venerdì 29 marzo 2013

Pier Antonio Quarantotti Gambini


DENTRO ME

I campi, i coronazzi, i prati, i fossi,
che sì ben conosceva, al tatto, il piede;
i sentieri tra l’erba, delle canne
il fruscìo lungo, le spinose graie,
le cicale nel sole e a sera i grilli,
il lento volo ed il gridare rauco
dei gabbiani dal golfo alle saline
- falchetti irosi, intenti alle lor prede -,
un profumo nell’aria di susine
o di fiori d'acacia o di marasche
e quello d’alto mare che il maìstro
portava, e pigolìi ed uggiolìi
e voci or qua e or là sulle colline;
e d’autunno l’odore ebbro del mosto:

queste e tant’altre cose che un dì nostre
tutte son state, dentro me oggi scopro;
fatto mi sento (in quanta parte!) d’esse.

26 marzo 1965

da Al sole e al vento, Einaudi, 1970

mercoledì 27 marzo 2013

Bruna Giacomi


A ONEGLIA, CHE SI DICE SIA PAZZA


Grigi celesti l’abito, l’occhio,
il luogo. Arenata in un’età
assente, espansa negli anni
inghiottendo impure parole
d’amore mai detto e cibo
mal curato – quasi bevve
le paste, il solito dono –.

Sia solo tuo
il fardello – amore che sbanca,
fa male –, l’affanno:
preda impazzita del piccolo
perfido Eros. A che
la fatica diversa dello studio, se
schivi lo sguardo, se sei già
promesso?

Fa caldo
nel cicalare d’estate, so
anch’io quel caldo pazzo, fermo dai venti
che superate facili
montagne sono fuggiti
al mare, lasciando una pianura
che suda, cresce
intanto il grano.

Gli occhi,
loro che sempre nascono al cuore,
incontri taglienti di desiderio,
lungo la strada larga, nelle
corti, senza lanciarsi parole ma
solo scherzi, nel lavoro
ostinato d’estirpare gramigne
dai campi e dal petto.

Perché non correre, urlare,
perché non dare fuoco alle messi?

(Inedita)

lunedì 25 marzo 2013

Roberto Coppini

Ieri, come commento a un vecchio post del poeta, un anonimo mi ha comunicato la notizia della scomparsa di Roberto Coppini, avvenuta nella notte tra il 21 e 22 di questo mese. La morte di un poeta addolora sempre, perché una voce viene a mancare, e ci si sente più poveri, tutti. In particolare la scomparsa di un amico poeta come Roberto mi addolora profondamente. Quanto io stimi il suo lavoro poetico si può dedurre dalle diverse e molte poesie inserite in questo blog. Anche questa di oggi era già programmata per venerdì prossimo. Mi è sembrato doveroso spostarla ad oggi per dare a tutti coloro che ci confortano con la loro attenzione a questo blog la dolorosa notizia e invitarli a procurarsi, se possibile, in qualunque modo, i libri di Roberto, che meriterebbero una riedizione. Per quel che mi riguarda, io continuerò a offrirne dei campioni in questo spazio.



RISALGONO LA CAVITÀ ORALE QUESTI ANNI

Risalgono la cavità orale questi anni
felici. Il terzo giorno nulla rimase
di mio padre né della sua perplessità
in punto di morte. Il pedaggio
è ogni volta più duro: una moneta che pesi
mentri dici che appariranno dei segni
sul sole e sugli astri, che nessuno avrà
il tempo di rincasare.

Moltitudini d’occhi spiano da ogni parte
la mia ferita, questa frenetica indecisione
che apre in me voragini, incesti, sventure originarie.

Scuoterai nel buio della stiva il clandestino
segnato sulla fronte dal tuo stesso dolore.

Nulla dipende dalle mie ragioni. Il segreto
della mia paternità è chiuso in una tomba.


Da Le posate sul piatto, Edizioni Salvatore Sciascia, 1978



venerdì 22 marzo 2013

Thomas Hardy


COLORO CHE NON SI GUARDAVANO

Questo è l’assito antico
battuto, incurvato, assottigliato,
qui c’era quella porta antica
per cui entravano i piedi che son morti.

Ecco la scranna su cui ella stava
con un sorriso al fuoco
mentre là il suo strumento egli suonava
con suono sempre più forte.

