venerdì 28 settembre 2012

Rodolfo Di Biasio


POEMETTO DEI NAUFRAGI E DELLE ROTTAMAZIONI

«Naviga. Verso dove ci è dato di navigare?»
                        A. Puskin

1

È un aspro mare
questo che batte la riva e la disfa
la disperazione del mare
consegna ancora
a noi
i suoi morti di un giorno

2

Il mare
ha oggi per me questa voce 
– voce d’alghe – 

Il sole e l’azzurto
non disperdono dentro
l’ossessione delle acque
e nella remotezza del cielo
si muta in nero di pece
la luce dei voli

3

Un tempo cupo
il cupo tempo delle rottamazioni:
poco importa
se di uomini o cose

Un tempo d’alghe ci incalza


NOTA. «Non so quanto abbiamo viaggiato. Quello che so è che la mia era una delle quattro o cinque barche sulle quali ci eravamo imbarcati in molti. Solo la mia è arrivata a destinazione: non so cosa sia stato degli altri. So solo che, nel Mediterraneo, a un certo punto, abbiamo visto tanti cadaveri in mare». Storia di Daniel, MSF News, 3, 2003


Da Poemetti elementari, Il Labirinto, 2008

mercoledì 26 settembre 2012

Salvatore Ritrovato


TRAUMDEUTUNG

Balza una lepre bianca all’alba
nell’ombra della mente
e un’altra nella scia, serica,
quasi fosforescente, vi s’infratta,
un’altra preme dietro,
una emerge, a un lembo la trattiene
la seguente, e presto un’onda
soffice la inghiotte, lentamente.
Così sogno di sognare e di morire
sveglio, ad occhi aperti,
nella fede di chi non crede
e la vita prende per vera. 

Da Via della Pesa, Book, 2003

lunedì 24 settembre 2012

Tommaso Campanella


DELLA PLEBE

Il popolo è una bestia varia e grossa,
ch’ignora le sue forze; e però stassi
a pesi e botte di legni e di sassi,
guidato da un fanciul che non ha possa,

ch’egli potria disfar con una scossa:
ma lo teme e lo serve a tutti spassi.
Né sa quanto è temuto, ché i bombassi
fanno un incanto, che i sensi gli ingrossa.

Cosa stupenda! e’ s’appicca e imprigiona
con le man proprie, e si dà morte e guerra
per un carlin di quanti egli al re dona.

Tutto è suo quanto sta fra cielo e terra,
ma nol conosce; e, se qualche persona
di ciò l’avvisa, e’ l’uccide ed atterra.

Da Poesie, a cura di Giovanni Gentile, Sansoni, 1938

venerdì 21 settembre 2012

Domenico Ludovici


La poesia che segue, La doccia, composta da una serie di tre sonetti (in qualche punto certo audaci, ma mi auguro che nessuno se ne dispiaccia), è tratta dai Sonetti del nostro adulterio di Domenico Ludovici. Alla fine della stessa, i lettori di questo blog troveranno, eccezionalmente, una lunga notizia. Se avranno la pazienza di leggerla, conosceranno una vicenda perlomeno curiosa e apprenderanno qualcosa sull’identità dell’autore oggi ospitato.


LA DOCCIA

I

quando tua madre ha detto «sta facendo
la doccia» m’è venuto in mente Giove
che trasformato in pioggia d’oro piove
su Danae e la possiede ma salendo

a tempi più vicini trasvolando
millenni di realtà e di desideri
mi sono ricordato alcuni versi
di una bella canzone e canticchiando

«vorrei essere l’acqua della doccia
che fai» ho immaginato di colarti
sui capelli sul viso sulle braccia

di scivolare dalle spalle ai seni
e di scendere lento – fino a darti
un brivido – sul ventre e sulle reni

II

avvolgendoti tutta ho sospirato
di scenderti impaziente sulle anche
aguzze e brune sulle membra stanche
da me rigenerate ed arrivato

nell’incavo delle tue cosce bianche
penetrare freschissimo nel fuoco
della tua fica, amore, e poco a poco
evaporare goccia a goccia «anche

se vuol dire morirne avrò raggiunto
lo scopo della vita: morirò
senza rimpianti» mi son detto giunto

a quella conclusione – ma anche altro
dopo l’acqua ho capito che potrò
essere per avvolgerti: cos’altro?

