venerdì 28 giugno 2013

Robert Penn Warren

IL RITORNO

Lindo e imponente, la corteccia color terra d’ombra
Arricciata attorno al bianco vivente del tronco nel sole,
S’ergeva il sicomoro, inondato di luce autunnale.
Lo stesso d’un tempo. Ancora la larga foglia d’oro senza tempo
Si staccò dal ramo nerbuto e lentamente,
Incerta come un ricordo fortuito,
Ondeggiò di sghembo per l’immobile aria matura.
Dal ramo più bianco, dal cielo più azzurro,
Che sotto traluceva nel profondo dell’acqua,
Una foglia più ricca si levò ad incontrare l’altra.
Si toccarono: con la tenue chiarezza del sogno,
Petto a petto, arsero sulla quieta corrente.

Ma, cuore tardivo, non hai voce per richiamare
La tua immagine, l’immagine errabonda.
L’albero, la foglia cadente, la corrente, e tutte
Le infedeli cose familiari rimarrebbero ancora
Senza voce. E lui, che come tanti altri aveva amato,
Avrebbe potuto prevederlo, poiché ben sapeva
Come un mondo sepolto, balenante, è perduto
Nel réfolo dell’acqua o nella folata del vento;
Come la sua immagine, profonda e perfetta,
Minuscola negli occhi dell’amata, era stata obliata
Quando aveva volto il capo, o quando quegli occhi s’eran chiusi
Oltre ogni luce nel tenero accidente del sonno.

Traduzione di Sergio Perosa

da Racconto del tempo e altre poesie 1923-1971, Einaudi, 1971

mercoledì 26 giugno 2013

Marco Vitale

MA POI CHE IMPORTA, PENSO, COSA IMPORTA

Ma poi che importa, penso, cosa importa
se ti parlo di nuovo come in sogno
di quel che è stato e avresti
ricordato o anche solo
intravisto
Si burla il grande nulla della mia
voce afona ma non di te, di voi
confitti nel mistero come questi
bei lumi che si accendono
anzi che umanamente, dolcemente venga
meno di fiamma un altro autunno

di smagliato nitore


da Luna d’eclissi, LietoColle, 2004

lunedì 24 giugno 2013

Camillo Fonte

LA DAMA CON LO SCIALLE

L’abbrunata sera sorprende
l’esile figura seduta dietro i vetri
a curarsi le unghie.
Il suo sguardo a intervalli spia il sentiero
da cui l’ospite atteso dovrebbe salire.
La solitudine concede
ricordi senza intenzione, permette
che l’ora trascorra ma insinua
un’idea di sconforto nell’attesa.

«Quest’arrivo che attendo,
stagione sempre nuova lo allontana!
Io non so a quale dio
feci offesa che meritasse tanto abbandono
né se questa dimora che divido
coi piccioni e la serva smemorata
mai passi d’uomo la calpesteranno.
Nessuno si spinge così in alto.
Nessun ospite è mai giunto.

Anche il giardino va in malora,
trascurato da tanto. Sugli scogli
il mare s’infrange con antica dedizione
e l’insidia respinge rare navi
che tentano l’attracco.
Invano aspetto l’ospite annunciato
e m’illudo di poterlo riconoscere.

Forse l’arrivo che mi fu promesso
fu il vanto d’un poeta,
una lusinga per la mia intenzione».

L’ora giunge dolente in cui l’attesa
cede al buio – ed è giorno che s’aggiunge.


dalla raccolta inedita L'isola

venerdì 21 giugno 2013

Robert Lowell

RETE DA PESCA

La chiarità di ogni cosa che improvvisa ci abbaglia,
i tuoi vaganti silenzi e brillanti scoperte,
delfino scatenato ad afferrare nel loro guizzo i pesci...
dicendo troppo poco, e poi un poco troppo.
I poeti muoiono adolescenti, il ritmo li mummifica,
le voci archetipe cantano fuori chiave;
il vecchio attore non sa più legger gli amici
e tuttavia legge se stesso ad alta voce,
il genio culla a morte l’uditorio.
Deve pur aver fine il verso.
Però il mio cuore è fiero, so di aver allietato la mia vita
intrecciando, disfacendo una rete di corda catramata;
la rete rimarrà al muro quando i pesci saranno già mangiati,
affissa come bronzo illeggibile sul futuro senza futuro.

Traduzione di Rolando Anzilotti

da Il delfino e altre poesie, Mondadori, 1989

mercoledì 19 giugno 2013

Kenneth Rexroth

DIECI POESIE D’AMORE DI MARICHIKO




Sto seduta al mio tavolo.
Che cosa posso scriverti?
Malata d’amore,
anelo a vederti in carne e ossa.
Posso scrivere solo:
“Io ti amo, ti amo, ti amo.”
L’amore mi spacca il cuore
e mi strazia le viscere.
Spasimi di desiderio mi soffocano
e non vogliono smettere.


