lunedì 30 gennaio 2012

Stefania Portaccio


ABITO UN MONDO OPACO

Abito un mondo opaco
nuoto nelle brume del lago
delle lacrime

tu salvami, sollevami
grondante e paurosissima
fin dove sono solide le nuvole
e scotta il sole e guarisce
con le percosse della sua frusta d’oro
con gli aghi dei suoi dardi incandescenti

o salvami tu, agganciami
alla tua cinta e calami
in quella crepa fonda
che i miasmi mi droghino
e accechino i vapori
l’acido sciolga la coscienza ed io
àlteri il corso, cavalchi il dorso
della vita, muoia spellata
e rinasca trepida feconda ardita

Da Contraria pentecoste, I Quaderni del Battello Ebbro, 1996 

venerdì 27 gennaio 2012

Paola Febbraro


T’AVEVO DETTO

t’avevo detto che trovavo scortese parlare subito coi morti quelli che si sono dati la morte da soli cosa vuoi dire hai chiesto chiedevi ti rispondevo annaspando le mani nell’aria che chi se ne andava da solo voleva o doveva cessare un dialogo ne aveva bisogno ché in fondo quel dialogo torturava e quindi rivolgersi subito al morto era come continuare questa tortura non volersi rendere conto noi vivi di cosa era successo di cosa ancora accadeva tu credi hai detto ne sei proprio sicura dicevi

con gesto largo ti infili e ti sfili una giacca da uomo stai camminando con la testa in avanti inclinata in avanti i capelli come due piccole ali nere alle tempie avanzi di corsa con ampie falcate giraffe cercando di notte col muso nell’aria quel nero denso la faccia
sostanza

ed ora mi tappo le orecchie per non sentire le grida degli altri vicini
e ti piango

i polsi li ho già liberati

17 ottobre 1996

Da La rivoluzione è solo della terra, Manni, 2002

mercoledì 25 gennaio 2012

Pasquale Di Palmo


IL CIELO DI GENNAIO È COME IL CALCO

Il cielo di gennaio è come il calco
spettrale di una lastra biffata.
Lungo il sentiero che porta alla torre
rovesciata le foglie del salice
si stemperano nel grigiore
indistinto di quell’acquaforte
mancata. Curvo come uno di quei rami
si dondola nell’orto
lo spettro allampanato del vicino,
scoprendo sul viso di quarzo
una ragnatela di piccole rughe.
Sorvola la poiana il dosso
nel vento che sbuca dai casolari
diroccati di questa campagna che dirama
un leggero ventaglio di canali
con le movenze della lepre impazzita.
Il sole trapela a fior d’acqua
come il volto di un giovane annegato.

Da Marine e altri sortilegi, Il ponte del sale, 2006

lunedì 23 gennaio 2012

Domenico Adriano



Il 22 gennaio del 1990 moriva Giorgio Caproni. Vogliamo ricordarlo con questa poesia di Domenico Adriano.

UN INVERNO MALEDETTAMENTE

                                                ...in quest’ora tristissima tanto più
                                                tale mentre il sole di quest’inverno
                                                maledettamente sereno inonda la
                                                parte di Roma, città del nostro
                                                volontario esilio...
                                                                                                   A. B.

Un inverno maledettamente
sereno. E Bilenchi
ci ha lasciati, e Sciascia... Senti
mio caro Attilio
ora l’amico Caproni
vuol farci credere che il suo
viaggio è terminato.
                                        Sì, è vero,
non ho guardato il nome
della stazione, e a lungo
ci siamo salutati: ma ti assicuro
che il treno è ripartito, mentre i suoi occhi
urlavano di boschi, di marine...