III

sarò l’accappatoio che ti avvolge
soffice la sua spugna colorata
morbido stringerò la carne amata
e asciugandola forse certe voglie

appagherò perché ti terrò stretta
sui seni e intorno ai fianchi sulle spalle
forti sulle anche aguzze sulla pelle
sentirò la tua febbre: schiena eretta

gambe robuste braccia forti ventre
languido t’avrò tutta finché quando
mi lascerai per terra indifferente

sarò il lenzuolo che stropiccerai
dormendo inquieta o forse rigirandoti
insonne e insoddisfatta perché avrai

voglia di me che non dormo sognandoti

(inedita)



NOTIZIA

Già il 21 ottobre dell’anno scorso, avevo pubblicato una serie di tre sonetti, intitolata Compianto, aggiungendovi una breve nota esplicativa sull’autore, che qui non ripeto (e più sotto se ne comprenderà il perché).

Qualche giorno fa, ho ricevuto un lungo commento a quel post da parte dell’autore della poesia. La cosa mi ha incuriosito e immediatamente sorpreso: il perché ognuno potrà intuirlo leggendolo, qui sotto. Infatti, mi è sembrato giusto non lasciarlo solo a margine di quella vecchia pagina e dunque di riproporlo ai lettori di “Poesie senza pari”. Ho perciò deciso di ripubblicarlo qui (tagliandone solo le righe finali che molto gratificano me e la mia poesia, ma poco interesserebbero ai lettori), di seguito alla poesia. Prima, però, devo a Ludovici una spiegazione sul come, grazie a Severino Fonte, scomparso di recente, conobbi il suo dattiloscritto.
Severino, fra le molte cose cui si dedicava, era consulente e lettore per una piccola casa editrice e in quella veste, diversi anni fa, ebbe tra le mani il dattiloscritto del libro di Ludovici, Sonetti del nostro adulterio. Ecco quel che mi scrisse, spedendomi il dattiloscritto: «Domenico Ludovici è uno pseudonimo. Era il nome di un erudito gesuita d’inizio Settecento (mai sentito? pare fosse un tuo compaesano), del quale si può leggere ne Le vite degli illustri aquilani di Alfonso Dragonetti; scrisse anche carmi in latino a imitazione di Tibullo, nei quali però, commenta Dragonetti, “indarno vi cercherete la dolce anima e l’ardente affetto del cantore di Delia”). Nessuno conosce la sua vera identità. L’editore è convinto che sia uno stimato professionista (avvocato? notaio?) operante fra l’Aquila e Roma. Il mio parere è stato favorevole alla pubblicazione (suggerendo solo di modificare il titolo), nonostante il linguaggio piuttosto spinto, al limite della pornografia, se non fosse riscattato dalla delicatezza del tono e dalla sincerità della passione; ma l’editore all’ultimo momento ha avuto paura. Leggi un po’ tu e dimmi che ne pensi. P.S.: ho cercato di rintracciare l’autore, scrivendo alla casella postale che c’era sul dattiloscritto, ma la lettera m’è tornata indietro». Lessi, e restai un po’ sconcertato anch’io dalla crudezza del linguaggio, ma anche affascinato, perché le poesie mi sembrarono delicate, addirittura tenere e forse anche ingenue, a momenti. Glielo scrissi e la cosa finì lì. Dopo la sua scomparsa, quel dattiloscritto mi è tornato tra le mani e l’ho riletto. Rimuginando sulla stranezza della vicenda, ho cominciato a chiedermi se non fosse possibile che sotto lo pseudonimo di Domenico Ludovici si celasse il mio amico stesso; cosa davvero sorprendente, perché – non l’ho ancora detto – Severino Fonte era un sacerdote, ma troppe erano le coincidenze: lo pseudonimo, lo strano riferimento al gesuita del Sei-Settecento venuto fuori non si sa come, la casella postale non più attiva... Comunque, decisi di scegliere una poesia e di pubblicarla, come omaggio al mio amico. Il libro, come dice il titolo, è un breve canzoniere d’amore (rifacimento novecentesco di un qualunque petrarchista del Cinquecento, o moderno e più attuale riferimento ai bei sonetti di Berryman?) su un adulterio e termina con la morte prematura della donna che lo ispirò. Evitando le poesie più esplicite, scelsi l’ultima, un Compianto sulla scomparsa della donna, e la misi sul blog il 21 ottobre dell’anno scorso. Aggiunsi una nota che riproduce quasi alla lettera il biglietto del mio amico, precisando che pubblicavo senza l’autorizzazione dell’autore perché impossibilitato a contattarlo. Questa è la storia. Perciò immaginatevi la mia sospresa leggendo il commento al post. In un colpo solo ho scoperto che Severino aveva torto a pensare – chissà? forse immaginando che l’autore non si sarebbe esposto a un riconoscimento, data la materia – che Domenico Ludovici fosse uno pseudonimo, che perciò quel gesuita non c’entrava niente; e che avevo torto anch’io a credere la storia una bella invenzione dello stesso Severino. Ma ecco ora il commento di Ludovici.

