lunedì 29 aprile 2013

Roberto Coppini


LE CITTÀ RITRAGGONO I PONTI LEVATOI

Le città ritraggono i ponti levatoi.
Al mio vicino bruciano le vesti addosso
mentre lo guardo intingere
il suo pane nel piatto.

Il servo accorso nel portico
allunga la lanterna nel buio;
si volge alla casa come uno che sa
di aver lasciato qualcosa e si domanda che.

Da Le posate sul piatto, Edizioni Salvatore Sciascia, 1978

venerdì 26 aprile 2013

Alessandro Peregalli


L’ISOLA

Il cielo a vortici lenti azzurri affondava nel cosmo,
gli alberi, come grandi piume, salivano sulla sinistra,
dietro di noi la casa custodiva compatta i segreti degli uomini
e davanti il paesaggio aperto lontano tra pioppi tremanti e roseti.
Il signore del luogo era biondo, superbo e delicato,
esprimeva il suo pensiero con grazia e fermezza interiore;
i suoi ospiti erano più dinamici: i loro pensieri sciamavano
                                                                              / intorno,
toccavano gli alberi, la casa, le arnie, i fiori, il muro di cinta
e tornavano al piccolo gruppo riunito sotto il cielo profondo.
“Che fare?” Era la domanda, comune in questo tempo
                                                                              / enigmatico.
“Io resto qui” rispondeva il signore del luogo con sorridente 
                                                                              / fermezza.
“Qui ho tutto: natura, calore, universo. Come una casa sul mare,
così da quest’ultima sponda
d’alberi m’affaccio al cielo profondo e alle stelle:
la terra, il cielo e le stelle, due occhi per ammirarle,
e dietro la casa, la casa con tutta la vita,
la mia vita di figlio, di uomo, la vita dei vecchi
che furono prima di me, i grandi fantasmi
del passato; aleggiano dentro discorsi,
amore, passioni e grida festose infantili”.
“Un mondo che non c’è più” diceva l’amica psicologa,
allegra mutevole chiara come onda marina.
“Tu resti legato al passato, non senti la spinta potente
verso il futuro”. “II passato è quello che ho.
Solo esso commuove!” E accompagnava la frase
con gesto gentile, quasi schermendosi. Intanto il marito
della psicologa, teorico, acuto, marxista, generoso e irruento,
esclamava: “Tu devi, come noi, costruire un mondo più giusto!”
“Ma il mondo non sarà mai giusto” diceva il poeta.
“È un’entità naturale. I rapporti tra gli uomini
sono come quelli tra gli alberi e gli animali.
La vita fluisce densa nella natura e trasforma
le cose viventi senza gli schemi precisi
che voi credete d’imporre. Piuttosto diciamo che vita
è anche futuro, speranza, che non possiamo restare
immobili, fermi ad adorare il passato
per bello che sia. Certo il passato
è l’unico aspetto del mondo su cui ci par di contare
con sicurezza, è l’unico riferimento
da cui partire per vivere la nostra autentica vita”.

A questo punto il discorso aveva preso una forma
visibile, plastica: il padrone di casa
sedeva con aria sognante con tutta la casa
alle sue spalle, come una grande anima,
una nube altissima, la grande madre celeste
(ma anche la madre nera, divoratrice, la dea della morte
che lo attirava tra le sue mura). L’amica psicologa andava
dall’uno e dall’altro, guardava negli occhi, alzava
il volto ad ognuno con la sua mano e tornava
irresoluta a sedersi pensando: “La vita non è
sogno”. Il marito di lei tracciava
grandi schemi seduto a una scrivania, concentrato
con piglio da grande tiranno, tracciava ostinato gli schemi
delle battaglie future, tremende pel genere umano.
Il poeta camminava in giardino, vedeva la casa
e vedeva le stelle perdute nel fondo del cielo,
sapeva la vita composta da più risonanze
che vanno e vengono, s’urtano e si rifrangono,
come le onde nel grande respiro del mare,
tra il cielo e la terra, le stelle più alte e lontane
e i cuori degli uomini che vanno per i sentieri di vita
in mezzo alle rocce, alle piante e agli animali che corrono;
lo stesso nel tempo: sospesi tra antico e futuro.
Amare il passato, ma anche amare la vita,
la donna giovane e bella, la luce della speranza.
Sperare in un mondo migliore, per me o per chicchessia,
per uno solo o per molti, speranza
da vivere dentro di noi e porgere altrui con amore.

Due altre in gruppo con noi: la padrona di casa
andava e veniva, porgeva rinfreschi ai suoi ospiti,
chiedeva notizie sul loro stato di grazia
e i desideri, rideva, era una calda presenza
che interveniva con quanto di giusto nel giusto momento.
L’altra, sposa al poeta, era la razionalità pura,
l’asta diritta d’un orologio solare,
l’aspetto austero del mondo, anche se sapeva ridere, gli schemi
                                                                               / precisi
di geometria applicati al predire la vita,
al prevedere in ogni dettaglio le azioni degli uomini
come la posizione d’un astro nel cielo stellato.
Ma, sotto l’azione e il rigore, coperti non c’erano fiumi
di caldo vigore terrestre, non c’erano sensi profondi
che scintillavano appena attraverso la cenere
come le stelle punteggiano appena lo spazio profondo?
Non lo sappiamo. Entrambe restarono mute
nel grande discorso sull’isola tesa allo spazio.
Parlavano, agivano. Ma entrambe rimasero assorte.

