venerdì 29 giugno 2012

Stefania Portaccio


non metto a fuoco

se non all’alba
nel crepitio del lino ereditato
nel lino fragrante, bruciante

avrei dovuto incendiare la casa
e nella pira
le bottigliette di vetro e argento
che sulla toletta della nonna
frangevano la luce meridiana

all’alba m’inalbera un rancore
vado minando la mia terra invasa
vendicando il sopruso

fare tabula rasa
assoldare dei bravi
farla infine pagare

è l’ora, m’alzo – il buon senso gracchia
il suo comando di non guardare indietro
non mettere a fuoco
piuttosto tirare lo sciacquone
assicurarsi del gorgo
accontentarsi dell’acqua

Da La mattina dopo, Passigli, 2011




mercoledì 27 giugno 2012

Jaime Gil De Biedma


DE VITA BEATA

In un vecchio paese inefficiente,
come la Spagna tra due guerre
civili, in un villaggio sul mare,
possedere una casa e un po’ di terra
e nessuna memoria. Non leggere,
non soffrire, non scrivere, non pagare conti,
vivere come un nobile in rovina
tra le rovine della mia intelligenza.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Antología Poética, Alianza Editorial, Madrid, 1990

lunedì 25 giugno 2012

Isaac Rosenberg


NOTTURNO


Il giorno come un fiore d’oro scolora sul suo letto cremisi;
poiché la notte dalle molte stanze si schiude a serrarne la dolcezza;
da cielo e terra stretti insieme si spande una quiete opprimente,
da una coppa ricolma bevono i nostri cuori l’oscuro splendore.


Poiché il fiato sospeso della bellezza fa rabbrividire le sacre caverne della notte,
venti celesti calano dolcemente luccicando e mani misteriose accarezzano
le nostre pallide fronti con l’estasi rinfrescante della tenue luce stellare
stillante dalle azzurre pareti della notte in veli d’infinito incanto.


Traduzione di Francesco Dalessandro



da The Collected Works of Isaac Rosenberg, Chatto and Windus, London, 1984

venerdì 22 giugno 2012

Luigi Amendola


POESIA
a Maria Luisa Spaziani

Talvolta in disparte ripasso
il galateo per esserti al fianco
non più evanescente,
ma certo nell’assillo quotidiano,
custode persino al tramestìo
che lèvi dagli ostinati
folletti della borsa,
in fuga disarmonica ogni volta.

Sono dunque il tuo chiassoso angelo
in sosta sopra una cimasa azzurra,
dopo un volo nel deserto?

Non so, potrò dirtelo forse
il giorno in cui,
a un qualsiasi appuntamento
di fronte al Mascherone umido,
egli mi soffierà stizzoso, dicendo:
“Fatti più in là,
opaca entità, mio bell’intruso;
lasciami in vista la pensosa signora
che sempre, all’alba,
dal civico sessantotto
attraversa la strada per sfiorarmi il petto
o carezzare un ricciolo d’ortica
e intanto, con lo sguardo,
mi sussurra il nuovo della vita,
mi saluta, chiara in viso,
con un perfetto endecasillabo”.

22 maggio 1997


(inedita)

mercoledì 20 giugno 2012

Derek Walcott


PRELUDIO

Io, con le gambe incrociate alla luce del giorno, guardo
I pugni variegati di nuvole che si raccolgono sopra
GIi sgraziati lineamenti di questa mia isola prona.

Intanto i piroscafi che dividono orizzonti dichiarano
Noi perduti;
Trovati solo
In opuscoli turistici, dietro ardenti binocoli;
Trovati nel riflesso blu di occhi
Che hanno conosciuto metropoli e ci credono felici, qui.

Il tempo striscia sui pazienti che da troppo sono pazienti,
Così io, che ho fatto una scelta,
Scopro che la mia fanciullezza se n’è andata.

E la mia vita, troppo. presto, certo, per la profonda sigaretta,
La maniglia girata, il coltello che rigira
Nelle viscere delle ore, non deve essere resa pubblica
Finché non ho imparato a soffrire
In accurati giambi.

Vado, certo, attraverso tutti gli atti isolati,
Faccio di situazioni una vacanza,
Mi aggiusto la cravatta e fisso mascelle importanti,
E noto le vive immagini
Di carne che passeggiano per l’occhio.

Finché da tutto mi allontano per pensare come,
Nel mezzo del cammin della mia vita,
Oh come giunsi a incontrare te, mio
Riluttante leopardo dai lenti occhi.