« Solo da poco, per una serie di (fortunate) circostanze, ho scoperto l’esistenza di questo blog e del particolare che una mia poesia vi era pubblicata. Ho letto divertito la nota che l’accompagna. Divertito perché essa, almeno per la prima metà, è assolutamente priva di fontamento. Tuttavia, essendo stata scritta assolutamente in buona fede, merita una spiegazione.
La convinzione del curatore del blog che il mio nome, Domenico Ludovici, sia uno pseudonimo, si deve – in assoluta buona fede, ma non senza supponenza – a Severino Fonte. Immagino che nascesse dal fatto che, nelle poche righe con le quali accompagnavo il dattiloscritto dei miei Sonetti del nostro adulterio (titolo che ritenevo assolutamente provvisorio), ormai più di venti anni fa, manifestavo l’intenzione di pubblicarlo sotto pseudonimo, per preservare la privacy dei protagonisti (cosa ormai non più necessaria). Firmavo, però, col mio vero nome. Evidentemente, Fonte e l’editore stesso fraintesero, pensando che quello fosse già lo pseudonimo. Nessuno dei due credette necessario accertare quell’identità (sarebbe bastato davvero poco: vivo all’Aquila da sempre – ma sarebbe più giusto dire: vivevo, perché il terremoto mi ha lasciato ormai senza casa e senza le cose che vi erano raccolte; prime fra tutte, i libri – esercitando, ancora per poco, l’avvocatura e occupandomi sporadicamente di politica); quando poi la pubblicazione fu rifiutata, la cosa divenne superflua. Ma Severino Fonte si ricordò di quel gesuita d’inizio Settecento (invero, un antenato della mia famiglia) e, sembrandogli d’aver scoperto l’origine dello pseudonimo, ne informò Francesco Dalessandro inviandogli il dattiloscritto, stimato degno di lettura. Questo lo scopro ora, perché, per la verità, avevo sempre creduto che la bocciatura fosse dovuta anche a lui (oltre che letterato acuto e attento, il Fonte era prima di tutto un sacerdote), mentre fu solo l’editore (adesso è certo) a ritrarsi spaventato. Sebbene troppo in ritardo perché possa riceverle, porgo al Fonte le mie scuse, lusingato che ritenesse il libro degna opera di poesia, e ancor più lusingato che lo stesso giudizio sia stato espresso, implicitamente, da Dalessandro. [...] ». Domenico Ludovici



mercoledì 19 settembre 2012

Derek Walcott


STELLA

Se, alla luce delle cose, tu scolori
davvero, eppure debolmente sottratta
alla nostra determinata e giusta
distanza, come la luna lasciata accesa
tutta la notte tra le foglie, possa
tu invisibilmente allietare questa casa;
o stella, doppiamente compassionevole, venuta
troppo presto per il crepuscolo, troppo tardi
per l’alba, possa la tua pallida fiamma
dirigere il peggio in noi
attraverso il caos
con la passione del
semplice giorno.