VII

Far l’amore con te
è come bere acqua marina.
Più ne bevo
e più sono assetata,
finché niente può appagare la sete
se non bere il mare intero.


IX

Mi svegli
aprendomi le cosce, mi baci.
Ti dono la rugiada
del primo mattino del mondo.


XXIV

Grido mentre mi mordi
i capezzoli e l’orgasmo
esaurisce il mio corpo, come se
mi avessero tagliata in due.                     


XXV

La tua lingua vibra e si muove
dentro di me che mi svuoto
e avvampo in un turbine
di luce, come l’interno di una 
grande perla che s’espande.


XXVII

Appena uscita da
un bagno caldo, m’hai presa davanti
allo specchio orizzontale
accanto al letto basso, mentre i miei
seni ti tremavano nelle mani, la mia 
natica fremeva contro di te.


XXXI

Un giorno di questi in una spanna di                                
cenere ci sarà tutto
ciò che resta delle nostre appassionate
menti, l’intero mondo creato 
dal nostro amore, l’origine
e la sua sparizione.


XXXII

Ti stringo la testa fra le 
cosce e premo contro la 
tua bocca e ondeggio
all’infinito in una barca
d’orchidee sul Fiume Celeste.


XLIV

I capelli in disordine
li devo all’insonne talamo solitario.
Occhi sbattuti e guance smunte
sono colpa tua.


XLVIII

Le lucciole della nostra gioventù
sono sparite tutte,
grazie all’efficace insetticida
della nostra mezza età.


Traduzione di Francesco Dalessandro 

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

lunedì 17 giugno 2013

Elizabeth Bishop

AL QUINTO PIANO

Ancora buio.
L’uccello sconosciuto sta sul ramo solito.
Nel sonno abbaia il cagnolino dei vicini,
lo fa una volta sola, in tono interrogativo.
S’interroga nel sonno anche l’uccello, forse,
una volta o due, trillando tremulo.
Domande – se poi domande sono – 
che ottengono risposta, pronta, semplice,
dal giorno in persona.

Meticoloso, ponderoso, enorme
mattino; luce grigia
che minia ogni ramo spoglio, ogni singolo
fuscello, da una parte sola, dando
un altro albero di venature vitree...
L’uccello è sempre li. Ora sembra sbadigliare.

Il cagnolino nero corre nel cortile.
La voce del padrone s’alza, aspra:
“Dovresti vergognarti!”.
Cosa ha fatto?
Allegro lui saltella su e giù;
scorrazza in tondo tra le foglie morte.

Senso della vergogna, zero.
Lui e l’uccello sanno che c'è una risposta
a tutto, a tutto si provvede, non occorre
rifare la domanda.
– Ieri ha portato a oggi senza sforzo!
(Uno ieri per me quasi impossibile rimuovere).


Da Miracolo a colazione, Adelphi, 2006
(con traduzioni di Damiano Abeni, Riccardo Duranti e Ottavio Fatica)

venerdì 14 giugno 2013

Attilio Bertolucci

Nel tredicesimo anniversario della sua scomparsa. 


SAN NICCOLÒ DA TOLENTINO, STRADA

San Niccolò da Tolentino, strada
in discesa dal marciapiede bagnato
di quieto sole che percorrono freschi
d’una notte di amore e di sonno. Nessuno
dei rari passanti che incrociano, leggermente
affaticati dalla salita, presta loro
quel tanto di attenzione che nella città
lontana consola d’ogni giornata
dell’anno che sia uscito di casa: è
A. a notarlo alla sua compagna
di passo lento ma vivo,
in un tailleur di tweed che ormai
a Parma non si porta più, si ripone
per la primavera prossima. Ecco,
sono sboccati dove Piazza Barberini
s’apre su Via Veneto, grande, non lunga,
tortuosa alberata promettente,
da imboccare con un po’ di eccitazione,
senza fretta, gustandone le vetrine,
le grandi edicole, l’aria
cosmopolita, dolcemente liberty,
i caffè famosi
dove finalmente, in un tavolo soleggiato,
gustare un cappuccino cremoso,
una brioche soffice e gialla:
nutrimento necessario al loro corpo giovane. Soltanto
lo rattrista, percorrendogli il corpo
come un brivido, la consapevolezza
della cattività in cui versa, oh
all’apparenza blanda ma mortale, questa
città bella, pronta a prendere
fra le braccia amorose, e in cui vivono
poeti a lui cari, assopiti
in una pacifica rassegnazione. N.
si gode la luce in tutta la persona,
ma ha schermato gli occhi
delicati per tante emicranie,
con un paio d’occhiali neri
che a lui sono cari come tutto
di lei. La pigrizia
li coglie: perché muoversi,
cercare monumenti, perché
non lasciarsi andare a questo
fluire di minuti dorati
che non torneranno, non torneranno più?