Puerilmente, in sogno, io danzavo:
felicità accendeva tutto il giorno;
ogni cosa d’intorno sfolgorava.
Eppure tutti guardavano lontano.


Traduzione di Attilio Bertolucci

Da Attilio Bertolucci, Imitazioni, Libri Scheiwiller, 1994

mercoledì 20 marzo 2013

Percy Bysshe Shelley


LA DOMANDA

Sognai che vagavo senza meta e d’improvviso 
il nudo inverno diventava primavera,
profumi delicati deviarono i miei passi, 
misti a un murmure d’acqua che scorreva
lungo le balze erbose di un argine disteso
in una macchia e che là, senza osare
gettarle al collo le sue verdi braccia,                          
baciava la corrente fuggendo, come in sogno.     

Là crescevano fiori screziati, anemoni, viole,
margherite, i perlacei Arturi della terra, 
fiore costellato che non tramonta; primule delicate 
e tenere campanule (la zolla tremò appena, 
quando nacquero), e il fiore alto che bagna
il viso della madre, come un bimbo lieto 
e intenerito, con le lacrime raccolte dal cielo,
alla fievole voce del vento, compagno di giochi.              

Al caldo d’una siepe crescevano rigogliose 
la rosa canina e la verde vitalba, il mughetto 
lunare, ciliegi in fiore, bianche coppe 
di lucida rugiada, vino ancora non scolato 
dal giorno; le rose selvatiche, l’edera sinuosa 
con le foglie e gli scuri rampolli vagabondi;
e fiori azzurri e neri e striati d’oro, più belli
di quanti ne vedano occhi al risveglio.

Più vicino alla sponda tremante del fiume
iris purpurei crescevano adorni di bianco,
e stellati boccioli fluviali, in mezzo al falasco; 
galleggianti sull’acqua brillavano grandi ninfee,
illuminavano la quercia che sporgeva sulla siepe
col chiarore lunare di raggi di liquida luce;
e giunchi, e canne d’un verde tanto profondo 
che l’occhio abbagliato leniva col sobrio lucore.

Immaginai che quei fiori visionari
li legavo in un mazzo, accostando varietà
diverse degli stessi colori (che sotto quel riparo
naturale crescevano misti fra loro), 
e li tenevo, imprigionati figli delle ore,
stretti nella mano – poi, esultante e lieto,
mi affrettavo a quel luogo da dove ero partito
e avrei potuto farne dono. – Oh, a chi?  


Traduzione di Francesco Dalessandro


La poesia è stata tradotta in occasione della mostra Visionary Flowers di Nancy Watkins che si tiene presso la Keats-Shelley House di Roma fino al 6 aprile prossimo. Le opere, e insieme la loro speciale tecnica, che fa scaturire la luce dal nero dell'inchiostro, trovano una naturale corrispondenza con questa poesia di Shelley, che evoca il passaggio dalle ombre dell'inverno al fulgore della primavera. 
Oggi, 20 marzo, equinozio di primavera, presso la KSH si terrà una lettura speciale di versi, durante la quale verrà letta anche la presente traduzione.  
Per informazione sulla lettura: Keats-Shelley House / Variazioni sul tema dei fiori



lunedì 18 marzo 2013

Domenico Vuoto


DA FIORE A FIORE 


Non al fiore accudito nel suo pregio da intenditori e mercanti, superbo nella vanagloria dei colori, va la mia preferenza. Né agli aristocratici consessi floreali dove è un nobile che parla ad altro nobile, e a tutto il resto accorda degnazione.
È all’umile margherita di campo che do la mia predilezione – creatura intenta e seria e riguardosa.   
Guardatela mentre freme all’ultima aria invernale e si rimpannuccia nel tepore del sole. 
In colonia, allorquando si dispone con le consorelle a un diffuso parlottio che un alito di vento rende fervido. 
O sempre in comunione con le altre, si fa testimone delle febbrili avventure degli insetti. 
E infine vedetta, intrepida vedetta a protezione dei misteri che si celano tra i vortici e le cortine delle erbe.

Curiamolo questo piccolo fiore francescano perché non si dica: - Alla delizia del sentimento preferimmo l’ebbrezza dei sensi, alla discrezione l’evidenza trionfante, alla penombra la vacuità della luce. 

