lunedì 30 dicembre 2013

Robert Lowell

DELFINO

Mio Delfino, solo di sorpresa tu mi guidi,
schiavo come Racine, l’uomo dell’arte,
attratto nel suo dedalo di ferrea composizione
dall’incomparabile voce delirante di Fedra.
Quand’ero travagliato nella mente, ti lanciasti sul mio corpo
preso nel nodo scorsoio delle corde
di un tramaglio che affondava,
quell’opaco strisciare e inchinarsi della mia volontà...
Sono stato a sentire troppe
parole della musa collaboratrice,
e forse troppo ho tramato a cuor leggero con la mia vita,
senza evitare danno agli altri,
senza evitare danno a me stesso – 
per chiedere compassione... questo libro, metà fantasia,
rete fatta dall’uomo per il divincolarsi delle anguille – 

i miei occhi hanno visto ciò che ha fatto la mia mano.


Traduzione di Rolando Anzilotti

Da Il delfino e altre poesie, Mondadori, 1989

venerdì 27 dicembre 2013

Giuliano Goroni

NEON IN CORSIVO AZZURRO

Sembra una minaccia fatta
per amore, il buio ventoso
e commerciale di via appia,
le luci portatili sui motori,
un’autofficina generale qui
soggiorna oleosa e chirurgica,
ma più un cubo d’emergenza 
generica e continua, corridoio 
comune della mente, irrompe
nella velocità l’appello
opaco e vischioso; per un po’
ruba il mondo, l’acciaio multicolore
in depositi firma questa retrovia,
ma più, la spericolata paura libera
annusa delicata l’aria della vita
farfalla d’ognuno, folla di tutti...

Ma una dolcezza presupposta
e piovosa è messa lì a freddo
solo per compiutezza di disegno
dal neon in corsivo azzurro,
stretto grigio-sera angolare
e pochi oleandri, in chiusura
si ritira un bar dell’io medio
e transitorio.

Del presunto passo della vita,
nel vacillare lento d’ogni sua
vana forma vera, sono, a volte, alla
sommaria evidenza degli occhi
non senza velo e sforzo, anche
le sue facili, esposte felicità.
S’è fatta periferia, scesa
da bus e metro tra i primi
fari e quell’assillo da inseguiti
minori, stringendosi a questo adesso.
Fissità di tutti nella pensilina
assoluta, con le borse del ritorno,
un cemento d’attesa pallido
e vivente e ognuno già è casa
porta chiusa, rapido il buio
novembrino nel vialone svogliato,
steli alti di luce in prospettive
lunghe, un destino ridotto e stanco
d’esserlo, inciampa addosso alle
vite che spinge.
C’è un camice lilla, sopra una fibra
sua di quotidiano, sospesa
dal proprio continuo, sfila
un pensiero da vetrina al di fuori,
sue interlocutorie seduzioni
sghembe ammissioni, l’illusione
che più le pare sentimento e sosta.
Le oscilla nel volto il soggettivo
fluente dei riquadri accesi
dai muri, l’evasività singola di una 
formale aiuola rotatoria, la sobria
ferocia della lamiera ondulata.
Che insiste nel cerchio,
l’eco coabitante di un bacio 
che si rincorre, nelle sparse
proposte della lacrima; perde ora
la magnolia, la foglia che più aveva
voglia di terra, attuarsi forse
d’originaria ombra che, nella
strettoia mondana, cala riservata
desolazione e pare farne albe
pare farne corpi,
ma è la vetrina delle radio 
a coglierla sul fatto,
d’esser lì, sul set del presente.


da Flavia Giacomozzi, Campo di battaglia, Castelvecchi, 2005 

mercoledì 25 dicembre 2013

Ted Hughes

IL FALCO APPOLLAIATO

Siedo sul tetto del bosco, a occhi chiusi.
Inazione, nessun sogno falsificatore
tra l’uncino della mia testa e quelli delle mie zampe:
oppure nel sonno ripeto stragi perfette e mangio.

La comodità degli alberi alti!
La forza ascensionale dell’aria e i raggi del sole
sono a mio vantaggio;
e la faccia della terra arrovesciata si lascia ispezionare da me.

Le mie zampe serrano la ruvida corteccia.
Ci è voluta tutta intera la Creazione
per produrre questa zampa, ciascuna delle mie penne:
e ora stringo la Creazione tra le zampe

o volo in alto, e la rigiro tutta piano piano – 
uccido dove mi va perché è tutta mia.
Non conosce sofisticherie il mio corpo:
staccare teste è il mio stile – 

distribuire morte.
Perché l’unica traiettoria del mio volo passa diretta
per le ossa dei viventi.
Il mio diritto trascende ogni argomentazione:

il sole è dietro di me.
Niente è cambiato da quando ho cominciato.
Il mio occhio non ha permesso cambiamenti.
Intendo mantenere tutto così.


Traduzione di Nicola Gardini

Da Poesie, a cura di Nicola Gardini e Anna Ravano, I Meridiani, Mondadori, 2008

lunedì 23 dicembre 2013

Francesco Paolo Memmo

LA NEVE   
                 

                Il primo rilievo è già
                 quasi una persecuzione.
                                (F. Cordelli)

E poi giunse finalmente la neve ma a dicembre
(era assurdo pretendere il contrario)
neppure a Roma del resto ma fuori com’è logico
in campagna: un’enorme distesa: e tuttavia
non bianca (l’attesa ha sempre un margine di errore:
eppure doveva essere bianca così la ricordavo
affacciato al balcone: io che ho della memoria
– diciamo la parola – un culto)