Traduzione di Barbara Bianchi

Da Mappa del Nuovo Mondo, Adelphi, 1992

lunedì 17 settembre 2012

Carlos Marzal


NON MUOIONO MAI I MOSTRI

                                    A Felipe Benítez

Non muoiono mai i mostri.

Se credi che indietreggino, che sembrino
aver dimenticato la traccia dei tuoi giorni,
i tuoi luoghi sacri, le tue routine,
il bosco sconfinato dei tuoi sogni;
se sorridi, perché più non ricordi
l’ultima notte in cui ti tormentarono,
sii pur sicuro che ti cercheranno,
sii pur sicuro che ti troveranno.

E allora calcheranno la terra che hai calcato,
ti incendieranno il bosco, gli darai appuntamento
nel loro stesso letto, giocheranno
con le tue carte, berrai al loro bicchiere,
sognando per te incredibili castighi.

Non muoiono mai i mostri.
Dentro di te viaggiano, sempre tornano.
Sono i passi che ascolti
nel cadente solaio della coscienza,
lo stridio della rete di due che scopano
nella stanza contigua dove non c’è nessuno.
I mostri sono le ombre cinesi che proietta
sulla parete un demonio insonne,
o il selvaggio aleggiare di un uccello invisibile
in un cofano chiuso; la chiamata
in piena notte senza una risposta,
è il respiro del mostro
che si sente, ansimante, all’altro lato.
Sono il centro dell’occhio
che non può dormire
perché è privo di palpebra.

Passa il tempo, si perde,
marcisce la memoria,
uno scorticatoio sotto di noi.
L’amore si consuma a opera del suo fuoco.
I segreti alla fine si tradiscono,
cede la febbre, il sole declina,
in noi muore la gioia di chi fummo,
muore senza saperlo quel che siamo.
Ma i mostri no.
Non muoiono mai i mostri.

Traduzione di Emilio Coco

Da Poeti spagnoli contemporanei, Edizioni dell’Orso, 2008

venerdì 14 settembre 2012

Herman Melville


PRESENTIMENTI

Quando vedo le nubi atre dell’oceano addensarsi
sulle colline dell’interno e stendersi infuriando
nel bruno del tardo autunno, e la valle
fradicia rabbrividire d’orrore
e il campanile precipitare di schianto sulla città
allora penso ai cupi mali della mia terra
la tempesta che esplode dal deserto del tempo
sulla speranza più luminosa del mondo avvinta
al crimine più orrendo dell’uomo.
Adesso il lato oscuro della natura si staglia
e l’ottimismo sgomento si è dissolto
nemmeno per un bambino ha misteri il cupo ciglio
di quella montagna nera, solitaria.
I torrenti precipitano dalle gole urlando
e nuove tempeste si addensano dietro alla tempesta presente:
l’abete trema e si scuote nella trave
la quercia nella chiglia che solca.

Traduzione di Roberto Mussapi

Da Poesie di guerra e di mare, Oscar Mondadori, 1984

mercoledì 12 settembre 2012

Alessandro Ricci


IL LAGO DI COSTANZA

I due cavalieri incapparono
senza sapersi nella groàna rimescolata
dalla pioggia, il lago di Costanza
intravisto nell’uragano, chi dalla Magna
venendo e chi dalla terra degli Ungari,
senza conoscere né perché né dove
andassero galoppando da settimane,
maledetti da satana e cristo,
morsi dalla memoria 
in quella pasqua omicida.
                                              S’incrociarono
per mai più vedersi in uno scopeto
dove la bufera faceva tinnire
le canne e impantanare i cavalli,
ma ognuno capì di quel momento
gli occhi ardenti dell’altro
nella celata, e gridò un saluto d’amore
e disperazione nella sua lingua, tra il fumo
delle bestie e i tonfi nella gora,
perché si esaudisse.
                                    Poi ancora
la corsa fradicia senza meta
e senza girarsi, più forte
sentendo il cuore nella corazza,
quel cuore caìno
e assurdo, e il rimorso di castella
e dame e l’affettuosa concordia
degli alberi in remotissime primavere,
finché riapparve il lago,
immenso nella tempesta,
e fu da solo.