Da La cronaca. Poema 1939-1982, il Saggiatore, 2003

mercoledì 24 aprile 2013

Giancarlo Pontiggia


IMMAGINA UNA CELLA, UNA

Immagina una cella, una
cella umida, buia, dove
il tempo (il tempo!) più
non tessa le sue
polverose tele, dove,

nel buio
colare delle ore (vuote
cisterne della torpente
vita), un
cardine all’improvviso

ceda, e un filo
di luce fiotti, forte, come
di spada, dal lucernario
(immenso, altissimo)
del mondo. Così, talvolta,
per ordine

del Caso, anche per te

è vita!


Da Bosco del tempo, Guanda, 2005

lunedì 22 aprile 2013

David Pujante


IL MARE È SOLAMENTE GOCCE UNITE

Se nel lento trascorrere degli anni
non si fa qualche passo per amore,
se in questa riva calma non sappiamo
prendere fuoco un giorno,
saremo transitati per il mondo
senza capire il volo degli uccelli,
senza udire il saluto degli alberi,
senza capire l’essenza della vita.

Ma che cos’è l’amore lo sappiamo?
Fintanto che ci appare adolescente
si rivela un avvampo,
un barbaglio di luce 
celeste che c’illumina la vita.
Molto presto però lo confondiamo
col desiderio insaziabile di turgori
che occupa e tiranneggia il nostro corpo,
con l’oscura inquietudine
di toccare umidità ancora sconosciute
che ci rendono deboli e ci fanno impazzire,
quando una sera giunge l’occasione.

Come ci appare semplice l’amore,
allora! E come presto finisce e ci delude
la brama, quel fervore naturale!

Intanto passa il tempo.
Sotto canizie e rughe,
lo coroniamo di una strana aureola
per non dargli il fatidico
nome di frustrazione.
                                           Quando venne, 
ci diciamo, l’amore fu un mistero;
desiderare, invece, facile fisiologia.

L’uomo che la sua vita  
disperde in mille impulsi contrapposti,
o l’uomo che assassina
la passione originale
col dorato pugnale dell’egoismo,
o quello che si lega a una carne e a un sangue
per cullarsi nel tedio
che lo sazia ma insieme l’avvelena,
si giustifica sempre
con l’oscuro mistero dell’amore.

Però, anche se l’usiamo come alibi
per codardia ed eccesso,
in realtà tutti lo consideriamo
come un tenue impossibile,
come pura parola
che tuttavia fa male a chi l’afferra.

L’amore che tocchiamo,
l’amore della storia quotidiana,
è solamente il guscio
di un’essenza sfuggita 
– da molto tempo – al mondo degli dèi;
carcassa abbandonata 
da una marea di desideri  
sulla riva melmosa del linguaggio
e diventata ossessione del mondo.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Itinerario, Editora Regional  Murcia, 2003

venerdì 19 aprile 2013

Domenico Vuoto


Oggi, anziché una poesia, vogliamo offrirvi un racconto. Ce ne sono di esemplari, d’impareggiabili, come le poesie che di solito ospitiamo qui. Questo è uno di essi. E se qui non trovate poesia, non sappiamo dove potreste trovarla.


MACCHIE

La stessa lenza che usava da ragazzino. Dieci metri di filo di nailon avvolto su un rocchetto, due ami e un piombo. Solo che allora si apriva un mare davanti a lui. 
Le donzelle, i tordi che prendeva. Le prime guizzavano alla luce del sole nella pienezza dei colori che perdevano nell’agonia. Sua madre puliva i pesci nella veranda della cabina affittata per l’estate. Era esperta in questo genere di operazioni. Le mani muovevano un paio di forbici in un recipiente di alluminio ricolmo d’acqua: pochi minuti, e gli animali erano eviscerati. Li cucinava in brodetto. Espressamente per lui, faceva capire. Portava un costume color latte, di lana e intero. Sul ventre, in corrispondenza dell’ombelico, appariva un incavo, una fossetta che attirava il suo sguardo comunicandogli una strana complicata sensazione. Era bella ma non trovava pace, e io che la tormentavo, pensò. Chiuse gli occhi. Qualcosa di bruciante gli saliva alla gola. Li riaprì, fece scorrere lo sguardo lungo la riva. Nessun altro, a parte loro due. Meglio, si disse. 

