vuota fame di te.


POSE

Immagino, ogni volta che m’immagino
Noi due più stilizzati e più amorevolmente
Definiti, di non essere me stesso
Ma l’altro che sarei potuto essere: asessuato,
Permissivo sull’arte, capace diciamo
Di gustare le pose ben studiate
Di Sant’Antonio o San Girolamo,
Quei pacifici sogni ermafroditi
Tramite i quali l’eccesso di memoria
Persegue la propria astinenza.


DAL LATINO

Ci sarebbero state cose da dire, quiete                
Che poteva nutrirsi della nostra lussuria,
Banalità rinfrescate, i fatti d’ogni giorno:
E di notte la mia lingua nel tuo solco.

Senza te sono deriso da cortesie
E ciarle, dove donne soddisfatte spingono
Per dovere verso un ospite inutile
Desiderabili tratti di conversazione.


(1922)


(segue)

Traduzione di Francesco Dalessandro


Da Collected Poems, Oxford University Press New York, 1986

lunedì 21 aprile 2014

Geoffrey Hill

IL CANZONIERE DI SEBASTIAN ARRURRUZ (I)
                 Sebastian Arrurruz: 1868-1922


1

Dieci anni senza te. Così succede.
I giorni procedono costanti, pietosa
Ripetizione che non attrae nessuno.

Come studioso disciplinato, già ne ricompongo
I frammenti, oltre ogni congettura
Stabilisco sequenze precise di dolore.

Perché così è corretto trovare valore
In un’arte desolata, come nella cosa restaurata:
Le parole da tanto perdute di scelta ed addio.          


COPLAS

I
“Non si perde ciò che non si è posseduto”
Questa gemma irritante è già abbastanza.                                   Posso perdere quello che voglio. Voglio te.

II
Oh mia cara, sarò afflitto per te
Per il resto della vita con lievi
Variazioni di tono, oh mia cara.

III
Derido a mezzo mezza verità, annoto:   
“La feroce brevità dell’amore sensuale”.
Mi sconvolge anche questo.

IV
È a lui che scrivo, è a lei che parlo
In un silenzio contenuto. Saranno toccati
Dall’estranea passione fra loro?


3

Quello che altri uomini fanno con altre donne
Non è orgia né sacramento, per me,
Né una lingua di straniera schiettezza.

Solo mera occasione o distanza casuale
Dalla quale potresti muoverti e dire il mio nome
Come io dico il tuo, contrattando con gli dèi

Miscellanei del sonno per avere
Quanto più posso: un alieno paesaggio,
Il sogno dove sempre ritrovarti.
                                                                                                        (segue)

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Collected Poems, Oxford University Press New York, 1986

venerdì 18 aprile 2014

David Pujante

VARIAZIONI GOLDBERG


Al vecchio conte Keiserling,
conte ora dell’insonnia (sua unica dimora),
combattente sconfitto dal quotidiano scontro con la vita,
solo le delicate e forti mani del giovane Gottlieb Goldberg
potevano sventare gli incubi feroci
di tante ansie sprecate,
e di tante ingiustizie e tanti tradimenti
che gli offuscano lo sguardo.

Il giovane, che si addormenta presto, infantilmente,
s’alza dal letto rapido come schiavo affettuoso
le volte che il buon conte
invano prova a conciliarsi il sonno.
Con voce ferma, alta ed insistente chiama 
il suo volenteroso dolce clavicembalista,
che abbandona a fatica la pozza dei suoi sogni
d’ingenua e speranzosa gioventù,
gli occhi cisposi, le palpebre incollate,
disposto al suo dovere.