Allora non so perché
sono fuggito. E mi credo
invisibile, pari
al grande cappello
che m’ha fatto il vento
su misura, allo spuntar del giorno.
Non so, Attilio, perché
ma sono fuggito al mercato.
«Non piove, non piove!»,
improvvisa m’ha accolto
la voce di Maria
che sempre mi regala
il prezzemolo. (A lei
non è sfuggito
il lutto del mio copricapo).
Ho comprato uova,
carote, arance...
«Tutto un fiasco di vino!...»
ora sillaba Maria
a me, al vento che fa solo
vento.
              «Ieri
quasi pioveva, e alle prime
gocce mio fratello
com’era allegro. Un intero
fiasco di vino
s’è bevuto! E poi
non è più piovuto!
Ubriaco! Ubriaco e senz’acqua!»


Da Bella e Bosco, Stamperia dell’Arancio, 1995



venerdì 20 gennaio 2012

Giuliano Goroni


MULTIPLO DI COSA INGOMBRA, L’ODORE

Multiplo di cosa ingombra, l’odore
ci lascia ammutoliti sugli stipiti
verso ponente, con zampe larghissime
di tartaruga. Pèndula dal ciglio

del tempo ormai questo giorno imbrunito
a foglia, a goccia, attento all’istante
che ci distacca e stilla trasparenti.
Un candore dall’alto, dopo il tuono

nero, svela in forma che blanda preme,
sulla pozzanghera molata al vento,
quell’unisono che ci fa più poveri.

Passano sul bianco dello stradone
le boccie, la festa, le biciclette
e un delicato terrore d’ognuno.

Da Stanze della vita, Rotundo, 1988

mercoledì 18 gennaio 2012

Kenneth Rexroth



I VANTAGGI DELLA CULTURA

Sono un uomo senza ambizioni,
con pochi amici, del tutto incapace
di procurarmi da vivere, divento
meno giovane, sfuggo al giusto giudizio.
Solitario e malvestito, ma che importa?
A mezzanotte mi preparo una tazza
di vino bianco caldo al cardamomo.
In una stinta vestaglia e un vecchio berretto
mi siedo al freddo a scrivere poesie.
Disegno nudi lungo i margini sgualciti,
accoppiandomi con sedicenni
ninfomani della mia immaginazione.

Traduzione di Francesco Dalessandro


The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003


lunedì 16 gennaio 2012

Adrienne Rich


LETTERE A UNA GIOVANE POETA


1.

La foto non ti renderà giustizia
i formicai umidi e gibbuti t’impediranno di puntare
la lente sulla palude

i cinque cigni che sorvolano stridendo
distraggono la tua sete di definizione
e fuga


2.

lascia che tiri la tua vestaglia gelida e che
ti dica una parola: Ineluttabile

intendendo che a questo non sfuggirai:
la peggiore delle nuove nuove

la storia corre avanti e indietro
nel labirinto panico

io non ti toccherò di nuovo:
tua la scelta se congelare o meno

voglio dire, tu ed io siamo chiusi
in un laboratorio senza scienza

3.

T’allieterebbe pensare
che la poesia sia pura e possa come niente

prendere posto sotto bagliori di lampi
o coltri di nebbia vivere la propria vita

sgridata, zittita
da un lacerto di viscere che gronda nomi

compositori visitano Terezin, registi Sarajevo
Cabrini-Green o Edenwald Houses

    ineluttabile

se una donna intensa quanto un qualunque artista, né più né meno
può gettarsi in un qualunque giorno giù dal quattordicesimo piano

ti solleverebbe sostenere la poesia
con questo non ha a che fare?

4.

rivolta gli orli della tua distrazione
il suo rovescio sottomarino striato

dal flusso distruttivo del dolore
che erode e risucchia, tira e molla

avanti e indietro, un ordito di grotte, l’embrione della tua paura
che scalcia nel loro viscido lussureggiare protetto
dalla serra d’acqua

cercando, nella distrazione, di radicarsi saldamente
cercando di contrastare la corrente
di questo assurdo ripetersi

Guarda: con tutta la mia paura io sono qui
con te, a provare cosa comporta stare; cosa comporta andare

5.

Arenata. Barca a remi, piroga, presa
tra la più bassa e la più alta delle maree primaverili. Arenata. Avvenuta,
in stallo, arretrata, sí, essere generata
essere – l’infernale passivo
essere – come in Siedi, Stai, Sdraiati, Obbedisci.
Il desiderio terribile del cane che gli prende il cervello
e lo depone ai piedi calzati di stivali.