*

I pesci stanno aspettando, scherzò lei da dietro.
E tu falli aspettare.
Hanno famuccia.
Manipolò la palla dell’impasto per renderla più compatta, l’annusò. Troppo pane e poco formaggio. Avrei dovuto metterne di più. Staccò due michette, le lanciò nell’acqua. Accomodatevi, non costa niente, rise senza allegria. Mentre si alzava da terra, avvertì la pesantezza del respiro. Dovrei farmi vedere. Fischio un po’. 
Nano, si sentì chiamare, c’è una cosa. 
Te l’ho detto mille volte che Nano non mi piace, mi chiamo Luciano.
E tu allora? Flo invece di Flora. Ti volevo avvertire che il filo potrebbe impigliarsi, solo questo. – La donna indicò piccata i ciuffi d’erba sparsi intorno a lui e le alghe che dal fondo del lago salivano a pelo d’acqua come tentacoli.                                            
Non rispose. Lo riprendeva la vecchia smania di mettersi alla prova. Flora stava a due passi da lui. Si era seduta a cavalcioni del tronco mezzo marcio di un albero adagiato sulla riva come il relitto di un naufragio. Aveva buttato il giornale di lato.
Pure oggi decine di morti in Iraq e quel grosso coglione che canta vittoria, disse. 
E il nostro piccolo coglione non ce lo metti?
Me n’ero scordata, ridacchiò lei. Poi prese dalla borsa un libro, ma lo sguardo era alla collina che digradava sulla sponda opposta del lago. Mandò un sospiro.
Che pace. Si sta bene, vero?
Certo, lasciò andare lui. Subito dopo aggiunse, Tieni gli occhi bene aperti, lo sai che ci succede se ci pescano senza licenza.
Ti pescano, prego. 
Crollò il capo. Le mancava solo la pesca di frodo. Oddio, che uomo mi sono scelto, disse mettendo una voce melodrammatica.
Luciano cominciò a svolgere il filo. Lo stendeva al suolo piano, con circospezione. Si fermava per estirpare qualche ciuffo d’erba dove il nailon avrebbe potuto impigliarsi e riprendeva misurando a occhio la distanza tra la riva e un punto dell’acqua. Smise di svolgere. A che gli serviva lanciare lontano dal momento che il lago si inabissava dopo qualche metro? Manipolò l’impasto, lo annusò, staccò ancora due michette. Si abbassò a terra adattandole agli ami, si alzò sollevando il filo col piombo. Si preparava a lanciare. Si ricordò che da piccolo portava il piede sinistro in avanti. Lo fece andare per un po’ nei due sensi, poi lo portò decisamente in avanti. Con la coda dell’occhio vide che lei sollevava lo sguardo dal libro incuriosita dai suoi movimenti. Fece oscillare il piombo guardando davanti a sé per stabilirne la gittata, lanciò. Il nailon si srotolò brillando alla luce. Poi il piombo subì un contraccolpo e rinculò affondando nell’acqua. 
Fottuto, pensò.
Dal taschino della camicia trasse gli occhiali da presbite, li inforcò, si abbassò a guardare. Ancora il fischio. Appurò che il nailon si era annodato intorno a un ciuffo d’erba che gli era sfuggito. Bestemmiò mentalmente. Liberare il filo non doveva essere difficile, però bisognava fare attenzione. Evitare che i nodi si stringessero ulteriormente. Armeggiò sugli steli. La cosa era più complicata di quanto avesse immaginato. Nodi tenaci, soprattutto alla base del ciuffo d’erba. Il nailon sgusciava alla presa delle unghie. Iniziava ad agitarsi. Si rialzò allargando le braccia in segno di resa. Flora smontò dal tronco, gli si mise al fianco. Pareva che non avesse aspettato altro.
Lascia, faccio io che ho le unghie più lunghe.
Esitò. Poi si lasciò convincere. Va bene, lei si sarebbe occupata dei nodi; lui invece avrebbe continuato a pescare col resto del filo – sempre che fosse rimasta dell’esca attaccata agli ami. Dopotutto la festa era guastata. Ma questo lo pensò, non lo disse. Sollevò il filo tenendolo stretto fra l’indice e il pollice, intanto sorvegliava il lavoro della compagna con la coda dell’occhio.   
Neppure una toccata.
Proprio niente?
Tacque. Quanto lo urtava quel suo calcare sulle parole. Quel suo tono tra ironico e svagato. E un’ora prima, l’enfasi con la quale aveva ripetuto fino alla nausea mentre passeggiavano sul terrapieno che dominava le rive del lago artificiale: Potessi vivere sempre in questa campagna. 
Eccoti servito, il filo è libero, disse lei andando a rimettersi a cavalcioni del tronco.   