Il ragazzo virtuoso s’accosta alla tastiera
e aspetta i nuovi ordini 
precisi, sempre uguali:
“Suona le variazioni, ragazzo”. E mentre attacca
la musica del genio,
la luminosa musica di Bach,
rannicchiato in un angolo della sua stanza, il conte  
dimentica la vita,
mentre il giovane Goldberg,
con la sempre precisa, brillante esecuzione,
si schiarisce la faccia ed il ricordo,
quel ricordo sicuro
e bello per la storia della musica:
l’omaggio al Maestro del vecchio ambasciatore,
il Conte addormentato
da queste salutari variazioni,
cento luigi d’oro in una coppa d’oro
per queste variazioni impagabili di Bach,
lenitivo perfetto per l’imperfetta vita.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Animales despiertos, Editorial Renacimiento, 2013

mercoledì 16 aprile 2014

Roberto Pagan

LA CRATURA

No son de vena fazile. Le volte
’ssai bisogna covar e tribolar nel scuro.
Come ’ste piante imusonide, stente
cressude tra le piere, tute spini
che no le dà nissuna confidenza. Un giorno
quando che meno ti te speti, se ghe gira
le buta un fior, sa dio perchè. Cussì
co vien la bavisela giusta, se el fioco tira
e te capissi l’onda, basta poco ’lora,
do colpi de ribola e te la meti
in riga, la barca sbrissa e fila come l’oio,
la vela che respira, che de sola
la va zercarse el refoleto
e zivetar col vento.
Ma se no nassi fin ne l’ovo la cratura
segnada de una sorte benedeta, te ga voia
dopo, se la vien storta, de indrizarghe
le gambe e far che la camini
o sbrodegar per darghe un sesto.
Se no la ga distin, solo sbegazzi,
xe quel che resta su la carta, mace
macerie del tuo inzegno
che te pareva un drago, su la tola
sto qua le trovi: un cùgluf senza buso.



LA CREATURA

Non ho la vena facile. Alle volte
c'è da covare e tribolare a lungo nel buio.
Come queste piante immusonite, stente
cresciute tra le pietre, tutte spine
incapaci di dare confidenza. Ma un giorno,
quando meno te lo aspetti, se gli gira da que verso,
lo sa dio perché, mettono un fiore. Così
quando arriva il venticello giusto, se il fiocco tira
e tu capisci l’onda, basta poco allora,
due colpi di barra per mettere in assetto la barca,
che tutto scivola e fila via come l’olio,
la vela che respira e da sola,
va a cercarsi il refoletto
e a fare la civetta con il vento.
Ma se non nasce la creatura fin dall’uovo
segnata da una sorte benedetta, hai voglia
dopo, se vien su storta, di raddrizzarle
le gambe e fare in modo che cammini
o pasticciare per aggiustarla.
Se non è nata sotto buona stella, solo pastrocchi
son quelli che restano sulla carta, macchie
macerie del tuo ingegno
che ti pareva un drago, sulla tavola
è questo che ti ritrovi: una focaccia senza buco.


da Robe de no creder, Edizioni Cofine, 2013


lunedì 14 aprile 2014

Mia Lecomte

CASA DI BAMBOLA

Sezione della casa.
Frontale. Mezza in ombra.
II terzo piano è soffitta.
Rotola una palla, costante, e la polvere è viola.
Il secondo piano si flette.
Tutti i passi dei figli, a migliaia. Dei gatti.
Si flette.
Al primo piano comincia il dolore.
Lei è tutta sul letto, decomposta.
Lui la aspetta nella vasca da bagno.
Al piano terra è cominciato da giorni.
Lei ora è in cucina. Ha già pianto e si affretta.
Lui l’ha seguita con le sue lenti tabacco.
Fuori un groviglio di spade. Il prato col box.
C’era il nome.
La sezione non mostra le scale.
Si passa da dietro, tra i piani.
I figli lo sanno tutti in fila.
In salotto lei ha perso l’età.
Lui la ragione.
Scricchiola un osso qualunque, un molare.
La polvere si è fatta celeste e riflette.
Non si aspettano strade

da Intanto il tempo, La vita felice, 2012

venerdì 11 aprile 2014

Fernanda Romagnoli

MAR ROSSO

L’animo del poeta: un espatriato!
Un erede di ghetti dati al fuoco!
Non ha foglio di profugo. Non chiede
viveri sigarette posto-letto.
L’atlante – cancellato alle sue spalle.
Pura circonferenza l’orizzonte
(egli – al centro – il suo passo beduino).
Su dal mattino – come da un bivacco;
giù al tramonto, vermiglia intermittenza
d’una misura senza fine.
Ma a notte... come dolce il suo Mar Rosso
trabocca in lui, l’inonda fra le ciglia
quand’egli giace – tutto il cielo addosso.