(Inedita)



Questo testo inedito è stato scritto in occasione della mostra Visionary Flowers di Nancy Watkins che si tiene presso la Keats-Shelley House di Roma fino al 6 aprile prossimo. Le opere, e insieme la loro speciale tecnica, che fa scaturire la luce dal nero dell'inchiostro, trovano una naturale corrispondenza con la poesia di P.B. Shelley, The Question, che evoca il passaggio dalle ombre dell'inverno al fulgore della primavera.  
Mercoledì, 20 marzo, equinozio di primavera, presso la KSH si terrà una lettura speciale di versi, durante la quale verrà letto il presente testo. Anche la poesia di Shelley, nella traduzione di Francesco Dalessandro, verrà letta nella stessa occasione e si troverà su questo blog.  




venerdì 15 marzo 2013

Attilio Zanichelli


DIARIO


Sapete di cosa io vi parlo?
No, non sapete; forse di un ricordo
con la mano sotto il mento,
mano indurita di ghiaccio, rado
cane che singhiozza nel mio occhio.

Devo comunque intrattenervi,
poco visitatori qualche volta
ai detriti della mia carne, poco
chiarezza di cosa sia portare un peso
nel letto d’acqua della vita.

Mi piego come sulle scale si piega il malato
o l’ospite davanti la porta. 
Dirvi il significato estremo, lo so.
Ma voi, davanti ai cancelli
serali dell’arrugginito giorno.

Da Una cosa sublime, Einaudi, 1982

mercoledì 13 marzo 2013

Camillo Sbarbaro



A VOLTE SULLA SPONDA DELLA VIA

A volte sulla sponda della via
preso da un infinito scoramento
mi seggo: e dove vado mi domando,
perché cammino. E penso la mia morte
e vedo me già steso nella bara
troppo stretta fantoccio inanimato...

Quant’albe nasceranno ancora al mondo
dopo di noi!
                        Di ciò che abbiam sofferto
di tuttociò che in vita ebbimo a cuore
non rimarrà il più piccolo ricordo.

Le generazioni passan come
onde di fiume...

Una mortale pesantezza il cuore
m’opprime.
                       Inerte vorrei esser fatto
come qualche antichissima rovina,
e guardare succedersi le ore,
e gli uomini mutare i passi, i cieli
all’alba colorirsi, scolorirsi
a sera...

da Pianissimo, Marsilio, 2001

lunedì 11 marzo 2013

Carlo Betocchi


SALMO

Quando invecchiamo, fatti più sordi alla rima
ed a quel mitico batter dei ritmi
che amore interno dettava, una cosa
sola, un esister confuso coi freschi
pimenti degli anni giovanili;

allora un ciuffo di pini su un monte,
una gran macchia verde ci commuovono
col silenzio, e siamo come silenzio
che non si perde nel nulla, ma entra
in noi per farsi conoscere, come

vampa di lauro profuma la macchia
nell’alido, col suo sentore amaro:
sì, la vecchiaia è una nuova stagione,
e la morte una stagione più alta, od umile,
di foglia secca per quei tabernacoli della

requie del canto che non serve più.