      *

Fata fatina
la morte s’avvicina
proteggi la mia bambina.
Cos’è?
Una ninna-nanna che cantava mia madre a mia sorella per farla addormentare. Mi è venuta in mente così.
Te l’ho sempre detto che vivi nel passato.
Francesca aveva neppure un anno e i capelli biondi. Ma che dico, biondissimi. Grano. Non si capisce da chi prendeva, noi eravamo tutti scuri in famiglia. Mi stai ascoltando? No, che non mi stai ascoltando.
Flora si è rimessa a leggere. Lui pensa: Sempre con qualche libro in mano. Quattro libri in un mese, uno a settimana. Mentre lui ha letto sì e no cinquanta pagine dell’ultimo romanzo di Amos Oz. Certo, negli ultimi tempi è stato preso dal lavoro ma se è per questo anche lei lo è stata. Ricorda che quando vengono in campagna da Roma lei caccia nella borsa da viaggio un mucchio di libri, anche se poi dovrà limitarsi a leggerne uno. Perché lo fa? Perché sotto sotto vuole farmi sentire a disagio? Osserva con una punta di invidia l’espressione concentrata, la naturalezza con la quale tiene il volume spalancato sul tronco – le braccia chiuse intorno al libro, gli indici delle mani posati sui bordi delle pagine come a delimitare uno spazio precluso agli altri. 
Vide le macchie.
Come mai. Per quale motivo non si era accorto delle macchie marrone sul dorso delle mani? Risaltavano sul bianco della pelle con una violenza innaturale. Saranno spuntate da poco. Per questo non me ne sono accorto. Il pensiero lo rassicurò, ma solo in parte. Restava la percezione di una mancanza, di una svista preoccupante da parte sua. Notò che erano diffuse per lo più sulla mano destra. Il dorso della sinistra, a parte alcuni puntini di un marrone slavato in prossimità delle nocche, ne era quasi privo. Tempo un anno o forse meno, e anche i puntini si sarebbero ingranditi, avrebbero deturpato la pelle con la loro disseminazione irregolare.
In quel momento lei sollevò lo sguardo incrociando il suo. Contrasse le mani.
Che c’è che guardi?
Niente, non posso guardare?
Lo scrutava sospettosa, già aggrondata. Tornò alla carica. 
Sii sincero, che stavi guardando?
Te l’ho già detto, che dovrei guardare?
Ti credo, come no, decise lei storcendo la bocca.
Luciano riportò lo sguardo in avanti. Ci fu un silenzio, poi le sentì dire:
Che vuoi, si invecchia.
Fece caso al tono acido, di sfida della voce. Si girò a guardarla. 
Disse, Vai a capire cosa ti passa per la mente. 

*

La scossa arrivò che non se l’aspettava. Tirò a sé, fece per raccogliere. Il filo era inerte.
C’è?
Macché, è riuscito a farla franca.
Chi ti dice che non torna?
No, non torna. Aggiunse con l’aria di pronunciare una sentenza, Non tornano mai due volte. Ma restava in attesa di un’altra scossa. Piegò il capo di lato per ascoltare ogni minima vibrazione del filo. Si riaffacciava l’antica emozione. L’emozione di percepire un fremito di vita attraverso il filo di nailon. Solo che allora la percezione era stata una scoperta, adesso era il riflesso, il ricordo di una scoperta. Il tempo si è portato via tutto lasciando gli scarti, pensò. 
Niente?
Niente, ma io sono uno che si intigna, aspetto che si fa avanti un altro scroccone. Però questa volta non gliela faccio passare liscia. 
Sembra che parli di esseri umani invece che di pesci, sogghignò lei. 
Il filo rimaneva inerte. Il pesce deve essersi mangiata l’esca, ragionò. Il che significa che prima l’esca c’era ancora. Poteva anche darsi, seguitò a ragionare, che l’animale non avesse fatto in tempo a portarsela via del tutto, che un altro magari si preparava a imitarlo. Non ti distrarre. 
Attese, si sforzò di essere paziente. Nessuna toccata. Basta, conveniva raccogliere. Ma non ne fece nulla. Lanciò un’occhiata alla compagna. Vide che guardava fisso in avanti. 
Che pensi?
Niente. – Continuava a guardare in avanti.
Sicuro?
Sicuro, replicò prontamente lei, benché il tono facesse supporre il contrario.
Si sarà offesa per le macchie, è diventata talmente permalosa.
Non sto pensando a niente, giuro, disse come se gli avesse letto nel pensiero. Questa volta lo guardò con un’aria di condiscendenza. Lui vide che teneva le mani a taglio sulle pagine del libro. Si voltò a osservare i dorsi delle sue. 
Macchie ne ho più di lei ma mica ne faccio un dramma. Certo per me è più facile. Per gli uomini è così. Ma è ancora bella – di che si lamenta? Si ricordò che certe volte osservava le proprie macchie come un fenomeno estraneo al suo corpo, e pensò: Forse anche questo conta.
Non ci posso credere che stiamo da tanti anni insieme, mormorò lei in mezzo a uno sbadiglio forzato.
Cosa?
Niente, ragionavo ad alta voce
Perché non me lo dici?
Se dovessi dirti tutti i pensieri che faccio non la finirei mai di parlare.
E Netta?, domandò lui qualche istante dopo, meccanicamente.
Beh?
Non ti ha ancora telefonato da Londra.
Mi sono dimenticata di dirti che si è fatta sentire. Invece tuo figlio…
Non fece in tempo a replicare, avvertì lo strappo. Poi un tirare sordo convulso. Lo aveva agganciato. Gli sfuggì un grido. Flora rimase sul tronco.
Da come tira dev’essere grosso.
Raccoglieva in fretta. Si fermò. Rischio che il nailon mi si spezza. Allentò, cedette filo, riprese a raccogliere piano. L’animale opponeva una resistenza accanita. A volte affiorava in superficie provocando un ribollio dell’acqua. Doveva essere un bell’esemplare. Questo però lo metteva maggiormente in subbuglio e doveva trattenersi per non raccogliere in fretta. Mentre lo trascinava sulla riva il pesce apparve nelle sue dimensioni. Calcolò a occhio che non pesava meno di mezzo chilo. Flora si levò dal tronco.
È un bel pescione, quanto peserà?
Siamo sugli ottocento grammi, se non di più. – Sollevò la preda proclamando con studiata noncuranza:
È una carpa. 
Il pesce cominciò a dibattersi. L’oro e il rosso delle squame sui fianchi e il bianco del ventre balenarono alla residua luce del sole. Flora lo fissava premendosi una mano sulla bocca. Lui depositò la preda per terra perché lei potesse ammirarla nella nuova posizione. Si chinò dandosi da fare per estrarre l’amo dalla bocca. Faticava parecchio, l’animale  lo aveva quasi ingoiato. Vide che Flora si era scostata e guardava da un’altra parte. 
Fatto, disse per avvertirla che poteva girarsi, intanto gettava lontano un frammento di carne rimasto attaccato all’amo.  
Sei pieno di sangue lì. –  Indicava schifata le sue dita. 
Dammi almeno il tempo di pulirmi, brontolò lui.  
La carpa rimaneva adagiata su un fianco muovendo simultaneamente la bocca e le branchie. A un tratto spiccò un salto fino ai piedi di lei che si ritrasse con un grido. Ricominciò a dibattersi.
Hai avuto paura?, disse con un piacere maligno. Afferrò la carpa, la infilò in una busta di plastica che si era portato appresso. 
Ma non hai visto, quasi quasi mi saltava addosso, rise lei nervosamente. Aggiunse con un verso che pareva un singhiozzo:
Povera, povera carpuccia, come siamo spietati.