Ma non è poi questione di colore – certo – 
non è neppure questione di neve (di natura
semmai natura essendo anche lo sbaglio di natura)
conta però che intanto sia caduta che il cielo
si sia aperto: ed ora infatti è terso come
non mai in questi giorni – che sia cessata l’attesa
rientrato l’allarme

Si è ripetuto insomma è stato bello ne sono stato
aggredito posso pensare ad altro: a quello che non
c'è

Dove si vede che la neve è un segno 
– meglio un segnale: e che rimanda
ad altro. Simile in questo ad altri
anche opposti segnali. Che può essere
la vita o il suo contrario. Come l’albero
e l’acqua. Un destino se vuoi. Che tarda
a venire: per sua intrinseca ironia
Di questo passo è certo che persino
la morte non sarà casuale: quando verrà
se verrà se già non è venuta (potremmo
non essercene accorti?): un piccolo fatto
di ogni giorno un gesto: il più banale possibile

Potrebbe essere anche un gioco o peggio
– un  bluff – lo  dico vedi per metterti in guardia
(si comincia a giocare sempre giunti al colmo
della disperazione) sia la morte o la neve
siano i passi segnati sulla neve: indizi
di persone che poco fa sicuramente c’erano:
si saranno nascoste? hanno paura di me? o forse
sono tracce di animali? l’inizio di una pista?
o un tranello?

Dove si vede che la neve è un segno distorto
neppure infine una spia quando che sia scomparsa
svaporata: al di qua di ogni scarto dialettico
(seppure bianca per caso: come ancora infatti
la ricordo affacciato al balcone della mia vecchia
casa) precaria come un sogno: un segnare spezzato:

lo sapevo:

non c’è nulla che duri tutto l’anno: la neve
il piccolo pesce nell’acquario l’attesa il raffreddore
per quanto tutti ostinati e refrattari: niente

Benché fosse soltanto della neve che volevo
parlare. Di questa enorme distesa.


Da Le precipue funzioni, Quaderni di Messapo, 1980

venerdì 20 dicembre 2013

Franco Fortini

L’INVERNO
da Agrippa d’Aubigné

Le mie voglie, più sterili che belle,
Volano via. Voi lo sentite, rondini,
Si dissipa il tepore, avanza il freddo.
I nidi siano altrove. Non turbate
Di ciarle i sonni, di sterco le mense.
Dorma in pace la notte del mio inverno.

Scarso si trae ormai sul mondo il sole.
Meno scalda ma illumina costante.
Senza rimpianti mi tramuto, quando
Di falsi amori fatui mi rimorde.
L’inverno amo, che me di vizi monda,
Di morbi l’aria, di serpi la terra.

Candido il capo gravano le nevi.
Stempra quei geli il sole che mi è lampada
Ma scioglierli non può, corto è febbraio.
Nevi, scorrete al cuore in freddi rivi
Né cenere arda che altri incendi avvivi
Quali, cinto di fiamme, un giorno amai.

Spenta la vita, già non sarò spento.
Lampeggerà di me lo zelo santo
Ardente per la santa arca divina.
Sia dei miei resti un olocausto ai templi,
Ghiaccio ai fuochi empi, rèsina ai celesti,
Torcia ruggiante e no funesta fiaccola.

Breve il piacere ma breve la doglia.
Di usignoli silenzio e di Sirene.
Nessuno, vedi, i frutti e i fiori coglie
Né speranze lusinga ombra di bene.
Beata estrema età l’inverno viene
Che tutto gode e più non dà travaglio.

Ma prossima è la morte e a una immortale
Vita, chiusa la falsa, apre le porte,
Vita di vita e morte della morte. 
Chi gli agi fugge per amar naufragi?
A chi, più del riposo, il viaggio piace
E il lungo errare è più dolce del porto?

Da Composita solvantur, Einaudi, 1994


mercoledì 18 dicembre 2013

Marcella Corsi

NUVOLE

L’unica nuvola sul sole dunque raggela
tutti i giardini nonostante i rami
nudi sul cielo nonostante i chiari
fiori nel verde ancora accesi, tu
nuvola ardente innumerevoli cieli
tizzo vagante santo racchiuso
tra dorate teche che nessuno osa
indovinato mai concluso patto
oggi che il rosso vince nelle parate
natalizie e sulla nostra porta sola
non fa mostra del suo oro, sappi
amico amato quanto dolore è preso
nelle reti frequenti che le parole
tendono da un maschio all’altro
per femminili passi gesti parti, per
clonazioni cui ogni segno di devianza
costa lacrime e strazio senza che spazio
s’apra mai che già non fosse incluso
e non è questo quello che conta forse
e non è giusto né bastante e non
sarà una vita che risolverà il problema
e non le lasceranno forza sufficiente
ad inventare quel che serve, unica
nuvola a raggelare il mondo.

Da Distanze, Edizioni Archivi del ’900, 2006

lunedì 16 dicembre 2013

Francesco Paolo Memmo

ANTEFATTO DELLA NEVE                                 

... 
     per quanto c’entrasse di sfuggita
pronto a darsela a gambe lungo la tangente 
– c’era una folla ostile il sole ubriacava
l’aria di un ferragosto torrido – ebbene 
non è detto che qualcosa dovesse cambiare
ma insomma un mucchietto di neve sarebbe
stato assai meno di un miracolo (mia madre
ora soffre di coliche improvvise: ingratitudine
– dice – dei figli) in questa città vertiginosa
in questa vertiginosa Roma assurda Roma
paradossalmente felice dei suoi vuoti (e
mia madre lo sa che soffre d’improvvise nostalgie
non sa come difendersi dal caldo: l’ansia
è la sua aurea regola di vita) sebbene la tangente
sia un’impervia salita la montagna
quanto poco incantata in cui tutto davvero
tutto si riduce ad un’estenuata ripetizione
di gesti di cose di parole di nomi senza cognomi
– decise infine di restare in attesa della neve
convinto che sarebbe sopraggiunta: una questione
di attimi (mia madre ancora si diverte ad ammassarla:
senza saperlo tiene in mano la vita, l’attraversa...)