(1948)

Traduzione di Barbara Bianchi

Da Mappa del Nuovo Mondo, Adelphi, 1992

lunedì 18 giugno 2012

Torquato Tasso


AMINTA

Atto secondo, Scena seconda, vv. 180-189

È spacciato un amante rispettoso:
consiglia ’l pur che faccia altro mestiero,
poi ch’egli è tal. Chi imparar vuol d’amare,
disimpari il rispetto: osi, domandi,
solleciti, importuni, al fine involi;
e se questo non basta, anco rapisca.
Or non sai tu com’è fatta la donna?
Fugge e fuggendo vuol ch’altri la giunga;
niega e niegando vuol ch’altri si toglia;
pugna e pugnando vuol ch’altri la vinca.

Da Poesie, a cura di Francesco Flora, Riccardo Ricciardi Editore, 1952





venerdì 15 giugno 2012

Francisco Brines


AUTOELEGIA E UN’OMBRA


Al chiaro della sabbia
nudo è il suo corpo ancora,
quando due altri astri sono gli occhi.
Un corpo sconosciuto, poi calore,
adesso che con pigri movimenti
ho raccolto gli indumenti caduti
sotto l’ombra del pino,
i bianchi indumenti dimenticati.
Nella sera già fredda,
con compiaciuto ardore e con tristezza,
vestiamo i nostri corpi,
con ancora le labbra sulla carne
tra il risuonare stanco delle onde.


Quando appare la luce e già ferisce,
ritorna alla città
la nostra bella e afflitta giovinezza.


Traduzione di Emilio Coco


Da Poeti spagnoli contemporanei, Edizioni dell’Orso, 2008

mercoledì 13 giugno 2012

Maria Luisa Vezzali


IL SORRISO NERO


                                    a Maria




c’è un sole pallido di biancospino
ma sulla pelle non si sente il gelo
luce glaciale la trasforma in specchio
come a spiegare l’ansa del respiro


non sono più una torre bianca
che il lampo squarci dalla feritoia
non sono più fermata obbligatoria
alla stazione di Ferrara


né la padrona del cinema a Bengasi
piuttosto qualche stanza al primo piano
sul lato lungo del cortile
se l’interno è in disordine è perché


non c’è più obbligo alla saggezza
è per quell’affastellarsi di cose
senza gerarchia tutto uguale cura
affetto distratto leggero


come quando si sa che viene presto partire
porto del canto che non ha più oggetto




 *




la finestra di sala è sempre aperta
non ho più niente da tenere fuori
e la luce mi serve a rammendare
a riconoscere le facce


nelle fotografie così lontane
a non restare abbacinata
da quell’avvicinarsi
arso termine di tutti i rancori


rammentare dovrei almeno i nomi
della gente in sosta nelle cornici
ma nell’orecchio ho piuttosto le voci
che cantavano presto alla mattina


roteano i nomi lungo le pareti
al centro della sala fermo un tavolo
nero lucido come le scarpe di tuo nonno
quando usciva a cercare la spagnola


le lucidavo al davanzale
ancora dodici anni fa l’ultima volta


*


occhi azzurri la mia sola eredità
insieme a quell’anello che non togli
e porti al medio di fianco alla fede
sigillo d’altra segreta fedeltà


quel poco che ho sognato
fiocca tra i pollini nel raggio
tre figli quattro con i piani abortiti
cinque con i miei cappelli della festa


e l’illusione che la mia bellezza
sarebbe pur servita a qualcosa
a qualcuno alla grandine di riso
traboccata nera al lato del petto


occhi azzurri non un lascito da niente
se è anche grazie a me che ti hanno amato


 *


c’è chi ama con violenza
per bisogno o dovere
e c’è chi ama andandosene
ma tu mi hai amato giocando


a briscola con me di pomeriggio
mentre tutto di fuori urlava
sui rami dei castagni
e nel cortiletto ai fili dell’enel


si impigliavano le note delle radio
serravi allora la finestra
davi le carte lentamente
e una partita ogni tre


lasciavi che vincessi
per tentarmi a sorridere
reciproco segreto
sul lucido del tavolo