   *

Ancora niente?, chiede lei parlandogli vicino.
Scuote il capo. Niente di niente.
Possiamo accontentarci, ti pare?
Sì, ma non sarebbe male se ce ne scappasse un altro. Lo sto aspettando. – Stringe più saldamente il filo tra l’indice e il pollice come se l’attesa fosse questione di attimi. Sentiva il respiro di lei alitargli sulla nuca. 
Mi soffi addosso che sembri un mantice, disse, mi fai il solletico sul collo.
Flora  si scostò, poi gli si fece nuovamente accanto.
È ancora vivo.
Chi? 
Il pesce. 
Lo so, ma che posso farci?
Si girò a considerare la busta per terra al cui interno la carpa si dibatteva provocando il fruscio della plastica. Si voltò verso il lago.
Chissà quanto soffre, le sentì dire.
Non rispose. Il giorno prima aveva usato le stesse parole rivolgendosi a un suo collega di lavoro dopo che avevano fatto visita in clinica a un altro collega che aveva i giorni contati. Quando si erano avvicinati al suo letto, il dolore era stato sedato grazie a una dose di morfina. L’uomo se ne stava assopito, il respiro era un sibilo. Lui aveva osservato le trasformazioni che il male aveva operato sul suo volto conferendogli nella tregua del dolore la luminosità, l’abbandono di un neonato. Sulle tempie erano visibili i reticoli azzurrognoli delle vene. Come se la morte si fosse collocata nel punto di incontro con una rinascita effimera del corpo. 
Una beffa, gli era venuto di pensare. Una cosa inaccettabile.  
Quanto gli ci vuole per morire?, domandò lei con una punta di stizza, pareva gli addebitasse l’agonia del pesce.
Non ci pensare. 
È facile per te che ci hai fatto l’abitudine.
Cosa vorresti insinuare, che sono un assassino incallito?
Di pesci, se non altro. Ne avrai uccisi parecchi, o no?
Pescati, non uccisi. C’è una bella differenza. Da piccolo non mi accorgevo neppure che morivano perché i pesci non gridano. 
Questo grida.
Io non lo sento.
Tese il filo che si era allentato puntando lo sguardo alle colline. Linee nette. Il cielo che vi si piegava sopra come un deserto capovolto. La tonalità grigio-ferro dell’aria. Alle sue spalle il sole doveva essersene andato. A un tratto si sentì oppresso da quella fine, dall’enormità del silenzio intorno. Ebbe voglia di urlare. Di rompere col grido l’impassibilità del silenzio. Forse anche Flora provava il suo stesso sentimento. Vide che gli si era stretta al fianco e fissava il lago che aveva preso la tonalità dell’aria. Sta tremando. Con la coda dell’occhio andò ai fili bianchi che spuntavano da sotto i capelli tinti di henné. Il profilo puro delicato del viso. La piega che si andava delineando all’angolo della bocca. Era ancora bella, ma di una bellezza insidiata. Aveva un corpo magro, una schiena appena arcuata, seni ancora fermi. Il ventre però cominciava a rilasciarsi. Hai un corpo da ragazzina, le diceva. Ma preferiva fare l’amore nella penombra per non vedere appunto il rilasciamento del ventre. E quando Flora, prima di prendergli il sesso in bocca, glielo masturbava piano fissandolo con una serietà non priva di meraviglia (come i bambini, pensò, come i bambini davanti a qualcosa di cui scoprono in quel preciso momento l’esistenza), lo assaliva una tenerezza piena di struggimento. Dopo, c’erano la sazietà e il distacco. Dopo, non gli sfuggiva il più piccolo cedimento del suo corpo.
Perché non mi dici com’è andata la riunione stamattina?, chiese. 
Non me la sento adesso, questa sera magari. E comunque lo sai meglio di me come vanno le riunioni in quel bordello che è diventata l’Azienda. Dai capistruttura in su tutti preoccupati di pararsi il culo. 
Li conosciamo. 
Non mangiano, fra poco raccolgo e si va via, pensava.
La sentì parlare controvoglia. Non faceva caso al significato delle parole.
E tu che hai fatto?, buttò lì.
Che significa “e tu che hai fatto”? Non mi stavi ascoltando.
Perché dici che non ti stavo ascoltando?
Lasciamo perdere.
Sì, è il momento di raccogliere. – Rimaneva ancora fermo, col filo in mano. 
Sentì Flora che diceva con voce lamentosa, Non finisce mai quest’agonia.
Si girò a guardare la busta. Aveva ragione lei, non potevano portarsela via ancora viva, meglio sistemare tutto al lago. Avrebbe fatto così: mentre Flora riavvolgeva il filo intorno al rocchetto, lui si sarebbe occupato della carpa.