   

mercoledì 12 giugno 2013

John Berryman

MUSCOLATURE E CRANI. PIÙ OLTRE UNA PICCOLA FOLLA


Muscolature e crani. Più oltre una piccola folla
davanti a un colonnato, un’aquila artigliante
un’oca in un vuoto cielo, lieve l’ingiuria del tempo
nelle crepe che attraversano l’affresco; tra
le pose esagerate e l’ostinata
lunga prospettiva, difficile stabilire
il perduto pretesto del pittore semidimenticato:
un poeta sparito incoronato dal duca per i suoi carmi.

Il tuo, senza corone, abbia pure per sé quattrocento
anni di derisione, non si dorrà se qualcosa
di te durerà, i grigi occhi, la lussuria soave...
Così la vecchia storia sempre ci inganna, la Speranza
ci guida verso un qualche geroglifico ingolositi invece
di trascinarci a casa, polvere assonnata, sfiniti.


Traduzione di Gianfranco Palmery

da Sonetti di Berryman, Il Labirinto, 2001

lunedì 10 giugno 2013

Pere Gimferrer

APRILE

Nel canto dei coralli,
nel fulgore della marina,
la luce è disciplina,
deliquio d’acqua nei canali.

Né sonaglio, né destriero
nella luce della notte equina:
nel buio il bosco s’ostina
dall’acquamarina al sonnifero.

Estremi: ganga e minerale,
l’oro che diffida, muto,
il tumulto dell’oro codardo;

spunta il verde mattinale;
la luce s’incunea nel prato;
il cuore vuole vivere, ma è tardi.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da La llum/La luz, Ediciones Península, 1992

venerdì 7 giugno 2013

Carlo Betocchi


L’ETÀ MAGGIORE 

I

Con furore mi getto su queste carte,
e doloroso stupore, l’anima è oppressa,
le stoltizie che ai desideri accordò
le ricadono addosso come vane querele,
quale in novembre lento piovigginare;
e reclama un più solido esempio,
vuol esser colpita, vuole che Tu, mio sterminio,
paterno dolore, pianti i tuoi piedi qui,
nella rocca delle nequizie.

II

Con troppa dolcezza cantarono i miei poeti
prediletti i loro esili giovanili,
e i loro dubbi; i miei son più crudi.
Quella suprema eleganza della poesia del secolo
la mia natura biblica, un dì danzante come David,
ma sempre in cammino, non l’ha potuta adottare:
il mio pensiero pascolava come la pecora
accanto alla pecora, sempre col muso a terra,
in cerca del pasto ho vissuto col mio popolo,
nutrito dalle stagioni, parlando col loro discorso
lineare, secondo il lento passo dell’errare
delle transumanze, in cerca di cibo, non so più
se di Dio.

III

Ma ora so che si può anch’essere stanchi
perché la mia stanchezza non ha sonno,
non cade su se stessa, ma si solleva
dal suo giaciglio con la notturna
energia di un tramonto quale ha di pietra,
in Firenze, nelle tombe medicee,
la meditata effigie. Questa è l’età
dalla quale passarono i grandi vegliardi
che impugnarono la loro stanchezza
come un’arma. Di qui comincio a conoscermi,
a giudicare; la mia vita si popola
di un brulichìo ignoto di mostri
quali mai li conobbi; mi se ne gonfia
il petto, già s’arrovella alla lotta.


Da Poesie del sabato, Mondadori, 1980

mercoledì 5 giugno 2013

Dino Campana


DONNA GENOVESE

Tu mi portasti un po’ d’alga marina
Nei tuoi capelli, ed un odor di vento,
Che è corso di lontano e giunge grave
D’ardore, era nel tuo corpo bronzino:
– Oh la divina
Semplicità delle tue forme snelle – 
Non amore non spasimo, un fantasma,
Un’ombra della necessità che vaga
Serena e ineluttabile per l’anima
E la discioglie in gioia, in incanto serena
Perché per l’infinito lo scirocco
Se la possa portare.
Come è piccolo il mondo e leggero nelle tue mani!

Da Opere e contribuiti, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, 1973

lunedì 3 giugno 2013

Paolo Ruffilli


LA PAROLA, PER ME

La parola, per me,
veniva da distante
Un a priori, quasi,
l’avvertivo. Un eccitante.
In un processo in
qualche modo inverso.
Nel darle per riscontro
una realtà che invece,
più toccata e presa, più
sfuggiva inconsistente
ai cinque sensi.
Con l’effetto di essere
lanciata contro un corpo
pronunciato e, nel
suo dirlo, di colpo
riafferrato.


da Piccola colazione, Garzanti, 1987