lunedì 10 marzo 2014

Stefania Portaccio

BIANCANEVE REGINA

ora sono regina  non si scappa

ero giovane, anche da questo non si scappa
e la matrigna aveva un sesto senso
chiamato specchio 
un orecchio sottile
uno spillone vecchio
tramandato
col quale mi avrebbe volentieri trapassato

ero irritante
canterina e saccente e – 
chiaro già a lei ma non ancora a me –
in cerca di un amante

lei una bestia ferita:
si era appena affacciata un’ignorante
fragrante di biancore
e stava vincendo la partita

la regina amava il cacciatore
lo teneva sul petto
lo cullava per ore ma distante
si era fatto l’amante

da qui il duello: al cuore
Ramòn ingiunse la matrigna al cacciatore
e lo voglio mangiare aggiunse 

ora mi dico che l’avesse inghiottito
davvero non sarebbe ferito
tanto da somigliarle
ed invece ora somiglia:
siamo ­ – non si scappa – una famiglia

ma il cacciatore, Ramòn 
stanco della catena, e preso
dall’idea di violare
la mia animuccia stretta col beau geste
mi avvisò di fuggire e portò un cuore
fittizio che lei mangiò sanglant

se invece di avere lui un cuore rotto
e slabbrato 
mi avesse messa sotto?
volevo quello: degradata 
ad ordinaria sposa
chiavata nel capanno al tempo giusto
me la sarei spassata, credo
me la sarei cavata

invece corsi via grata 
distratta da voglie vaghe di un castello 
mio, e solo dentro di questo quello.

Giunsi, annunciata da folate
del mio giovane odore, bagnati
i capelli di sudore
a casa di sette uomini attempati.

Tralascio la sporcizia, lo scombino.
Servì la dedizione alla casetta
a sviarli? Le pietanze a stordirli? 
No: furon tristi come mai fu prima
perché la casa gode la padrona
e l’uomo la sua mamma
e io fui la manna e gli cambiai la vita
in rimpianto per un’ avventuriera
che amava en passant essere ambita 
da sette e ventisette e trentasette
ma invero ambiva
a sistemarsi in un maniero
modello, e dentro di questo quello 

una tipa casuale, passeggera
che appena sola tornava quella sciocca
sognatrice che abbocca.

L’ossessa non cessava di saperlo
– era stata ragazza –
usò i suoi trucchi e vinse:

mi ritrovai sotto un cristallo morta
e lei a riposo coi piedi sul divano
i nani orfani e vedovi a vegliare 
la bara a turno – ognuno
in lutto eterno e singolare –
il principe di là, molto, da venire

ma venne –  non si scappa – e tanto fece 
che mi portò con sé seppure morta.
Giurò persino: la onorerò di più
(più che da viva, senza fare quello
o pensava di farlo tra le braccia cascanti 
o tra le gambe immote come lunghe carote?)

abbagliati dal rango e dall’onore 
i sette per quanto a malincuore 
mi lasciarono andare, portata a spalla, morta.

Un portatore prese poi una storta
la bara di conseguenza uno scossone 
e dalla salma fuoriuscì il boccone
di mela dalla gola:  tornai alla vita
spalancai gli occhioni e vidi il viso
d’un tizio sconosciuto che spergiurava 
d’ amore e paradiso.

Dissi subito sì e restai supina:
sarei stata regina

per prima cosa un velo ricamato 
uno strascico assurdo ed infinito 
poi invitare alle nozze l’assassina
e metterla alla berlina

infine avrei avuto il mio castello e dentro questo quello

volevo? non proprio come un tempo
a perdifiato, che avrei corso e implorato 
e festeggiato e riso come una matta
ma l’avrei avuto il sacrosanto
ambaradan ed ero 
soddisfatta

con il consenso del mio nuovo signore
mi presi, come era costume, la vendetta:
misi alla berlina la sciacquetta
e poi la feci morire di calore

Il boss pensò che lavassi la mia morte
mi credeva comune, ma segreta
sempre fui al mio consorte analfabeta:
grigia sorte fu averlo per signore 

morì la strega urlando di dolore
perché mi aveva ucciso il cacciatore


da Il padre di Cenerentola e altre storie, inedito

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