Che vuoi farle?
Devo ucciderla, non c’è altro sistema. Se mi fossi portato il coltello appresso sarebbe stato più semplice, ma non l’ho portato.
Meglio così. 
Perché?
Non rispose,  poi disse tutto d’un fiato, Io non voglio vedere.
Sta’ tranquilla, non vedrai. 
Afferrò la busta, si allontanò lasciandola a riavvolgere il filo. Pareva che il pesce avesse intuito la fine che lo aspettava perché riprese a dibattersi.
Calma, non soffrirai più. – Sbirciava nella busta per assicurarsi che il messaggio fosse giunto a destinazione. Camminò verso una pianta di ginestra ai piedi della massicciata. L’aggirò, depositò l’involucro dall’altra parte. Pianta frondosa, poteva funzionare come paravento. Così non vede e non la sento piagnucolare, pensò. Cercava un sasso. Piccoli, quelli nelle immediate vicinanze. Si spostò più in là. Ne vide uno di una certa dimensione. Era confitto nella terra, lo staccò non senza difficoltà, ne saggiò la consistenza, tornò al cespuglio. Flora. Si era piantata davanti alla busta. Le lanciò uno sguardo interrogativo.
Voglio vedere. – Parlava decisa, ma con l’aria di volersi anche scusare.
Non te lo consiglio. Perché sarei venuto qui dietro sennò?
Perdonami, lo sai come sono fatta.
Si abbassò a terra, estrasse il pesce dalla busta. Lo aveva bene agguantato perché non gli sgusciasse dalle mani e percepì sotto le squame un fremito di vita. Lo adagiò sulla busta, afferrò la pietra, assestò un colpo sulla testa. Scricchiolio delle cartilagini maciullate. Al posto dell’occhio una macchia rosso-cupo, concava. Al centro, una macchia più piccola, bianchiccia. Flora impallidì lanciando un urlo. Fissava la testa della carpa con gli occhi sbarrati.
Non mi dire che non ti avevo avvertita.
Lasciala stare, ti prego, rimettila nella busta. – Si teneva la faccia tra le mani.
Per farla soffrire di più? Non lo vedi che è ancora viva?
Intendeva rassicurarla sull’opportunità del suo gesto. Le avrebbe detto che così aveva visto fare quand’era piccolo da pescatori esperti. 
Lei si allontanò bruscamente. Tornò, gli si mise ancora davanti.
Non posso, non posso. – Si torceva le mani.
Cosa, non puoi? C’è da diventar matto con te, sbottò. Lasciala stare, mi dici, ma che c’è da lasciar stare? – Indicò la testa del pesce – . Se tu  conosci un altro sistema, dimmelo. 
Flora allargò le braccia in un gesto di impotenza. Si allontanò, fece avanti e indietro lungo la riva. La guardò. Com’era patetica. Dopotutto non era stata lei a chiederglielo? Non farla soffrire, e questo e quello. Si preparò ad assestare il secondo colpo. Lei ricomparve. Sembrava che avesse preso una decisione definitiva.
Non te lo permetterò.
Che cazzo vuoi dire? – Tenne la pietra sospesa sulla testa della carpa.
Vedrai.
Smettila, mi urti da morire con le tue fisime. Se non vuoi vedere, vattene, quante volte te lo devo dire? 
Che stai facendo, riprese lei crollando il capo. Lo fissava con una dolcezza piena di compatimento che gli fece ribollire il sangue.
Non hai pietà, sei crudele. 
Assestò il secondo colpo. E ancora lo scricchiolio delle cartilagini. Più attutito, più sordo. La testa del pesce era una poltiglia, ma l’animale continuava a dare qualche segno di vita nelle vibrazioni della coda. Assestò un terzo colpo, un altro e un altro ancora. Vuole farmi superare ogni limite, pensava, vuole umiliarmi facendomi sentire un carnefice.  
Flora si era coperta gli occhi con tutt’e due le mani. A ogni colpo sussultava come se venisse inferto a lei. A un tratto si chinò, gli afferrò il polso con una mano; con l’altra gli strappò la pietra scagliandola nel lago. La guardò incredulo tremando dalla collera. Si levò in piedi. Protendeva le mani verso di lei. Flora fissò come ipnotizzata il sangue sui palmi, poi sollevò lo sguardo. Vide in quello di lui una luce che la terrorizzò. 
Tu mi vuoi ammazzare, disse. Balbettò parole incomprensibili, e si girò come per cercare una via di scampo. Si mise a correre, lui la vide inerpicarsi sulla sommità del terrapieno. Da lì riprese la corsa sul sentiero a destra. Le andò dietro. Poi si arrestò di colpo. Rimaneva fermo, inebetito. Si guardò i palmi delle mani imbrattati del rosa viscido del sangue della carpa. Scese dal terrapieno, camminò come un sonnambulo verso il lago a lavarsi. 