Da Poesie del sabato, Mondadori, 1980

venerdì 8 marzo 2013

Dino Campana


UNA STRANA ZINGARELLA

Tu sentirai le rime scivolare
In cadenza nel caldo della stanza
Sopra al guanciale pallida a sognare
Ti volgerai, di questa lenta danza
Magnetica il sussurro a respirare.
La luna stanca è andata a riposare
Gli ulivi taccion, solo un ubriaco
Che si stanca a cantare e ricantare:
Tu magra e sola con i tuoi capelli
Sei restata. Nel cielo a respirare
Stanno i tuoi sogni. Volgiti ed ascolta
Nella notte gelata il mio cantare
Sulle tue spalle magroline e gialle
I capelli vorrei veder danzare
Sei pura come il suono e senza odore
Un tuo bacio è acerbetto e sorridente
E doloroso – e l’occhio è rilucente
È troppo bello, l’occhio è perditore.
Sicuramente tu non sai cantare
Ma la vocetta deve essere acuta
E perforante come il violino
E sorridendo deve pizzicare
Il cuore. I tuoi capelli sulle spalluccine?
Ami i profumi? E perché vai vestita
Di sangue? Ami le chiese?
No tu temi i profumi. Il corpicino
È troppo fine e gli occhi troppo neri
Oh se potessi vederti agitare
La tua animuccia tagliente tremare
E i tuoi occhi lucenti arrotondare
Mentre il santo linfatico e canoro
Che dovevi tentare
Spande in ginocchio nuvole d’incenso
Ringraziando il Signore
E non lo puoi amare
Christus vicisti
L’avorio del crocifisso
Vince l’avorio del tuo ventre
Dalla corona non sì dolce e gloriosa
Nera increspata movente
Nell’ombra grigia vertiginosa
E tu piangi in ginocchio per terra colle mani sugli occhi
E i tuoi piedi lunghi e brutti
Allargati per terra come zampe
D’una bestia ribelle e mostruosa.
Che sapore avranno le tue lacrimucce?
Un poco di fuoco? Io vorrei farne
Un diadema fantastico e portarlo
Sul mio capo nell’ora della morte
Per udirmi parlare in confidenza
I demonietti dai piedi forcuti.
Povera bimba come ti calunnio
Perché hai i capelli tragici
E ti vesti di rosso e non odori.

Da Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, 1973

mercoledì 6 marzo 2013

Giancarlo Pontiggia


LEGGEVO, UN GIORNO, LE API DEL RUCELLAI

Leggevo, un giorno, Le api del Rucellai.
Era luglio, e il sole
folgorava, ruvido, tra le ombre.
Leggevo: «Queste
pensose, e timide del verno,
divinatrici degli orribil tempi,
si dan tutta la state alle fatiche, riponendo
in comune i loro acquisti,
per goder quelli, e sostentarsi
il verno». Versi dolci, pensavo, e quieta-
mente sussurranti, mentre il giorno
solitario ruotava, e con esso il pomeriggio.
Volavano le ore. Anch’io, pensavo,
disporrò, in versi d’oro,
sereno e miele e bel tranquillo e vento
e pensieri più che odorosi, azzurri avverbi
trasparenti come lino, e un cesto, assolato,
di nomi. Le fronde, intanto, indolente-
mente si agitavano

nella sera di luglio.


Da Bosco del tempo, Guanda, 2005

lunedì 4 marzo 2013

John Milton


DAL PARADISO PERDUTO, LIBRO XII

... ora imminente
fattosi l’arcangelo, mentre dall’altra collina
ai punti prefissati tutti in bianche monture
planavano i cherubini, come una meteora
scivolando verso terra: tale di sera la bruma
da fiume o da palude sui terreni melmosi
si spande e tallona il colono
che torna alla sua casa. Frontalmente
avanzavano essi e li precedeva, in alto brandita,
la spada del Signore fiammeggiando simile
a cometa, e nel suo torrido, libico vapore
affocava quel clima già temperato. L’angelo
intanto, presili per mano, affrettava i nostri
progenitori attardati alla porta orientale:
e già dall’erba scoscesa al piano sottostante
li condusse, e disparve. Ed essi guardavano
indietro alla plaga del Paradiso che l’aurora
fronteggia , alla dimora felice di prima: e videro
ogni cosa ondeggiare alla spada di fiamma,
ingombra di fieri volti e ignee braccia la porta.
Spontanee lagrime versarono essi ma presto
asciutti furono gli occhi: il mondo intero
si stendeva dinanzi ed ovunque
era aperto loro un sito di pace,
guidandoli la Provvidenza: così la mano
nella mano con incerti passi e lenti
attraverso l’Eden presero la solitaria via.


Traduzione di Attilio Bertolucci

Da Attilio Bertolucci, Imitazioni, Libri Scheiwiller, 1994


venerdì 1 marzo 2013

Tommaso Campanella


LA MORTE È DOLCE A CHI LA VITA È AMARA

La morte è dolce a chi la vita è amara;
muoia ridendo chi piangendo nasce;
rendiam queste atre fasce
al Fato omai, ch’usura tanta esige,
ch’avanza il capital con tante ambasce.
L’udito, i denti vuol, la vista cara.
– Prendi il tuo, terra avara,
perché me teco ancor non porti a Stige –. 
Beato chi del tempo si transige!


Da Poesie, a cura di Giovanni Gentile, Sansoni, 1938