Da Le precipue funzioni, Quaderni di Messapo, 1980

venerdì 13 dicembre 2013

Ted Hughes

LA VOLPE PENSIERO

Immagino la foresta di questo momento di mezzanotte:
qualcos’altro è vivo
oltre la solitudine dell’orologio
e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita.

Attraverso la finestra non vedo stelle:
qualcosa di più vicino
seppure più affondato nel buio
sta penetrando la solitudine:

freddo, delicatamente come la neve scura,
il naso di una volpe tocca fronde, foglie;
due occhi servono un movimento che ora
e ancora e ancora e di nuovo

lascia nitide impronte sulla neve
tra gli alberi, e con cautela l’ombra
zoppa indugia vicino ai ceppi e dentro buche
di un corpo che ha l’ardire di avanzare

attraverso radure, un occhio,
un verde che cresce in intensità,
brillante e concentrato,
che se ne viene per le sue faccende

finché di colpo con acuto e caldo puzzo di volpe
non entra nel buco scuro della testa.
La finestra è ancora senza stelle; l’orologio ticchetta,
la pagina è pronta.


Traduzione di Nicola Gardini

Da Poesie, a cura di Nicola Gardini e Anna Ravano, I Meridiani, Mondadori, 2008

mercoledì 11 dicembre 2013

Isaac Rosenberg

VERDI PENSIERI SONO

Verdi pensieri sono
lastra di ghiaccio su un carretto
splendente a luglio.
Lì accanto un ragazzino
a piedi scalzi con due gemme al naso.

Traduzione di Francesco Dalessandro


da The Collected Works, Chatto and Windus, London, 1984

lunedì 9 dicembre 2013

Tess Gallagher

SPONTANEAMENTE

Quando mi alzo è un pezzo che lavora
agile il suo pennello sopra la casa.
Lo guardo sulla scala sotto la gronda
e mi rivedo addormentata nel sogno
che non sono riuscita a portare fino
alla veglia. Si dorme dentro una casa
che vien dipinta e vite intere
diventano l’impronta familiare della luce
del giorno sulla pianta della preghiera.
Questo “non ricordare” è una novità
di un posto dove si è stati.

Quel che nel sonno si è agitato o depositato
vi rimane. Mentre la tua casa
sotto l’azione costante della sua mano
lascia se stessa e tu ti accorgi che
questa superfice di nuova luce
che ti ricopre gradualmente il sonno
ha un potere ancor più grande.
Ora pensi di aver sentito le pennellate
oppure gli spazi tra l’una e l’altra,
un movimento che ti pesa addosso – 
un accumulo di stelle, ciascuna notte stellata
si sistema sui tetti di intere città.

Le sue pennellate attente imbiancano la tela,
le sfumate volute del legno son cancellate
come un respiro bloccato nel cuore. Nulla
è cambiato, dici, in mala fede. Eppure qualcosa
ti ha purificato fino a non farti più
riconoscere. Quando ti metti vicino alla sua scala
e guardi su, lui non dà segno di vederti
e come alla luce del giorno di un sogno
ti rendi conto che la tua casa è passata
nelle mani benedette di altri.

Il senso del possesso è questo, pensi:
arrivare nell’inebriante dopovita
dell’odore della tinta.
Qualcosa si apre in fondo a te.
Un po’ di tinta ti è caduta sulla spalla
come se la luce celasse un peso insospettato.
Sei convinta ti abbia attraversato il corpo.
Sei convinta di aver dato il tuo consenso
a questo, a quel che è stato fatto
della tua vita, spontaneamente.

Traduzione di Riccardo Duranti

da “Arsenale”, numero zero, ottobre-dicembre 1984

venerdì 6 dicembre 2013

Francesco Tentori

PASSERO

Passero che nel crudo
del giorno ancora invernale, all’incerto
risplendere del sole sei già qui
e ti volgi a ogni soffio, saetti l’occhio
a ogni ombra, svoli via
se ti guardo, ma torni, vai di ramo
in ramo, d’acqua in acqua,
e purché un suono, un colore ti chiami
scordi freddo e timore, non badi
che al filo d’erba, alla gemma, al lombrico,
tu somigli alla vita che un bagliore
basta a attrarre, e a distrarre dal suo inverno.

Da Il segreto degli specchi, Poesie 1949-1994, Biblioteca di Ciminiera, 2005

mercoledì 4 dicembre 2013

Vittorio Bodini

SAN GIOVANNI DEGLI EREMITI          

Vedi come frantuma questa tromba
negra la frase, rovistando i più
oscuri ripostigli dell'amore
e del tempo? O come l’erba
effimera tremando
somiglia al suo concetto?
E tu che pensi,
funerea carne al vento viola,
persa
tra le cupole rosse mussulmane
e il pallore dei ruvidi limoni?
Cosa ottiene il tuo sguardo che non sia
silenzio che si fa colore,
colore che si fa scusa mortale? 

Da Tutte le poesie, Besa, 2010 


lunedì 2 dicembre 2013

Annalisa Comes

PAESAGGI CON LUNA

a Yves, e a tutti gli uomini sulle colonie

I

Oltre il parapetto del balcone
esistono terre inesplorate
che tali per me rimarranno.
Tu parli di mulini a vento,
di palme, manghi e
altre spezie tropicali.
Ancora non hai abbandonato
la tua aria da eterno turista,
lo sguardo vaga intorno
a trecentosessanta gradi.
Laggiù ci sono ratti, scimmie, pesci velenosi, 
coralli taglienti, scolopendre, febbri improvvise,
mentre i negri raschiano a terra la spazzatura,
avventurieri si arricchiscono di rum e tabacco,
e tu, chef, di ritorno dalla città,
apri il tuo bel cocco a metà  
– metà  luna – 
bevi il latte e tiri su col naso.
Nel cuore della giungla occhieggiano
tanti animali feroci pronti
a essere sventrati dal tuo pugnale coloniale.