    *

La chiama a più riprese dal terrapieno. La voce si propaga nell’aria con un’eco lamentosa. Si accorge del tremito che gli agita la bocca, smette. Lei si è dileguata. Non dev’essere a casa. Nella fuga ha preso il sentiero a destra, nella direzione opposta e verso il punto più interno del lago. Perché proprio in quella direzione dove lui potrebbe raggiungerla? E se invece è tornata indietro quando lui è sceso al lago a nettarsi le mani? Ricorda che dopo essersele sfregate energicamente, le ha lasciate nell’acqua ed è rimasto accosciato sulla riva, le scarpe  affondate nella fanghiglia. 
Dal sentiero se ne stacca lateralmente uno più angusto, ripido. Lo percorre badando a non scivolare giù, approda sulla strada provinciale. Riprende a chiamarla. Facce incuriosite dalle poche auto che transitano nei due sensi. Restò fermo sul ciglio della strada. Guardava il bianco della casa che spiccava sul viola dell’aria. Tra lui e quel bianco c’erano sì e no duecento metri, ma la distanza pareva incolmabile. Forse è lì. Ma le luci spente? Magari se ne sta al buio. E se invece avesse fatto una pazzia? Ne è capace. Il sangue gli si gelava. Una sensazione di sprofondamento. Camminò in direzione della casa. Nell’aria, un forte odore d’erba. Gli balenò un ricordo. Loro due che passeggiavano a villa Pamphili, lui che parlava di quell’odore, Flora che si fermava a guardarlo. 
Come fai a dire che lo trovi nauseante? Sei sempre esagerato. 
Avevano litigato. Non era la prima volta. Solo che in precedenza non era capitato che bisticciassero per un motivo così futile. Lo avevano fatto per la politica anche se avevano idee molto simili, per un film, un libro, uno spettacolo teatrale, per i rispettivi figli. Ma l’odore dell’erba, la carpa. Volevo metterle le mani al collo, non ci vedevo più.
Rallentò il passo. Fra poco annotta e allora dove la cerco? Non era distante dall’ingresso del viale che portava alla casa. Superò il grande pino sul lato sinistro della strada, la scorse. Stava in piedi, nascosta per metà dal tronco dell’albero, la schiena alla strada. Tirò un sospiro. Sembrava che guardasse davanti a sé e non si fosse accorta della sua presenza. Si avvicinò, le posò una mano sulla spalla. Lei si girò di scatto scrollandosela di dosso. Aveva gli occhi gonfi lucidi, la bocca atteggiata a uno strano sorriso. Poi si voltò del tutto. Lui tornò con la mente alle parole che si era preparato. Allungò la mano verso di lei ma ricordandosi della sua reazione, la lasciò sospesa sulla spalla. 
Scusami se mi sono comportato in quel modo. Però te lo giuro, non ero intenzionato a farti del male. Dovresti conoscermi, non farei del male neppure...
Tacque, le parole non gli venivano più. Lei non fiatava. Poi come se ci avesse ripensato, scoppiò a piangere. Piangeva con un accoramento infantile capriccioso, le spalle sussultavano. Le guardò. Erano così magre, le scapole che sporgevano come ali tarpate. Si sentì soffocare dalla compassione. Compassione per lei e per sé, per i tanti come loro che si dilaniavano sulla terra, con le stesse ali tarpate che facevano pensare alla perdita di una grazia originaria. 
Calmati ora, andiamocene a casa.
Non si muoveva. La chiamò per nome più volte, la implorò ancora di calmarsi. Flora cessò di piangere. Con un tono gelido che lo colpì come una frustata disse, Voglio andarmene da sola.
Te ne andrai da sola. – Sentì che la voce gli tremava.
Non venirmi dietro.
La seguì con lo sguardo. Andava rapida. La vide imboccare il viale che portava alla casa. Alla svolta, era sparita. Fece per correrle dietro. Si fermò ricordandosi delle parole di lei. Fissava la casa come se aspettasse un segnale. Una finestra si illuminò, poi un’altra. Ripensò con uno spasimo al suo pianto. A tutto il dolore racchiuso in un corpo così fragile. 
Poi si decise, respirò a fondo, camminò svelto in direzione del viale.


da Variazioni sul noto sentimento, Palomar, 2010
   


mercoledì 17 aprile 2013

Valerio Grutt


FAREI L’ALBA E LE LINEE DEL CIELO

Farei l’alba e le linee del cielo
con i segni lasciati dal cuscino
sul tuo volto appena sveglia, meraviglia
che ti togli dal sonno e vieni come gli uccelli
di giorno, la tua risata è chiamare il bene
per nome, alzi le reti dei fiori con lo sguardo.
Il fuoco e i confini, le sere gialle hanno la brezza
del tuo respiro, io ti sento esistere nel vento
che piega gli ombrelli, nel petto aperto
contro la notte che si abbassa addosso.
Voglio essere con te l’onda che s’alza
e si fa nuvola, fare come il polline chiaro
sui campi e la luce che libera gli angoli.