rovesciato nero riflesso
ma pur sempre sorriso


dicembre 2007 

lunedì 11 giugno 2012

Dario Bellezza





LA TUA NONNA TANTO SIMILE ALLA MIA

La tua nonna tanto simile alla mia, innocente
creatura riuscita con splendore a diventare
nonna, viveva con tua madre in una casa
modesta ma lieta e allegra dove tu non trovavi
lo spazio immaginario per scorribande nel mondo
che di anno in anno cambia usi e costumi
per la irrequieta gioventù psichedelica
drogata non più di vino e politica, come
la mia, ma di sesso ed eroina, già ai quindici,
sedici anni, e fortuna vuole che le strade
della vita ci abbiano riunito per un attimo
in quella casa solare dove tua nonna, come la mia,
tristemente disse addio morendo a figli e nipoti
poco dopo l’invito-merenda fatto a me
pregustando una buona torta di cui qualche fetta
sbocconcellai. Tutte le nonne si rassomigliano, forse,
non ho molta conoscenza dell’universo
nonnesco, ma se sono nonne fino in fondo,
con la favola di «Cappuccetto rosso» ad allietare
le nostre infanzie terrene, prima di sconfinare
in collegi o strade affamate di droga o manifestazioni
contro il fascismo, quello di ritorno, il nuovo
fascismo che imbratta i muri con scritte naziste
di violenza o fa saltare i treni rapidi nelle gallerie.
Se sono nonne fino in fondo vanno ringraziate,
mangiando una fetta di torta, anche se tu eri
troppo ragazzo per capire che trangugiandola,
esaudivo un piccolo demone del ricordo, ritrovando
la mia vecchia dolcissima nonna. Ritornammo a casa
in vena di confidenze; ed io ti raccontai la lugubre
storia della fine mortale di mia nonna, sola, accampata
nello strazio di essere stata abbandonata da tutti, e ancora
il rimorso la notte nel sogno mi visita e mi sveglia
per punizione che nessuna espiazione potrà cancellare
oltre l’inferno canagliesco dell’immaginazione.

Da Morte segreta, Garzanti, 1976





venerdì 8 giugno 2012

Pere Gimferrer


APPARIZIONI

II

Se il cielo grida e senti che ti chiama
con un grido d’abisso, se ti attira
in alto, nel profondo, dov’è più oscura
la chioma di neve degli astri o il gelo
a squame della notte, o se tu stesso
gridi ancora più forte e non ti stanchi
d’ascoltare la tua voce, sgradevole
come all’udito debole di un sordo,
o insidiosa e nuda come l’acqua
ferita dai bagliori della falce lunare;                                  
se ti chiamano al centro di te stesso
e in quel chiamarti trovi un centro;
se, nodo di luce, appari a te stesso;
se interiore è il richiamo, guardando
in te vedrai il sogno che ho sognato
stanotte? Ma vedere non è la parola.
Non lo vedevo: ero io stesso il sogno.
Non è che mi vedessi, ma era essere
qualcosa che esisteva e che ero io.
Perché il tema delle apparizioni
è il tema dell’io. Però in quel caso
non vedevo una concreta identità:
non m’appariva alcuna immagine.
Non c’era sdoppiamento, né sguardo.
Era la vita in negativo, stato nullo,
il silenzio del fiume disseccato,
la chiarità del cielo che spoglio d’azzurro
è sempre cielo: un fulgore invisibile,
sentito come vuoto di visibilità.
Come il letto di un fiume: terra, pietra,
quiete di devastata aridità,
ramo, verde rancore che è fuggito
dal mondo vegetale, umidità
bevute dal deserto. Cambia la luce
e, guarda, tutto è roccia, polverio
famelico: per questo esiste l’acqua.
È un’assenza, violenta come il sole,
pietrificata, che non scorre, ferro
incrostato d’immobilità, acqua
libera d’acqua che pesa nel letto
del fiume, o il rumore dell’acqua
che non scorre in questo fiume secco.

Traduzione di Francesco Dalessandro


Da Espejo, espacio y apariciones, Visor Poesia, 1988

Questa è la seconda parte del poemetto Apparizioni, del 1978, composto di otto parti.

mercoledì 6 giugno 2012

Torquato Tasso


IL RE TORRISMONDO
Coro dell’Atto Quinto

Ahi lacrime, ahi dolore:
passa la vita, si dilegua e fugge
come gel che si strugge.

Ogni altezza s’inchina, e sparge a terra
ogni fermo sostegno,
ogni possente regno
in pace cadde al fin, se crebbe in guerra.

E come raggio il verno imbruna e muore
gloria d’altrui splendore;
e come alpestro e rapido torrente,
come acceso baleno
in notturno sereno,
come aura o fumo o come stral repente
volan le nostre fame, ed ogni onore
sembra languido fiore.

Che più si spera, o che s’attende omai?
dopo trionfo e palma
sol qui restano a l’alma
lutto, e lamento e lacrimosi lai.
Che più giova Amicizia o giova Amore?
Ahi lacrime, ahi dolore!