Da Mar Rosso, Il Labirinto, 1997

mercoledì 9 aprile 2014

Giovanna Sicari

SIAMO A BORDO

Siamo a bordo
non v’è ruggine sul fiocco
non si spezza sotto vento l’esca
del mio amo. Mantieni la rotta
appena sarai lassù, tienimi forte.

Se sei pronto per simili averi
su quel cavallo verde di fanchiglia
non sferrare assalti al cielo.
Abbiamo ambedue una ragione di fuoco
uguale tempesta, uguale partitura.
S’intende l’innocenza, stasera
il suolo ci raggiunge, si sospetta
della verginità ancora intatta.
Amore non so, non voglio sapere
se dalla via s’intravede
la statua risorta.

Da Sigillo, Crocetti Editore, 1989

lunedì 7 aprile 2014

Kenneth Rexroth

LETTERA A WILLIAM CARLOS WILLIAMS


Caro Bill,

quando ti cerco nel passato 
mi capita di pensarti come
un san Francesco disincarnato:
la sua carne come nuvola felice 
volava a unirsi a coloro che amava – 
asini, fiori, lebbrosi, astri – 
ma poi penso che somigli  
più a fra’ Ginepro che sopportava
offese e onori col sorriso 
gentile di un folle.
In qualche parte dei Fioretti
ci sei anche tu, perché sei folle, 
Bill, come il Folle di Yeats,
simbolo d’ogni beltà e saggezza.
Sei tu che tieni testa
a Elena in tutta la sua saggezza
e a Salomone in tutta la sua gloria.

Ti ricordi anni fa quando ti dissi
che dal Medioevo eri tu
il primo grande poeta
francescano? Turbai il regolare
svolgimento del pranzo.
Tua moglie mi credette pazzo.
Eppure è vero. E sei anche
“puro”, un vero classico,
ma senza clamori – molto simile
alle ragazze dell’Antologia.
Non come la stridula Saffo 
che per quella sua grandeur 
forse soffriva di endometriosi,
ma come Ànite, che dice piano
giusto il poco che basta
ricordare nel corso dei millenni.

È meravigliosa la tua calma,
il tuo modo di startene tranquillo 
di fronte al mondo, ai suoi 
luridi fiumi, pattumiere,
rosse carriole lucide di pioggia,
prugne gelate rubate dal frigo,
il merletto di Queen Anne, 
le margherite occhi del giorno, 
germogli sbocciati su strade fangose, 
pance maculate con dentro 
bambini, Cortes e Malinche 
sulla strada insanguinata, 
la morte del mondo dei fiori.

Oggi che i giornali sfornano
chiacchieroni, tu resti in silenzio,
ogni anno un fascio di silenzi,
poesie con niente da dire,
come il silenzio di George Fox,
che siede tranquillo sotto la nube
di tutte le mondane tentazioni,
accanto al fuoco, in cucina, 
nella Valle di Beavor. E 
l’archetipo, il silenzio di Cristo, 
che solo dopo una lunga 
pausa disse: «Tu l’hai detto».

«Io che sto per morire», 
dici in una recente poesia. 
Magari è solo una citazione 
classica, ma mi fa rabbrividire. 
Dove hai preso quella roba,
Williams? Ascolta. Verrà il giorno 
che una giovane donna 
passeggerà lungo il limpido
fiume Williams, là dove 
scorre attraverso una specie 
d’idilliaco paesaggio di ‛Nuove 
da Nessun Dove’, e dirà 
ai suoi bambini: «Non è bello? 
Si chiama come l’uomo 
che veniva qui a camminare, 
un tempo, quando si chiamava 
ancora Passaic e era 
un rigurgito di velenosi 
escrementi di fabbriche 
e gente malata. Lui, che era 
un grand’uomo, sapeva,
meglio di chiunque altro, 
quanto fosse stato bello, 
allora, nei Secoli Bui. 
E il bel fiume ch’egli vide
scorre ancora nelle sue vene 
come scorre nelle nostre, 
e nei vostri occhi, e scorre 
nel tempo e ci rende 
parte di esso, e parte di sé.
Questo, bambini, si dice
un patto sacro. E un poeta
fa proprio questo: crea 
patti sacri che durano per sempre».
     Con affetto e stima,
     Kenneth Rexroth.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

venerdì 4 aprile 2014

William Carlos Williams

PROMENADE

I

Bene, mente, c’è accanto
a noi il nostro bambino:
piccolo diversivo prima di colazione!