Ma cos’è questa colonia
che ha un aeroporto in miniatura
e ferri vecchi bruciati dal sole
e barili di senape per i clienti migliori?
Ci lasciano attingere acqua a piene mani,
ci sono uccelli di verde bosco,
di blu cobalto e rosso tramonto.
Sulla veranda una mami negra
stretta nel suo grembiule ocra
cucina un’esotica insalata,
si pulisce le mani sui fianchi e
culla una bambina chiara come il fiore di ylang ylang,
e tu dici ch’è felice di servire.
Perché sa fare solo questo.

In Occidente i fumi svettano
come bandiere e le bandiere cambiano
pur non cambiando politici e mestieranti,
al tramonto, prima della luna, tu scivoli tranquillo 
sulla tua docile canoa
in cerca della spesa.
Agguanti una grossa testuggine e con
monacale pazienza la accarezzi, la svuoti, la lucidi
lavori per giorni e giorni 
sul tuo trofeo tropicale.

In Occidente nessuno ha più
pazienza per fare la fila sull’autostrada, 
al supermercato, alla posta
e il tramonto lo gode l’inquilino
dell’ultimo piano – se è proprio fortunato,
se ha tempo per fermarsi sulla soglia
della veranda condonata.

Della testuggine ora
neanche l’ombra, perché è sepolta
a nord, in un bel giardinetto di Bretagna.

II

Pensando non so che vago pensiero in testa,
eri quasi sicuro d’aver cambiato vita e
mondo. Ma la semplicità del naufrago
e la solitudine dell’eremita non sono fatte per te.
Chi poteva vedere questa tua nuova vita?
Chi poteva vederti dritto in piedi
orgoglioso del tuo bel mulino con una camicia a fiori
inquadrato dalla luna?
Un uomo se ne va, solo per poter ritornare.
E se poi ritorna con qualche oggetto tipico
la festa è ancora più grande,
perché gli oggetti nascondono i buchi vuoti,
furti, mancanze, rapine.

III

Alzavi gli occhi alla luna
e quella bruciava, più forte che sui porti
ai quali eri abituato, 
più inebriante, 
crepitante 
come un vecchio ferro da stiro,
colava sulla staccionata, sugli arbusti di lantana, sulla biancheria
ordinata sul filo di plastica verde. 
Al largo, fregate, yacht, scafi d’ogni genere e
di latta, di legno e colla,
sudate, la poppa oscillante.
Tu le guardavi passare dalla zanzariera del letto,
la tazza del caffè in mano,
il berretto già calato sulla testa.
Quale altra avventura ti avrebbe riempito la giornata?

L’oceano brilla come metallo d’argento, 
sotto la grossa luna
scivoli sull’acqua, dall’acqua guardi l’isola:
la Grande Terra si allontana, i ciuffi dei palmizi
si polverizzano, gli uccelli ronzano
sempre più lontano
e arrivato all’orlo estremo della barriera corallina,
osservi bene il vuoto di blu che si spalanca,
la luce cola al fondo senza più riparo,
la schiuma si frange e sembra docile, 
quasi una risacca.
Butti le reti che sanno già di visceri di pesce,
e ti lasci andare a questo giardino
azzurro, attento con la briglia
dell’ancora a non oltrepassare la sponda di un altro meridiano.
Che bel riparo quest’isola di fiori e di vaniglia,
di luna e aperitivi,
di vele, piogge e onde dalla cresta rosa.

IV

Pensando non so cosa, pensi che potresti
rimanere. Questa volta l’oceano
sembra quasi una laguna
sotto la luna nuova – 
L’orizzonte è così largo,
la terra così stretta,
l’acqua ti fa un mantello per l’ultima stagione.
Ma il buio nero 
appassisce senza spaventare.


(inedita)

venerdì 29 novembre 2013

Kenneth Rexroth

TRE POESIE PER ANDRÉE REXROTH

Morta a ottobre del 1940

I

Ancora una volta dai rami screziati di grigio 
dei castagni esplodono stelle di smeraldo
gli ontani si consumano nel fumo rosa
d’innumerevoli germogli.
Lo so, primavera è splendida 
come sempre, i tordi nascosti
ciarlano dolcemente, il sole è vita – 
su queste piste nella foresta camminammo insieme, 
su questi sentieri, per dieci anni insieme. 
Pensavamo che quegli anni durassero per sempre, 
ma sono spariti, mentre i giorni
che per noi non dovevano arrivare sono qui.
Una lucida trota si bilancia nella corrente –      
un’impronta di procione sul bordo dell’acqua – 
più distante, il trambusto di un tarabuso –              
le tue ceneri sparse su in montagna – 
sulla corrente vanno verso il mare.                     



II                 

Viola e verdi, blu e bianche,
le bocche dell’Oregon
scivolano nel buio denso e fumoso 
mentre la coppa rotante del giorno  
sfugge al vortice dell’emisfero.
E la lunga spiaggia bianca
brilla tutta nel crepuscolo pallido 
mentre s’accendono luci 
nei villaggi solitari; voci umane 
ne nascono; e il latrato dei cani, 
appena cessa il vento.
Quelle sere d’agosto stanotte
sono vecchie di sedici anni e anch’io 
di sedici anni più vecchio – 
solo, sorpreso a metà della vita,
nel caos del mondo; e gli anni 
della nostra giovinezza sono tutti
scomparsi, e ogni atomo
della tua carne sapiente e confusa 
è completamente consumato.


