lunedì 31 marzo 2014

Francesco Dalessandro

COMPLEANNO
(da Sulpicia, Corpo tibulliano, III, 14 e 15)


*                                                                    

Che vuoto compleanno
senza vederti! La campagna è triste
come me. Roma annoia. Dove sei?


*                                                                    

«Non atteso il tuo nuovo compleanno 
è giunto. Un anno in più. Cos’è cambiato?

Con non indegni amici
festeggialo l’anno che finisce
se ti lascia anche un solo 
ricordo d’amore. 
Se no piangilo, sola. Dimenticalo presto».

(inedita)


venerdì 28 marzo 2014

Alessandro Ricci

IL MILLE DI MARZO


Oggi 
è il mille
di marzo. Fatti
i calcoli, fatti
i nomi che pesano.

Roma, la mattina del 27 marzo 1982


da L’editto finale, Il Labirinto, 2014

mercoledì 26 marzo 2014

Fabio Ciriachi

AUTOCOSCIENZA NARRATIVA

Ho un anno in più di quanti ne aveva
Harold Brodkey quando è morto
e non ho scritto neanche un decimo
della sua elegante bellezza.
Quanto longevo dovrò sopportarmi
per annullare un po’ della distanza
che tuttora mi separa da uno
dei pochi maestri eletti a custodi
della grata fatica che mi costa
tradurre la rozzezza ereditata
in una chiara voce tutta mia
da lasciare ai figli naturali
e agli altri che potrei acquisire
nel tempo consentito a migliorarmi?

Da Pastorizia, Empiria, 2011

lunedì 24 marzo 2014

Roberto Coppini

HO UCCISO MIA MADRE RENDE SUPERFLUA

Ho ucciso mia madre rende superflua
la ricerca dell'arma. Sarebbe meglio
applicarsi alle leggi che governano
la nostra inimicizia, che avranno orbite,
fulcri, accelerazioni.

Mandatari e mandanti si scambiano le parti.

Il tessuto cardiaco agisce
per conto proprio: così la mano
che arresta la morte sul capo di Isacco.

Da Le posate sul piatto, Edizioni Salvatore Sciascia, 1978

venerdì 21 marzo 2014

Alessandro Peregalli

COMPLEANNO

È tornata primavera.
L’aria s’è fatta dolce e il cielo azzurro terso
si stende fino all’orizzonte latteo incurvandosi sulla terra.
I drammi dell’anima si placano, l’inquinamento, la guerra,
sotto questa cupola sensibile, tesa dell’aria nuova.

Nel verde silenzio della mattina
dai boschi una montagna come una gemma rosa
esala il suo profumo lieve
al cielo, spirito delle selve.

Cinquanta voli di bava azzurra in cielo ha compiuto la Terra
attorno al Fuoco Idrelio da che il mio volto
uscì dalla notte della prenascita e fu circondato di luce.

Da La cronaca. Poema 1939-1982, il Saggiatore, 2003


mercoledì 19 marzo 2014

William Carlos Williams

SPIRITO DEL FUOCO

Io sono vecchio.
Voi vi scaldate a questi fuochi?
In mezzo a queste fiamme
io siedo, e batto i denti.
A chi mi volgerò per un conforto?


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The collected poems of William Carlos Williams: 1909-1939, New Directions Publishing Corporation, 1991

lunedì 17 marzo 2014

Yvor Winters

A EMILY DICKINSON

Emily cara, le mie lacrime brucerebbero la tua pagina,
se l’asciutto fuoco del verso non ardesse loro –  
bruciandomi gli occhi, e le dita, mentre rivolto
ognuna delle parole che mincrespano il cuore con l’età.                   
Se un pellegrinaggio tormentato attraverso le parole
o il Tempo o la vuota pena del Fato io potessi fare
e inginocchiarmi innanzi a te come tu trovasti la tomba,
allora potrei alzarmi a fronteggiare la mia eredità.

La tua era una vuota solitudine d’altopiano
sbiancata dalla polvere di un nome morente;
la mente, persa nella persa certezza d’una parola
che si attutiva via via che passi attutiti venivano 
a tracciare un epilogo a parole diventate oscure
nell’accanita discussione che conduceva a Dio.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Collected Poems, Swallow Press Inc., 1960