Tu puoi essere così per sempre – essere
come senza muoverti.

6.

Ma ecco come io, tuttavia, ne emergo:
spingendo in su da sotto
il capo avvolto in una sciarpa a scacchi
un casco con la torcia sulla fronte
spingendo fuori dal magma
questa faccia velata questa testa illuminata
che affronta il filtrare della morte
la bocca che ha nuotato tra i detriti
pronunciando con chiarezza
Ciao e addio


Tuttavia, chi vuole sapere
di questa bocca pallida, questo
rossetto cremisi Chi
delle mie corde vocali da travestito del mio amaro ritmare
l’occhiata in tralice che oltre la spalla getto
alle grandiose strofe e antistrofe
il mio canto, il mio ululato, i sacri resti delle mie unghie,
dei capelli, la mia dissenteria, la mia scandalosa gola allegra

la colonia penale del mio davanzale senza uccelli
la mia faccia giù in centro in film di Saffo ed Artaud?

Tutti.    Per poco

7.

Non è il déjà vu che uccide
è la preveggenza
la testa che parla dal cratere

Volevo andare dove
il cervello non fosse andato ancora
non volevo starci
così sola

(1997)


traduzione di Stefania Portaccio

da La guida nel labirinto, a cura di Maria Luisa Vezzali, Crocetti, 2011

venerdì 13 gennaio 2012

Attilio Zanichelli


LE FOGLIE

Chissà perché le foglie si sono agitate, le madri
celesti della terra. Io che non acciglio loro
ancora e non ricordo cosa siano né perché si lasciano
recidere. Il vento ha brevi attacchi come un malato,
elimina la forma fragile della bocca devastata.
Bisogna che io parli loro come a immutabili santità
misere sorelle fiatevoli del perdòno.
Si sono racchiuse nelle mani in un pugno morente.
Tutta l’eternità è vuota davanti a loro.
Hanno gremito le strade quando è triste
il soggiorno e imputridiscono deferite alla marcezza.
Le calpestiamo ai bordi delle pietre, sfinite
e inutili come nella visione che travolge ogni senso
e attaccate alle suole vibrano di tremiti.
Io sono come una di queste, mi frastorna
la pungente ira della ghiaia sotto cui sono quando
scicchiola il passo malinconico che rincasa stordito
e scorge la luce della scala monotona e sorda,
e io sono con l’anima di ciascuno devastante tristezza.

Da Una cosa sublime, Einaudi, 1982

mercoledì 11 gennaio 2012

José María Alvarez


WILLIAM BECKFORD RICORDA LADY HAMILTON,
QUANDO, DURANTE UNA FESTA A FONTHILL, INTERPRETÒ “AGRIPPINA CHE RECA LE CENERI DI GERMANICO IN UN’URNA D’ORO”

Gemma della memoria
che ci consola col passato,
fra quelle poche immagini
che trapelate nel tempo
si rivelano simboli preziosi
del nostro desiderio,
di quello che siamo veramente,
è così che tu vieni,
non è la prima volta,
a ornare le mie notti. E con te
torna tutto il contorno
che ti rese possibile. Torna Fonthill
nel suo splendore, in quell’alba
magnifica, quando sulle sete d’una festa
non certo per spiriti volgari,
apparisti, risplendendo, e guardandomi
mi sono chiesto a volte
se non eri la morte – interpretasti
il dolce canto di Agrippina
che reca le ceneri di Germanico.
Com’eri bella, e come quella bellezza
è simbolo della nostra, del nostro
fantastico destino.
Oggi, cara, lo vedi, la fortuna
come queste nubi oscurano i campi
che un minuto prima brillavano gloriosi,
ha offuscato i nostri giorni. L’abietto
sogno al quale in questi tempi si assogetta
la sventura della società, già non permette
più quella meraviglia. Il nostro mondo
è morto, e con esso la bellezza della vita
sparirà, sparirà qualunque segno
d’intelligenza, l’Arte che amiamo sparirà.
Lieto di non vederlo. Ho la speranza
che menti come quelle che verranno
non potranno immaginarmi. Intanto,
vedi, sono felice. Ho approfittato
di questa bella
giornata. La cosa mi piace,
ho comprato qualche libro prezioso, ho passeggiato
e c’era una luce d’incanto quest’oggi.
Succeda quel che succeda
la mia vita fu un’opera perfetta
e un passato così è sufficiente
a non svilire gli anni che mi restano.
Prima d’addormentarmi, ho accarezzato
la tua immagine. E con la purezza
d’animo che dona un disprezzo così assoluto
ho preso sonno come un bambino.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da El escudo de Aquiles, Ediciones del Dragón, 1987