Da Una città chiamata le sei di mattina, Edizioni della Meridiana, 2009

lunedì 15 aprile 2013

Antonio Seccareccia


DUE CASE DUE GIARDINI

Nel mio giardino è già fiorito il mandorlo,
ed ora pure il pesco, anche il ciliegio
hanno gemme visibili a distanza;
e il pergolato sopra i fili tesi
promette i suoi grappoli a settembre.
Nel tuo giardino son fioriti, invece,
gli alberi di camelia, le mimose,
e dietro il muro, al riparo dai venti,
le prime rose rosse e i gigli azzurri.
Son forse, queste, due primavere
nate un mattino dallo stesso sole?

Da La memoria ferita, Caramanica Editore, 1997

venerdì 12 aprile 2013

Roberto Pazzi


ULTIME PAROLE DI UN RE
PRENDENDO CONGEDO
ALL’ATTO DI PARTIRE PER L’ESILIO

«... vorrei poi dire grazie alle divinità
che m’hanno accompagnato fin qui.
Mi furono fedeli
anche quando le abbandonavo agli altri.
Per amore ho cominciato prestissimo
a mentire: così le mie parole
davano verità più grande.
Lo so, lo so che sono perfetto
con gli occhi chiusi e le parole accese,
e di luce e storia allora non c’è bisogno:
ma non sapete come mi guardi
in quei momenti la mia gelosa morte
che mi desidera più che mai».

Da Calma di vento, Garzanti, 1987

mercoledì 10 aprile 2013

Annalisa Comes


TERRA

Guardava verso la riva – 
guardava ancora e ancora: l’aria calda
il pasto avanzato,
il furgoncino che porta legna da ardere,
la stoffa ruvida della camicia bianca.

Laggiù, non ti preoccupare, aveva detto,
laggiù c’è la terra,
ma le correnti, qui sono forti.
Più forti che in qualunque altro mare.
Con la sua giacca sportiva e
gli occhi scuri che si levano dal fumo – 
la schiena appoggiata al parapetto.

Vidi un grosso pesce che vorticava
in un angolo,
un mulinello dai cerchi opachi.
E tre ragazzi con le loro lenze
che andavano sott’acqua
e ai piedi una mezza dozzina di sardine
agonizzanti.

L’aria calda, i galleggianti
filavano in superficie:
una grossa luna
senz’altro appoggio,
come fosse mattina.

Da Fuori dalla terraferma, Gazebo, 2011

lunedì 8 aprile 2013

Pasquale Di Palmo


AVANTI MIEI OSSICINI

Avanti miei ossicini,
ribadite nel vento
il disegno sbilenco
di un castello anatomico

con folgori di vene
azzurre che attraversano
feritoie e orifizi,
lo sguardo impietrito sull’erba

di parole bruciate come stoppie,
brucate dalle capre
che arrancano abbaglianti
verso la torre rovesciata del sangue.

Da Marine e altri sortilegi, Il ponte del sale, 2006

venerdì 5 aprile 2013

Dino Campana


FURIBONDO

Abbracciata io l’aveva.
Mentre affannoso delle cieche ebbrezze
Sul limitare cieco brancolavo
E accelerati colpi replicavo
Sopra la porta di eterne dolcezze:
All’improvviso sopra la mia schiena
S’alzò e ricadde martellando sordo
E ritmico il suo piede. Fu il ricordo
Dell’attimo fuggente, nella piena
Fantastica l’appello della morte.
Ardendo disperatamente allora
Raddoppiai le mie forze a quell’appello
Fatidico e ansimando la dimora
Varcai del nulla e dell’ebbrezza, fiero
Penetrai, nel fervore alta la fronte
Impugnando la gola della donna
Vittorioso nel mistico maniero
Nella mia patria antica nel gran nulla.

Da Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, 1973

mercoledì 3 aprile 2013

Vittorio Bodini


STO DAVANTI ALLA TUA CAVERNA                      

Sto davanti alla tua caverna.
Esci fuori e arrenditi.
Noi abbiamo la sintassi e la radio,
i giornali e il telegrafo,
e tu non vivi che del mio sonno,
non hai che la roccia a cui ti tieni abbrancato,
e per farmi dispetto
non mi rispondi nemmeno.

Da Tutte le poesie, Besa, 2010

lunedì 1 aprile 2013

Beppe Salvia


QUANTO FU LUNGA LA MIA MALATTIA

(Quanto fu lunga la mia malattia,
e tanto amara la mia vita in quella
fu stretta e spiegazzata come un cencio,
e io pallido e stanco come un mondo
intero dovessi sopportar tutto
su la mia schiena, faticavo tanto,
m’immaginavo mondi tutti assai
più lievi e volatili di questo mio,
che tanto m’affliggeva e tormentava,
e vaneggiavo di nascoste verità
e cieli quieti di pensieri chiari
ove più mio l’animo affranto potesse
dimorare, e non trovavo queste
cose che non esistono, e soffrivo)

da Cuore (cieli celesti), Rotundo, 1987