venerdì 14 marzo 2014

Kenneth Rexroth

PROTOPLASMA DI LUCE

Quanto tempo fa 
Frances e io andammo in metro
al Van Cortlandt Park. La gente
era tutta eccitata, ragazzini e storpi 
vendevano occhiali neri.
Corremmo verso le colline
aperte a nord della stazione 
come fosse troppo tardi e restammo
lì, mano nella mano, in attesa.
Sotto gli alberi, il sole tra i rami 
spogli creava piccole lunule di luce, 
sulla neve. Il cielo ingrigì
e si svuotò. Una dopo l’altra 
spuntarono le stelle. Il sole 
alla fine fu appena una falce 
sottile sugli occhiali, coi vicini 
pianeti luminosi a sorvegliarlo. 
Poi, in cielo, saltò fuori 
la grande ameba di gelida luce 
cristallina. Il vento passò oltre
come una folla silenziosa. La folla
singhiozzò come un soffio 
di vento. Tutti i cani ulularono.
Il silenzioso protoplasma di luce
s’arrestò nelle viscere buie 
del cielo, circondato da un anello 
di fuoco rosso vivo, il suo nucleo 
nero-pietra. Mercurio se ne stava
silenzioso là vicino, freddo 
e scuro come una scaglia di ferro.
Fu tanto tempo fa.
In spiaggia, io e Mary guardiamo 
il sole sprofondare nell’oceano 
ventoso. Strati di vapore spaccano 
il disco, che sembra un’enorme 
pagoda di rame. La spuma 
soffia oltre le nostre facce,
una medusa pulsa nell’acqua
immota, si schiaccia sulla sabbia
umida ai nostri piedi. Scende
il crepuscolo e appaiono tutti 
i pianeti visibili: prima
Venere, poi Giove, Marte,
Saturno e di nuovo Mercurio.
Le foche berciano sulle rocce.
Racconto a Mary di Keplero,
e di come Mercurio, che lui
non aveva mai visto, brillasse 
alla finestra mentr’egli moriva, 
troppo tardi perché potesse 
vederlo. Il misterioso cono 
di luce s’appoggia sull’orizzonte, 
nel cielo pallido. Io le dico: 
«Non si sa cosa sia né dove sia. 
Forse è la grande nube di gas
intorno al sole che vedrai
un giorno di questi, se sarai
fortunata, perché si distingue
solo durante un’eclisse. 
Io l’ho vista molto tempo
fa». 


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 


mercoledì 12 marzo 2014

Dina Basso

AJU NA VINA 

Aju na vina 
ca sutta a carni nun ci vola stari:
suli nunn’i pò pigghiari
e idda,
buttana,
acchiana a picca a picca,
picchì vola a luci e u caudu.
Ju a chiamu “l’autostrata”
e u dutturi ha dittu
ca ccon paru di ’gnizioni
si nni cala n’atra vota;
ju però ma scantu:
e suddu fussa a vina poetica
e ddopu nunn’a scrivu cchiù?

Ho una vena / che sotto la carne non ci vuole stare: / sole non ne può prendere / e lei, / puttana, / sale a poco a poco, / percné vuole luce e caldo. / Io la chiamo “l’autostrada” / e il dottore ha detto / che con un paio di punture / si sgonfia un’altra volta; / io però mi spavento: / e se fosse la vena poetica / e dopo non scrivo più? 

Da La generazione entrante, poeti nati negli anni Ottanta, a cura di Matteo Fantuzzi, Giuliano Ladolfi Editore, 2011

lunedì 10 marzo 2014

Stefania Portaccio

BIANCANEVE REGINA

ora sono regina  non si scappa

ero giovane, anche da questo non si scappa
e la matrigna aveva un sesto senso
chiamato specchio 
un orecchio sottile
uno spillone vecchio
tramandato
col quale mi avrebbe volentieri trapassato

ero irritante
canterina e saccente e – 
chiaro già a lei ma non ancora a me –
in cerca di un amante

lei una bestia ferita:
si era appena affacciata un’ignorante
fragrante di biancore
e stava vincendo la partita

la regina amava il cacciatore
lo teneva sul petto
lo cullava per ore ma distante
si era fatto l’amante

da qui il duello: al cuore
Ramòn ingiunse la matrigna al cacciatore
e lo voglio mangiare aggiunse 

ora mi dico che l’avesse inghiottito
davvero non sarebbe ferito
tanto da somigliarle
ed invece ora somiglia:
siamo ­ – non si scappa – una famiglia

ma il cacciatore, Ramòn 
stanco della catena, e preso
dall’idea di violare
la mia animuccia stretta col beau geste
mi avvisò di fuggire e portò un cuore
fittizio che lei mangiò sanglant

se invece di avere lui un cuore rotto
e slabbrato 
mi avesse messa sotto?
volevo quello: degradata 
ad ordinaria sposa
chiavata nel capanno al tempo giusto
me la sarei spassata, credo
me la sarei cavata

invece corsi via grata 
distratta da voglie vaghe di un castello 
mio, e solo dentro di questo quello.

Giunsi, annunciata da folate
del mio giovane odore, bagnati
i capelli di sudore
a casa di sette uomini attempati.