III

   Monte Tamalpais

Sono passati anni. E di nuovo
è primavera. Marte e Saturno
al crepuscolo, presto saranno 
qui, bassi a occidente. La luce 
del tramonto crea travi confuse                                               
sulle cascate di Steep Ravine.
Gli uccelli che d’inverno 
vengono dall’Oregon, tordi
vari e pettirossi fanno festa 
con bacche mature di corbezzolo
e agrifoglio. I pettirossi cantano 
nella luce che s’addensa.
                                       Le tue ceneri
furono sparse in questo luogo. Qui 
ti scrissi una poesia d’addio,
e molto tempo prima un’altra 
di pace e d’amore, sulla stanchezza 
di una lunga sera primaverile 
in gioventù. Sono ormai
quasi dieci anni da quando venisti 
qui per restarci. Ancora una volta
i salici grigi che in questa terra 
stravagante arrivano con l’anno 
nuovo sono in fiore. Ci sono 
cervi e tracce di procione 
nei medesimi luoghi. Certi nuovi 
banchi di sabbia e letti di ciottoli 
sono rimasti dove l’erosione
ha rosicchiato in profondità le colline.
I percorsi della vita sono stretti.                                  
Guerra e pace, passate come fantasmi.
La razza umana sprofonda
nell’oblio. Un tarabuso
chiama dagli stessi giunchi dove
ne udisti uno in quel nostro 
primo anno nel West, e dove io
ne ascoltai un altro nell’anno
della tua morte.


   Kings River Canyon

Il mio dolore è così grande
che non riesco a vederci dentro;
così profondo che mai
potrò toccarne il fondo. 
La luna sprofonda tra la foschia,
come se il canyon del Kings River
fosse pieno di buona umida ovatta 
calda. Saturno brilla tra la densa 
luce come un umido occhio d’oro; 
là vicino, Antares s’illumina 
debolmente, senza brillare. 
In alto, lontana, un’oscura 
pietra luccica al chiaro di luna – 
il belvedere da dove scrutammo 
nel canyon e poi ci stendemmo 
sotto un’altra luna piena. 
Qui, vicino allo stagno 
autunnale, ci accampammo  
per tutto un caldo ottobre. 
Qui ti feci una torta di compleanno. 
E qui tu dipingesti le tele migliori – 
ingenui, misteriosi paesaggi.
Ne sono rimasti pochissimi. 
Li distruggesti nell’ansia terribile 
della lunga malattia. Sono passati
diciott’anni da quell’autunno. 
Qui, allora, non c’erano piste. 
Solo poche persone sapevano 
come entrare in questo canyon. 
C’eravamo solo noi, venti miglia 
lontani da chiunque; 
un giovane marito e sua moglie,
circondati e protetti 
da un autunno tranquillo,
un rumore d’acque tranquille,
nel vorticare delle foglie cadenti,
in un tremolio d’innumerevoli 
pipistrelli che dalle grotte 
volteggiavano sugli stagni odorosi 
dove la grande trota sonnecchiava nella sera.

Diciott’anni fatti a pezzi 
dalle ruote della vita. 
Tu sei morta. Migliaia di detenuti 
hanno aperto con la dinamite
un’autostrada attraverso 
l’Horseshoe Bend. La gioventù, 
che venne solo quella volta, 
è passata. Ingrigiscono i capelli, 
il corpo s’appesantisce. Anch’io 
vado incontro alla morte. 
Penso a Exequy, ricercata ma 
desolata poesia di Henry King, 
alla grande poesia di Yuan Chen, 
insopportabilmente triste. 
Solo, vicino allo Spring River,
più solo di quanto avrei mai
immaginato, penso a Frieda 
Lawrence, seduta da sola 
nel Nuovo Messico, durante 
la lunga siccità, in ascolto 
del fischio del latteo Isar,
sui ciottoli, in una perduta primavera.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

mercoledì 27 novembre 2013

Meeten Nasr

NEL BOSCO
(da una stampa giapponese)

1

Scorre il giovane tempo mentre attendi
che un destino si compia. Forse temi
il tori di quel tempio, lignea porta
verdastra, beffarda o minacciosa,
varco attraente che tutela il nulla.
Ma il grande pruno ti offre protezione,
quasi ti abbraccia. Le dita tue intrecciate
rivelano il tormento dell’attesa
di vederlo apparire. Là, nel vago,
fissi lo sguardo al mare (forse un lago),
volgi le spalle all’astro della notte,
alla dimora serena dei ricordi
più di te solitaria. In questa mossa
scuoti le nere trecce scompigliate
dalle insonni battaglie col guanciale.

2

Sono la prostituta sacra e quindi accetto
sia il carrettiere grasso e indisponente,
sia l’inesperto giovane voglioso.
Una volta – ricordo – mi cercò una donna
vestita da soldato. Passo il giorno
sul letto in dormiveglia ma di notte
sola passeggio ai raggi della luna
e ascolto la risacca sulla spiaggia.
Oltre questo portale è il mio capanno
dove ogni giorno confermo che illusorio
è il piacere del corpo e vuoto tutto
questo stringermi ad altri ed esser stretta.
Ma vicina è già l’alba. Indifferente
a ciò che insegno il nespolo fiorito
attende il sole per offrirmi l’ombra.

