mercoledì 28 marzo 2012

Alessandro Ricci


IL VIAGGIO DA OVINDOLI AD ALESSANDRIA


Tre rossi cavalli nella
neve fumanti, borghetti
di pietra vizza, boschi
macri, punti greti, la
velocità frusciante del
pullman, i pali.
Un roseto ineguale uncina
nel diluvio i varchi e
reca finito il
giorno
in questa valle
che vi consente.
                              Sto
con te, più che vicino
nell’ora restante,
parlando di Mala Strana.

«Il Mediterraneo ad Alessandria
è viola e le palme rifanno il
vento del giorno prima
nell’altissima cima.
                                  Lassù
mare e deserto sono gli idoli
del cormorano, cui pesci e
locuste largiscono uomini
neri e piroscafi ardenti
nella foschia della rada.

Parole così dicevo al
lungomare fra le due e
le quattro, eternamente
solo con la matita e la
voce, declamando i versi
scritti in quei mesi
sui sedili bianchi
di pietra, mentr’ero
giovane.
                 Un giorno
l’attesa di ascolto ebbe la
risposta d’un arabo,
che aveva numerato
i miei graffiti fino al nido
delle mitraglie, dove soldati
gialli sfinivano nella sabbia.

Era per loro guerra e per me
la fine della passeggiata ch’era
stata forse la vita.

                                  Poi fu
un tramonto bellissimo, colmo
di odori, di voli bianchi che si
perdevano nell’azzurro, d’una sera
facile quanto morire, di
speranze volte in memorie, una
ad una come le luci
che s’accendevano sui minareti,
sui grandi alberghi, nel cielo
blu, e quelle erano
stelle».

Le parole che non rivelo
parlandoti, poiché questo
è alla fine, sono
di un altro viaggio, sono
quei vecchi versi, molti
dell’andata, pochissimi
del ritorno.

Ad Alessandria ci sono tornato,
rare volte ma in altri
luoghi, e sempre con la
voce negli occhi.
Per qualche attimo uno
specchio, un’eco che
non s’aspettava di me,
m’hanno aspettato.

Tu non puoi dirmi che il
sole in Africa non cala
presto, non puoi parlarmi
di una giornata che non
finisce, solo perch’io
vorrei credervi. Né puoi
guardarmi piegando la
testa da sotto in su, per
cercare lo sguardo
di un uomo cieco,
a cui basta a
finire il suono spietato
d’un motore che l’allontana.

È tardi. Vorrei toccarti,
si fa silenzio.

Poi torna la pazienza del
cittadino, la normalità della
carne che invecchia e non
si distingue, il poco prezzo
che adesso pagheresti
perché non sparisca dal
posto, come già sta
facendo.

T’ho guardato i capelli
come una cosa impossibile,
non ho mai scritto una
poesia d’amore,
questo è il mare che
s’esalava nella notte,
prima che la
prua della mia
nave in partenza
l’incidesse in solchi,
flutti, scie, infine
crespe leggere, andate a
perdersi fra gli ormeggi,
scivolando morbidamente
a riva, dove
cantavano i marinai,
sotto i fanaletti
colorati dei bar,
con la musica
nel bicchiere.


Inedita

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