Da Poesie, a cura di Francesco Flora, Riccardo Ricciardi Editore, 1952


lunedì 4 giugno 2012

Catullo

Cenerai bene a casa mia, Fabbullo

Cenerai bene a casa mia, Fabbullo,
tra ’n par de giorni si dio vole e si
te porti dietro ’na gran bona cena,
senza dimenticà ’na bella sgrinfia
e vino e sale e un sacco de risate.
’Ste cose, bello mio, si te le porti,
l’aridico, cenerai bene: è che la borza
de Catullo tuo ha fatto ragnatele.
Ma ’n cambio troverai tutto l’amore
o ’na cosa si c’è più dorce e fina
che sarebbe n’unguento arigalato
a ’a mi’ regazza da Veneri e Cupidi,
che quanno tu l’odori preghi er celo
de fatte diventà, Fabbullo, un naso.




Traduzione di Ottavio Sforza

Da Vivemo, Lesbia mia, famo l’amore
e antri versi arivortati in romanesco
Edizioni Il Labirinto, 2008

venerdì 1 giugno 2012

Alberto Toni


DEMOCRAZIA


1.

Hai un’idea dei morti? Il bollettino dell’una dovrebbe già parlarne.
Vuoi che in un’ora li contino tutti?
Non lo riveleranno mai, credi a me, mai.
Uno almeno di quei bestioni lo avranno abbattuto?

                       Beppe Fenoglio, Primavera di bellezza




Mettiamo che qualcuno sorprenda
il volo degli uccelli, il cielo, stizzito,
stremato, come le altre cose, una
corazza, carcassa a tenere il giubilo,
la fine dell’offensiva.

All’inizio sembrava il colore più certo,
un cremisi, ma adunco nel becco, o
un opale come l’ala o una soltanto
delle due. Di sotto, la sciarpa al vento,
il berretto.

Una vittoria, nelle strade non c’era
più quell’odore di stantio, rimanevano
a braccia aperte, una protesta, un’idea
finalmente qui scriviamo la parola
buona.

La bontà dedicata all’eroe nell’atto
supremo, il figlio che ritrova il padre,
con lui scrive la legge, la ritaglia a
misura d’uomo, come non mai, una
fonte.

La legge scritta, ma prima ancora
quell’idea di proteggersi,  alla luce,
prima ancora sorreggersi e poi per
gli altri rimasti indietro nella truppa,
radi.

Nel fango, esterrefatti, andiamo
a raccoglierli, vuoi vedere la mia
giacca a brandelli e ciò che resta
come in un museo di solitudine
e di guerra?

A turno, la parola, da nord a sud
in assemblea, anche le madri, ciò
che resta in un giorno qualsiasi
in una primavera appena cominciata
e bella.

Pulire la strada, rassettare, prendere
la parola, perderla, dividere, tacere,
il tonfo, la gamba che fa male, ora
mi fermo e ascolto, ora che tutto è
deciso.

Quando scende la notte sui tetti e
tutto è fermo, lì non basta, non
serve, non altro spirito che fermare
la diaspora e scendere a patti in
ombra.

L’ombra, così che dai raccolti non
sembri imminente il dolore raccolto
in conversazioni interminabili. C’è
ancora tempo, anche il braccio fa
male.

E’ soltanto un’abrasione, la fronte
scotta, qualcuno è fuggito, difficile
riprenderlo, poco importa, succede
spesso e il cielo è livido, forse sa
di noi.

Qualcuno diceva che la salvezza
ha bisogno del fuoco, le madri
in gesti di stizza verso i soldati
che non capiscono. Dentro la
tenda il puzzo è insopportabile.

Urina e filamenti di tabacco,
tentennamenti un sonno che
non ha fine, senza sogni particolari,
la scala per il paradiso, a questo
nessuno ha pensato.

Il grido sulla collina, nessuno è
salito per guardare, potresti dirmi
quanto manca alla stazione, ai
collegamenti, agli incroci, prima
che sia tardi?

I cartelli lo dicono chiaro: qui
nessuno può pensare che la  divisione
dei compiti sia eludibile, si tratta di
mettersi d’accordo tra le lacrime degli esclusi e i
giochi solari dei bambini, quelli, sì, sono veri.

L’acqua scarseggia, allora qualcuno diceva
di tirare a sorte, ma i più non hanno risposto.
Vedi di non restare indietro con i conti, ne
va della sopravvivenza se vogliamo essere
credibili.

Bussa alla porta la carta
vincente. Domani ci spostiamo,
ma è l’assemblea in ultimo che
decide, i malati non saranno un
problema.

da Democrazia, La vita felice, 2011


Democrazia è un poemetto in cinque parti. Questa è la prima.