Tralascio la sporcizia, lo scombino.
Servì la dedizione alla casetta
a sviarli? Le pietanze a stordirli? 
No: furon tristi come mai fu prima
perché la casa gode la padrona
e l’uomo la sua mamma
e io fui la manna e gli cambiai la vita
in rimpianto per un’ avventuriera
che amava en passant essere ambita 
da sette e ventisette e trentasette
ma invero ambiva
a sistemarsi in un maniero
modello, e dentro di questo quello 

una tipa casuale, passeggera
che appena sola tornava quella sciocca
sognatrice che abbocca.

L’ossessa non cessava di saperlo
– era stata ragazza –
usò i suoi trucchi e vinse:

mi ritrovai sotto un cristallo morta
e lei a riposo coi piedi sul divano
i nani orfani e vedovi a vegliare 
la bara a turno – ognuno
in lutto eterno e singolare –
il principe di là, molto, da venire

ma venne –  non si scappa – e tanto fece 
che mi portò con sé seppure morta.
Giurò persino: la onorerò di più
(più che da viva, senza fare quello
o pensava di farlo tra le braccia cascanti 
o tra le gambe immote come lunghe carote?)

abbagliati dal rango e dall’onore 
i sette per quanto a malincuore 
mi lasciarono andare, portata a spalla, morta.

Un portatore prese poi una storta
la bara di conseguenza uno scossone 
e dalla salma fuoriuscì il boccone
di mela dalla gola:  tornai alla vita
spalancai gli occhioni e vidi il viso
d’un tizio sconosciuto che spergiurava 
d’ amore e paradiso.

Dissi subito sì e restai supina:
sarei stata regina

per prima cosa un velo ricamato 
uno strascico assurdo ed infinito 
poi invitare alle nozze l’assassina
e metterla alla berlina

infine avrei avuto il mio castello e dentro questo quello

volevo? non proprio come un tempo
a perdifiato, che avrei corso e implorato 
e festeggiato e riso come una matta
ma l’avrei avuto il sacrosanto
ambaradan ed ero 
soddisfatta

con il consenso del mio nuovo signore
mi presi, come era costume, la vendetta:
misi alla berlina la sciacquetta
e poi la feci morire di calore

Il boss pensò che lavassi la mia morte
mi credeva comune, ma segreta
sempre fui al mio consorte analfabeta:
grigia sorte fu averlo per signore 

morì la strega urlando di dolore
perché mi aveva ucciso il cacciatore


da Il padre di Cenerentola e altre storie, inedito

venerdì 7 marzo 2014

William Shakespeare

PRENDI TUTTI I MIEI AMORI

Prendi tutti i miei amori, amore, sì prenditeli tutti
e che cosa avrai in più che non avevi prima?
Nessun amore, amor mio, che vero amore
tu possa chiamare, il mio tutto era tuo prima ancora 
che in più questo avessi. Così, se per amore
mio ricevi l’amor mio non posso biasimarti  
per l’uso che ne fai. Ma se inganni te stesso, 
gustando con bramosia ciò che rifiuti, sarai 
biasimato. Io, ladro gentile, il tuo furto perdono 
anche se d’ogni povero avere mi derubi. 
L’amore ben sa com’è più doloroso sopportare 
il torto d’amore che non dell’odio l’offesa diretta. 
Lasciva grazia, in cui tutto il male sembra bene, 
uccidimi col disprezzo, non essermi nemico.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da William Shakespeare, Complete Sonnets and Poems, Oxford University Press, 2002

mercoledì 5 marzo 2014

Roberto Coppini

DIO È UNA REMOTA NOTIZIA

Che ne sappiamo noi

degli usignoli
o delle ciminiere,
dei continenti inesplosi,
del polline che incalza,
dell'accoppiarsi tra medesimi sessi?

Un tempo ci batte negli occhi.

Lo scirocco romba negli androni
sbocca nei sottopassaggi,
tutta la terra
è un tremare come di nave.

Nelle isole di corallo

le tartarughe cercano la morte.

Ariete si accosta alla luce.

La razza animale si desta.
Invaghisco di tutto.
Levigo pietre,
insemino trame precarie
lo smalto acuto della foglia 
la pomice sui muri.

L’ellisse dei morti

ingorga la terra.

Le montagne sollevano la chioma

a un vento
che raschia i grumi dell'ossido.
Nell’abisso si scuote
il fossile. Dio
è una remota notizia.                           

30 aprile 1968


Da Le posate sul piatto, Edizioni Salvatore Sciascia, 1978

lunedì 3 marzo 2014

Vincenzo Cardarelli

LA SPERANZA È NELL’OPERA

La speranza è nell’opera.
Io sono un cinico a cui rimane
per la sua fede questo al di là.
Io sono un cinico che ha fede in quel che fa.

da Opere Complete, Mondadori, 1962