Vieni, facciamo una passeggiata 
giù in strada, mentre frigge la pancetta.
O è meglio starcene in ozio?
Ne potrebbe venire una poesia?
Su, renditi utile. Evita una seccatura
a Flossie e in più – c’è vento!
È freddo. E ci gonfia
questi vecchi calzoni. Ci fa rabbrividire.
Guarda come piega quegli alberi
robusti davanti a sé, nonostante il loro peso.
E noi saremo alberi, una vecchia casa,
una collina erbosa.
Le braccia del bambino sono livide.
Vieni, su! Sta’ tranquillo.

II

Ecco. Adesso sediamoci 
qui e gettiamo sassolini
in quel rigagnolo.

           Fa’ schizzare l’acqua.
(Falla schizzare, figliolo). Ridi!
Colpisci lì in fondo sotto l’erba.
Guarda come schizza! Ah, mente,
guarda come schizza, com’è viva!
Spezza le foglie e buttacele dentro.
Le vedrai correre via.
No! Sì, solo un po’.

E ora via, dalle mucche! Ma – 
fa freddo.
Si sta mettendo a brutto.
Sta per piovere.
Fermiamoci qui.

III

Oh, adesso una corona! 
Su, rinnoviamo l’usanza
di una volta per chi scriveva bene.

Due ciuffi di felce. Puliscili
da una parte fino a metà nervatura.
Lega le punte con un filo d’erba.
Piegane indietro i gambi 
e intrecciali. Così.
Ah, eccoci incoronati!
Ora siamo un poeta.
Fa’ presto!
Un mazzolino di fiori
per Flossie – quelli piccoli
soltanto:

             un trifoglio rosso, una
panacea azzurra, una rametto di
aquilègia, una primula,
un cespo di tabacco, questa 
punta di magenta e poca
lavanda.

            Ora a casa, mente mia! – 
Perché il bambino ha le braccia gelate – 
e è pronta la colazione.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The collected poems of William Carlos Williams: 1909-1939, New Directions Publishing Corporation, 1991

mercoledì 2 aprile 2014

Geoffrey Hill

DUE POESIE SULLA SOPPORTAZIONE DEI POETI



GLI UOMINI SONO LO SCHERNO DEGLI ANGELI
Tommaso Campanella, prete e poeta: in memoria

In certi giorni dal lucernario
Un’ombra condivide la mia
Prigione. Osservo una limaccia
Scalare il lato della fossa
Lucido della propria bava. Le grida
Che m’arrivano sono mie; solo dopo,                       
Di Dio: la mia giustizia, ferite, amore,
Luce beffarda, pane, lordura.

Giacere qui nella mia strana
Carne mentre il Tormento dorme
Sazio, macchiato del cibo ingurgitato,
È una gioia che va oltre                     
La preoccupazione del mondo,
Per un po’. Ma abbiamo l’ordine
Di alzarci, quando, in silenzio,
Comporrei la mia voce. 


TRISTIA: 1891-1938
Un commiato da Osip Mandel’štam

Difficile amico, avrei preferito te a loro.                   
I morti si tengono le loro vite sigillate
E io arrivo di nuovo troppo tardi. Troppo tardi
I saluti, nugoli di polvere e grida sfrontate.

Dalla desolazione si levano immagini
Guarda... rovine sulla pianura...
Qualcuno si scruta le mani, qualcun altro
Striscia in cerca di cibo nei campi lungo la strada.

La tragedia ci tiene tutti in conto.
Anche se non ci tocca, però è là –
Integra, insaziabile – un duro cielo estivo
Che si appaga di questo, che raggiunge il proprio scopo.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Collected Poems, Oxford University Press New York, 1986