3

La mia padrona è incinta. Ben ricordo
che al quarto plenilunio ella sognò
semi rossi di spaccati melograni.
Allora scrisse al principe, suo amante,
che restasse lontano. La risposta
fu l’impronta di un bacio sulla carta.
Sfidando i Kami egli venne e si congiunse
con lei tutta la notte. Ripartendo
donò una veste rossa, fiori, una poesia
arrotolata attorno a un ramo dell’antico
ciliegio protettore. Da quel giorno
si è visto un corpo fluttuare in riva al mare
nelle notti di luna. Un tocco di campana
s’ode talvolta al far dell’alba. Mille gru
si levano allora in volo dagli stagni.


Nota dell'autore. Nel bosco è la traduzione italiana dell'espressione rashomon, titolo di un famoso film del regista Kurosawa.


Da Al traguardo di Malaga, LietoColle, 2009

lunedì 25 novembre 2013

Salvatore Ritrovato

DEI POETI

Un giorno sono un mucchio di ossa e polvere.
Ora fuggono, e in giro ne vedi pochi, come cervi
tristi, abitare una terra fra impervi
teneri cuori che non sanno leggere.
Un giorno assisti impotente alla loro estinzione.
Prima dichiarano le loro piccole curiosità
per un grammo di polline posato
sulle scarpe, poi riducono alla ragione
pentiti la balbuzie del creato.
Arrancano, vanno a scatti.
La coscienza che parla a fatica
anche della morte, è un altro strappo
alla regola dicono in quel folle
cammino-verso la Natura amica.
Ma deplorarla, o deflorarla, che consolazione,
o vederla morire ogni minuto, chiusa
fra briciole di azoto e la curva stagione.

Da Come chi non torna, Raffaelli Editore, 2008

venerdì 22 novembre 2013

Kenneth Rexroth

DUE POESIE PER DELIA REXROTH

Morta a giugno del 1916

I

Sotto quelle tue rose gialle in disordine,
oggi, Delia, sei più giovane
di tuo figlio. Due decadi e mezzo – 
la tomba di famiglia s’è inclinata su un fianco 
e lui ti ha superata di metà dei tuoi anni. 
Sull’altro lato del paese, 
sotto i salici accanto al fiume lento, 
profonde sotto terra le tue costole sbiancate
mantengono la curva del seno premuroso 
e fervido; il cranio sottile, l’ardore del cervello. 
Sulle dita la memoria degli Études 
di Chopin e nei piedi i valzer lenti 
e il sonno da champagne e two-steps.
La candida luna piena di mezza estate, 
che vedesti stando sveglia quell’ultima notte, 
guarda ancora una volta la storia riempire 
di cadaveri il deserto e gli oceani 
e dalla finestra a levante guarda me
sopravanzare la tua mezza età 
e la conoscenza la tua agonia e dissoluzione.


II

La California rotola
in un’estate sonnolenta, e l’aria
è satura del fumo acre 
e dolce dell’erba bruciata
sulle colline di San Francisco.
Così brucia la carne e così
le piramidi, e ardono le stelle.
Stanco, stasera, in questa 
città di parvenu, nel disumano 
Ovest, nell’anno più insanguinato,
ho tirato giù un libro di poesie 
che ti piaceva (e che ti piaceva
cantare su una musica 
mai più trovata): Long Ago 
di Michael Field. Difatti, sono 
di tanto tempo fa i tuoi capelli 
di bronzo, il corpo slanciato. 
Eri, credo, un’amante feroce, 
una moglie sfrenata, una madre
ferina. La vita m’è costata
più anni, ora, ma assai meno dolore,
di quel che pagasti tu, per essa. 
E ho riacquistato, da solo
e per me stesso, le poesie
e i dipinti scavati dall’osso 
ribelle, i preziosi risultati 
della tua vita straziata e infelice.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 


mercoledì 20 novembre 2013

Amelia Rosselli

SE MAI NELLA MIA MENTE DISPERAZIONE

Se mai nella mia mente disperazione
ebbe luogo: se mai nel mio cuore dubbio
ebbe posto: se mai nei miei piedi forza
urtò: se mai nella mia lacerata mente
si curvò l’uragano.

Se mai nel mio piede ebbe posto la violenza
era per sottrarmi agli altri che preparai
lo stambugio: se mai vi fu una violenza
era per prepararmi agli altri.

Se mai nella mia mente nacque il desiderio
d’essere io stessa vittima e carnefice
se mai nel mio cuore obbediva il carme

della desta porta alla speranza.


Da Documento, Garzanti, 1976

lunedì 18 novembre 2013

Sauro Albisani

RISPONDI

Sai qual è il fondo della solitudine?
A volte mi metto in cucina,
apro un filo la porta-finestra
per far uscire il fumo del sigaro
nelle tenebre fredde, apro un libro,
subito lo richiudo. Apro la mano,
ci guardo dentro e d’improvviso
mi viene una maledetta voglia di piangere.
Senza perché. Non è tanto il fatto
di aver voglia di piangere, no,
è questa la risposta.

Da La valle delle visioni, Passigli, 2012

venerdì 15 novembre 2013

Carlo Betocchi

VIENI, VIENI DA ME, CHE GIÀ SON VECCHIO

Vieni, vieni da me, che già son vecchio,
amore no, ma tu ombra d’amore fatta
di mute cose quotidiane, viste
di tetti, strade, di schiuse finestre
da cui spiano gli amanti la venuta
dell’amante, o d’invetriate malate,
e procedere smunto di giornate
penose, e pace ombrosa che ti perdi
come si perde nel padule in volo
fulminata la folaga che affoga
e poche piume restano per l’aria:
io sono la realtà che qui vacilla
senza nemmeno un suo perché
se tu non vieni, amore, ombra d’amore,
o caro sonno, a darmi la tua requie.