lunedì 9 gennaio 2012

Roberto Coppini


L’ARCA

                                  a mia moglie

La torre spande
un suono sottomarino
come la luce
che penetra la stanza,
arca insabbiata
che un popolo di insetti
abita inquieto.

Pure ti dico,
ora che tutto
è più d’un naufragio
e che posso guardarmi
ad occhi nudi,
che qui è chiuso
il bruciare di anni
rappresi di età in età
in un tempo diverso.

Guardo, mentre
in silenzio ti sporgi
dalla finesrra,
l’oblò della tua navicella
cui slittano a sera
lucenti costellazioni, il vuoto
che fascia la terra.


*

L’ago magnetico inclina
sottile bilancia.
A mani vuote
ci avventuriamo
per rotte impraticate,
noi d’altra razza
predoni di tombe.

Il cardine sconfitto della porta.
La casa è una tavola vuota.
E tu, compagna, amica,
parola che non so
fra tenera e inquieta,
come ti sento che cerchi salvezza
volgendo intorno
lo sguardo animale di madre.

Un filo si ruppe,
qui, come altrove.
La sfinge farfalla
richiude le ali
volgendo all’autunno
il frutto maturo dell'anno.
Senza stupore
alziamo la testa
nel punto che rigano
l’aria celeste
le bianche comete dell’uomo.

Agosto 1965

Da Le posate sul piatto, Edizioni Salvatore Sciascia, 1978

venerdì 6 gennaio 2012

Giorgio Caproni


Domani è il centenario della nascita di Giorgio Caproni. Lo ricordiamo con questa breve poesia.


CONDIZIONE

Un uomo solo
chiuso nella sua stanza.
Con tutte le sue ragioni.
Tutti i suoi torti.
Solo in una stanza vuota,
a parlare. Ai morti.

Da Poesie, Garzanti, 1976

mercoledì 4 gennaio 2012

J. Rodolfo Wilcock


OSPITE CARA DEL MIO CORPO

Come ogni re si fa una reggia nuova
ognuno deve costruirsi una morte
per sé e per i suoi cari.

Un padiglione di diporto o caccia,
un mare verde senza avvenimenti
o un luogo di penitenza.

Nessuno tollera la decomposizione
dell’anima che non si può pensare
fuori dal corpo vivo.

Tessuta di materia e di parole
dove vai, così fragile e labile,
anima quando muori?

Da Poesie, Adelphi, 1980

lunedì 2 gennaio 2012

Rodolfo Di Biasio


LE MIE ORE BUONE SONO QUELLE DELL’ALBA

Le mie ore buone sono quelle dell’alba
la casa è piena di un suo silenzio
che solo il canto mattutino
dell’uccello dalla cava
per un attimo incrina

Il caffè la bollitura del latte
la routine che mi propizia il giorno
l’amuleto che la luce gialla di ginestre
mi mette nelle mani

Voi siete ancora quieti
e io posso consumarvi nel pensiero
aspetto la voce sonnolenta che mi chiama,
il mondo è fuori, nel sonno ancora,
i primi rumori sono slabbratura
né lo spessore dell’alba s’irrughisce

da Altre contingenze, Caramanica Editore, 1999