Da Le segnalazioni mediante i fuochi, Piovan Editore, 1985

lunedì 10 settembre 2012

David Pujante


EPISTOLA CHE ANNUNCIA L’ARRIVO
DI UN GIOVANE APPRENDISTA POETA

Quando Erone verrà, per Zeus, non lo respingere;
gli dèi stessi t’inviano l’allievo.
Portalo a spasso per tutta la città;
mostragli i vecchi porti attici e, sedendo,
sui loro banchi, le barche sotto la luna;
alimenta i suoi sogni giovanili,
tu che sei vecchio e conosci la vita
e quanto poco dia se non la forzi.
Portalo alle rovine delle mura
e narragli la storia, anzi inventala
(la menzogna s’addice alla poesia)
guardando brillare i suoi occhi
accesi dal verbo della tua eloquenza.
Chi ogni notte ti vede
deambulare solitario, t’invidi
oggi per quella compagnia.
E a casa, quando infine sarete soli…
fagli incarnare i versi di Stratone!

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da La propia vida, Editora Regional de Murcia, 1986 



venerdì 7 settembre 2012

John Keats


I DUE SONETTI “SULLA FAMA”

I

La fama è volubile, restia con chi si mette
al suo servizio e prono la corteggia, 
però cede a un qualunque adolescente                              
senza cervello, o smania per un cuore 
che non sente. È una zingara: a chi senza
di lei non sa stare non dà retta. 
Sussurrarle all’orecchio non vale,
parlarne è calunniarla: è una civetta;
vera zingara del Nilo, è cognata
del geloso Putifarre. Voi poeti innamorati
ripagatela con lo stesso disprezzo; 
e voi artisti delusi – pazzi che siete! –  
fatele un bell’inchino, ditele addio:
se ne avrà voglia, vi verrà lei dietro.


II

                                                        Non puoi mangiare la torta e conservarla.
                                                          Proverbio

Lo divora la febbre chi non può guardare 
i giorni mortali con distacco, i fogli
del libro della vita sciupa e spoglia
di virtù il nome; è come se la rosa
si cogliesse da sola o la prugna matura 
palpasse la pruina che la copre, 
o una naiade, elfo di sé importuno, 
la chiara grotta abbuiasse col fango. 
La rosa intatta se ne sta sul rovo, 
cibo per le api, baciata dai venti, 
la prugna si offre ancora in veste scura,
il lago quieto è di cristallo. L’uomo
che per questa grazia affligge il mondo, 
non si danna a una cocente delusione? 


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Poetical Works, edited by H. W. Garrod, Oxford University Press, 1972


mercoledì 5 settembre 2012

Kenneth Rexroth


HABEAS CORPUS

Tu hai il corpo, ossa e sangue,
peli e denti, unghie e occhi.
Tu hai il corpo – la pelle tesa
alla luce lunare, il mare che erode
i monti vuoti, il pelo
sul corpo elastico, eretto…
Un vento umido di pioggia
batte e sferza spighe d’orzo
e il lampo per un attimo
infiamma l’aria, poi svanisce;
e io ti dico che la memoria
della carne è reale come carne viva,
pietra che cade, fuoco che brucia…
Tu hai il corpo e il solare
broccato bruno e rosa nudo
corpo sposato, l’eterno suo
sangue che attende il verme e la sua ora.

Traduzione di Francesco Dalessandro


Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003





lunedì 3 settembre 2012

Isabella Leardini


IN OGNI CORSA, OGNI IMPENNATA DELLA VITA

In ogni corsa, ogni impennata della vita
mi sei mancato e mi manchi per anni.
Nell’uscire verso il bar delle mattine
tutte le mattine uguali dell’inverno
cercarti, come un gioco per sperare...
Ad ogni cambio di stagione, ad ogni svolta
degli occhi e dell'età non ti ho più perso...
Ti tengo per l’estate quando salgo
nei miei golfi di buio e quando torno
di notte verso casa e fino a quando
non passo il punto esatto in cui le ruote
incrociano le mie con le tue strade,
finché c’è ancora modo di incontrarti
non è finito il giorno. 

Da La coinquilina scalza, La Vita Felice, 2004