Da Poesie del sabato, Mondadori, 1980

mercoledì 13 novembre 2013

Isaac Rosenberg

FRAMMENTO XLIX

Ci sono dolci catene che legano
e utili che sono un’insolita perdita.
La tua vermiglia libertà vacilla
e sbianca al loro cenno.
Tu cambi, ti confondi e splendi
in un labirinto di luce,
ma un cambiamento a te buio e silenzio
chiede ma chiede invano.

1914-1915

Traduzione inedita di Francesco Dalessandro

da The Collected Works, Chatto and Windus, London, 1984

lunedì 11 novembre 2013

John Keats

QUATTRO STAGIONI MISURANO L’ANNO

Quattro stagioni misurano l’anno;
quattro l’animo umano: primavera 
sensuale quando la vivace fantasia 
accoglie facilmente ogni bellezza;                                       
l’estate quando con voluttà il primaverile
boccone di miele del giovane pensiero 
ama succhiare e nel sogno s’innalza  
e s’avvicina al cielo; quieti rifugi  
l’anima ha nell’autunno quando le ali
raccoglie, osserva indolente le nebbie 
e se ne appaga, lascia che la bellezza
passi incurante, come soglia un rivolo;
ed ha il pallido inverno che sfigura,
perderebbe altrimenti la mortale natura.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Poetical Works, edited by H. W. Garrod, Oxford University Press, 1972

venerdì 8 novembre 2013

Ledo Ivo

VALZER FUNEBRE PER ERMENGARDA

Eccomi qui davanti al tuo sepolcro, Ermengarda,
per piangere la tua carne povera e pura, che nessuno di noi vide disfarsi.

Altri verranno lucidi e azzimati,
senza dubbio io vengo ubriaco, Ermengarda, io vengo ubriaco.
E se domani troveranno la croce della tua tomba caduta al suolo
non fu la notte, Ermengarda, né il vento.
Fui io.

Volli proteggere la mia ubriachezza con la tua croce
e rotolai sul suolo in cui riposi
coperta di margherite, ancora triste.

Eccomi qui davanti alla tua tomba, Ermengarda,
per piangere il nostro amore di sempre.
Non è la notte, Ermengarda, né il vento.
Sono io.


Traduzione di Carlo Bordini

mercoledì 6 novembre 2013

Roberto Pazzi

IL VARCO

Lascio aperte tutte le finestre
e la porta di casa spalancata.
O se apparisse la figura avvolta
nel mantello e mascherata
che a Mozart ordinò il suo requiem...
Così così vorrei il tuo abbraccio
assassino e morire d’amore
fattosi vento che spazza
dagli angoli del corpo il buio,
luce che s’arrende in fondo
alla galleria degli anni,
il varco che s’apre e vince
lo spavento di non poter uscire
dal mio volto.

E dentro dentro di te
avvertire le sagome delle stanze,
riconoscere la mia vera casa.
E chiudere finestre e porte
e giacere millenni col volto
composto dalla luce del tuo corpo
nella piramide più interna
dove splende la maschera del re
e la sua maledizione lo protegge.

Da Calma di vento, Garzanti, 1987

lunedì 4 novembre 2013

Dionisia García

RONDINI

A stormi si sollevano le rondini,
iniziano già il viaggio verso le terre calde,
non prevedendo viveri e certezze.
Solo le spinge il loro istinto alato
a cercare l’alloggio in altra parte
dove il buon sole sfiori i loro nidi.

Nella città si annuncia ormai l’inverno.


Traduzione di Emilio Coco


da Poeti spagnoli contemporanei, Edizioni dell’Orso, 2008

venerdì 1 novembre 2013

Gianfranco Palmery

APRIREMO UN PICCOLO PARADISO 

Apriremo un piccolo paradiso
precario, messo su con gioie
di tutti i giorni: i giochi, i sonni
sulle ginocchia e le giravolte
rituali intorno ai fornelli, a ciotole
mai puntuali: basta
con l'inferno, l'infermo e il bazar
di tutte le diavolerie che è stata
la mia poesia: tu nera sul candore
dominerai della carta, e la mano
ti verrà dietro felice, farà
la sua figura: un profilo di gatta



da Profilo di gatta, Il Labirinto, 2008

mercoledì 30 ottobre 2013

Domenico Vuoto

GATTESCA

Il gatto è animale giocoso e severo. Scrupolosamente teleologico nei suoi divertimenti. Così, per impossessarsi del silenzio, per fasciarsene – creatura freddolosa! – è disposto alle più 
irresistibili diavolerie. 
Lo stana, e per fiaccarlo se lo passa da zampa a zampa e gli gira 
intorno con danzette cadenzate e piroette; poi magnanimo gli concede l’illusione di una fuga ma per aggranfiarlo meglio e certificarsene il possesso.
Lo inala con ghiotte vibrazioni dei baffi. E quando si accoscia, quello è ormai travasato nel suo corpo.
Lo lascia trasparire dagli occhi nella forma che più gli è congeniale: l’oscurità di un enigma.


da Forme d’ombra, Edizioni Il Bulino, 2013

lunedì 28 ottobre 2013

Alberto Bellocchio

EPICA FELINA


Oggi Roberto ha traslocato.
Ha caricato letto e materasso, scodelle e casseruole,
la credenza e varie di cucina… e i quattro gatti.
Che sono: nerino, il gatto rosso, cenerella e il suo gemello
grigio… la nazione felina con la quale s’accompagna 
il nostro milanese nella stagione estiva.
Questo mi ricorda le vacanze adolescenti
e le amicizie vacanziere… bande di contrada 
insorte come per incanto all’aria e al sole… 
i bagni al fiume, qualche modesta passeggiata, 
lunghi segreti conversari, annusamenti…
ci si impregnava dell’intrigante piacere d’amicizia,
gesti e detti imitativi, prove d’esperienza, 
Poi il carro dell’estate concludeva il suo tragitto.

Per i gatti di Roberto invece accade proprio
oggi, il primo giorno di vacanza! Due miao ed è finita.
E l’orto ora mi appare sterminato… una savana
desertificata, disertata… esodo, biblica transumanza…

E noi? Noi lo sapevamo, da sei mesi. Roberto
ce l’aveva anticipato. Sei mesi per elaborare/ruminare 
il lutto, elevare cantici e compianti al Rosso, il campione,
detto anche “lo svedese”… a Nerino, la piccola 
misterica pantera… Cenerella, battezzata Merry, 
la tremenda, e il suo gemello grigio del quale 
si diceva “sarà Lui o Lei”…

E il nostro? Se ne risenta o meno, è presto dirlo. 
Nessuno asociale più d’un gatto. Loro non hanno
fiere né mercati, non hanno in uso di cantare in coro i salmi.
Il numero o il sapere, per loro, sono una risorsa?
E chi lo sa! L’unione fa la forza? 
Io non gliel’ho mai sentito miagolare.
Amico, ti terrò informato.

16 giugno 2012


(inedita)


venerdì 25 ottobre 2013

Luigi Manzi

PRESAGIO

Il geco, la vipera, il falco sul combusto
altopiano. Il tabacco giace arricciato
sopra i teli di canapa. Ti parlo, anche se tu non ascolti
mentre ti muovi in silenzio sui colli
abrasi, senz’uve.

– L’afa occlude la bocca,
come un sasso. Nella radura il traliccio girevole
dell’acquedotto
pende sulla vasca in frantumi – Ma già il ramo fulvo
che sporge dal petto dell’acero è il presagio
del tempo futuro. Così io mi rivedo nell’arbusto costretto
nell’interstizio del muro: ultimo rifugio
dove l’arida radica
si nutre di tufo.

Da Fuorivia, Edizioni Ensemble, 2013


mercoledì 23 ottobre 2013

Alessandro Contadini

LA NAUSEA DI UN VIAGGIO

La nausea di un viaggio
con la sera blu che si srotola
lieve dietro il vetro. Una bocca
schiacciata contro un pensiero
nei millenni fa di un istante... 
Che conta? Ecco un paesaggio: 
gobbe di prati e mulini 
alberi che giravoltano ballerini 
sotto una scia d’aeroplano 
tra spume di nuvole… lacrima 
che goccia a rallenty 
sul Volto d’Addio. Quelle labbra 
contro le mie. E là in mezzo: 
il vetro e la partenza. I millenni fa
di un istante. Ecco: ancora 
un viaggio e questa nausea 
blu- incredibile… lei distesa
più sola (forse dorme) sul sofà.

(inedita)

lunedì 21 ottobre 2013

Nicola Dal Falco

ARTE REGIA

ricuoce e spurga il vecchio muro, ronzante
d’api o d’acque, secondo le stagioni che
s’arruffano tra loro, spedendo giorni torridi
e fruscianti, molti mesi, a caso;

si tiene in spalla il melo sul suo zoccolo d’argilla
e un resto d’orto, bruciato, a pomodori e verze; 
a volte, rimane affacciato un cane, ma senza
dar di voce, solo spaziando con il naso l’orizzonte;

anche i pensieri s’acquietano sotto quel muro
che quasi abbraccia la finestra, da dove
volano parole grosse, stampatello,
nomi di zolfi e mercuri, inseguendo la sirena 
che, schiva, nuota lungo la marina

(inedita)

venerdì 18 ottobre 2013

Gerard Manley Hopkins

PER R. B.

Il sottile piacere che genera pensiero: il forte
sprone, vivo e tagliente come fiamma soffiata,      
soffia una volta eppure, prima spento che acceso,
lascia la mente gravida di un canto immortale.

Per nove mesi, anzi no, anni, per nove anni, tanto
a lungo dentro sé lo porta, sopporta, pettina e cura:
e se del perso intuito essa vedova vive, però il fine
le è noto ora e la mano lavora senza errore.

Il dolce fuoco, sire della musa, alla mia anima 
serve; io voglio l’ebbrezza unica di un’ispirazione.
Oh ma se dei miei versi in ritardo tu perdi                       

il flusso, il frullo, il canto e la creazione,
il mio mondo invernale, che respira appena quella gioia
ora, con un sospiro cede a darti la nostra spiegazione.                 

(1889)

Traduzione di Francesco Dalessandro

da The Poems of Gerard Manley Hopkins, Oxford University Press, 1970



mercoledì 16 ottobre 2013

George Gordon Byron

TU NON SEI FALSA, PERÒ SEI VOLUBILE

Tu non sei falsa, però sei volubile
con chi cercasti con fare amorevole;
le lacrime che tu costringi a piangere
questo pensiero fa due volte amare:
si spezza il cuore da te rattristato
perché bene l’amasti ma presto l’hai lasciato.

Disprezza il cuore chi è solo bugiardo,
e disdegna l’inganno e chi inganna;
ma colei che non cela il suo pensiero
e sente amor quanto dolce sincero, 
quando cambia chi amò sinceramente
prova ciò che ho provato anch’io recentemente.

Sognare gioia ma svegliarsi in pena:
la sorte di chi è vivo e innamorato;
e se, presa coscienza del domani,
non perdoniamo quelle fantasie
nate nel sonno che tesero inganni 
perché fosse più sola l’anima al suo risveglio,

chi non si scalda a una falsa visione
ma alla più vera e tenera passione –
che è sincera ma rapida trascorre 
triste, incanto d’un sogno – cosa prova? 
Ah, il dolore è una trama d’illusioni, 
com’è soltanto un sogno che tu possa cambiare. 

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Il sogno e altri pezzi domestici, Il Labirinto, 2008