lunedì 31 dicembre 2012

Percy Bysshe Shelley


LAMENTO


I

O mondo, o vita, o tempo!
sui cui ultimi gradini
salgo tremando per quelli lasciati;
quando tornerà la vostra piena gloria?
Non più – oh no, mai più!


II

Da ogni giorno e ogni notte
una gioia ha preso il volo;
e primavera estate bianco inverno
danno pena al cuore infermo ma la gioia
non più – oh no, mai più!


Traduzione di Gianfranco Palmery

Da Alla notte e altre poesie, Il Labirinto, 2002

venerdì 28 dicembre 2012

Ledo Ivo


Ledo Ivo, il grande poeta brasiliano, è mancato all'età di 88 anni, a causa di un infarto, l'antivigilia di Natale, a Siviglia, dove si trovava per le festività natalizie. Questa sua bella poesia, serva a ricordarlo e a incuriosire chi non conosce la sua opera.


BRUCIA

Brucia tutto ciò che puoi:
le lettere d'amore
le bollette telefoniche
la lista dei vestiti sporchi
le scritture e i certificati
le confidenze di colleghi risentiti
la confessione interrotta
il poema erotico che ratifica l'impotenza e annunzia l'arteriosclerosi
i ritagli antichi e le fotografie ingiallite.
Non lasciare agli eredi famelici
nessun ricordo di carta.

Sii come i lupi: vivi in una caverna
e mostra alla canaglia delle strade soltanto i denti affilati.
Vivi e muori chiuso come una chiocciola.
Di’ sempre di no alla scoria elettronica.

Distruggi le poesie interrotte, i bozzetti, le varianti e i frammenti
che provocano l'orgasmo tardivo dei filologi e glossatori.
Non lasciare ai raccogliori della spazzatura letteraria nessuna briciola.
Non confidare a nessuno il tuo segreto.
La verità non può essere detta.


Traduzione di Carlo Bordini

mercoledì 26 dicembre 2012

Kenneth Rexroth


UNA SPADA IN UNA NUBE DI LUCE

La tua mano nella mia, usciamo
a vedere la folla della Vigilia
su Fillmore Street, nel quartiere
Negro. La notte è oppressa 
dal gelo. La gente si affretta, 
avvolta nel fumo del proprio fiato.
Davanti alle vetrine i bambini
saltellano con occhi brillanti.
Scampanellio di Babbi Natale.
Ingorghi d’auto e strombazzare
di clacson. Stridore di tram.
Gli altoparlanti sui lampioni
suonano canti natalizi; dai juke-
box dei bar Louis Armstrong 
canta Bianco Natale. Nei locali
le ragazze s’agitano strofinandosi 
e spogliandosi al suono di 
Jingle Bells. In alto, i neon 
scarabocchiano, scancellano,
scarabocchiano ancora messaggi 
di gioia, igiene, avidità, paura,  
e fieri nomi piccolo-borghesi.
La luna splende come un budino.
Fermi all’angolo della strada
guardiamo in su, di traverso,
la luna che s’alza, le enormi
regolari, solenni costellazioni 
invernali. Tu dici: «Ecco Orione!».
La cosa più bella che ognuno 
di noi potrà mai vedere al mondo 
o in vita si trova nel vuoto 
di cieli illuminati dalla luna,
sopra uomini, donne, bambini, 
bianchi e neri, avidi e allegri, 
buoni e cattivi, acquirenti 
e venditori, vittime e padroni, 
che sciamano, come qualche 
immenso teorema che una volta 
risolto sarebbe per sempre 
la soluzione del mistero e della pena, 
sotto campanelli e lustrini. 
Là c’è lui, l’uomo della Vigilia 
di Natale, disteso in cielo 
come un vero dio nel quale 
basterebbe solo credere appena.
Ho cinquant’anni e tu cinque: 
non converrebbe dirlo, 
come non conviene scriverlo. 
Credi in Orione. Credi 
nella notte, nella luna, nella 
terra affollata. Credi nel Natale, 
nei compleanni, nei conigli 
di Pasqua. Credi nei fugaci 
elementi naturali, destinati 
tutti quanti a degradarsi 
e sparire. Sii sempre fedele 
a queste cose: sono tutto 
ciò che abbiamo. Non rinunciare 
mai a questa religione primitiva 
per le civilizzate e insanguinate 
astrazioni di quei bastardi 
che vivono uccidendo te e me.

Traduzione di Francesco Dalessandro 

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

lunedì 24 dicembre 2012

Giovanna Sicari


VIGILIA DI NATALE

Sono nella frenesia
della strada che pare insensata
il dolore dei tanti mi giunge
come un passo attutito
è tanto e dolce, è di pietra
questo loro terrore, si accostano
e chiamano, è in bilico la mente
chi dirà santo questo percorso
chi laverà le nostre prediche
di sangue, chi capirà l’oltraggio
la scomparsa, la salvezza,
Dio, da’ gambe più forti
a quanti sono all’erta in questa notte.

Da Sigillo, Crocetti, 1989

venerdì 21 dicembre 2012

Gianfranco Palmery


TUTTO UN INVERNO NERO, DOLOROSO

Tutto un inverno nero, doloroso,
da passare così, all'oscuro, il cuore
assediato dai ricordi, corroso
il corpo da rodenti malanni:
gelo e tenebre e a orchestrare, il rimpianto:
sarà un inverno di fami, d'affanni
da passare così, solo aspettando
che passi: un tempo senza tempo - come
fosse già cominciato il freddo bando
dei morti, perduto il corpo e il nome.

Da Medusa, Il Labirinto, 2001

mercoledì 19 dicembre 2012

Giancarlo Pontiggia


PAESI D’ACQUA; TERRE

Paesi d’acqua; terre
fumiganti in una
polvere di secoli; pietre,
su cui l’ombra sprofonda, lenta, avara;
porte, che il cielo affaticò
e ora, scaglia dopo scaglia, sbriciola:
solo il tedio – triste, trionfante
verme – resta 
accanto alle nostre anime, scordate.
E intanto le inette, le rumoreggianti
ore precipitano, all’improvviso, colano
in uno sfondato otre, e la dimenticanza
le possiede: niente rammentiamo
di più che una scialba sagoma,
un cielo di cartone. Eppure
dopo i giorni di fango, dopo le albe
crude, d’un colpo una memoria
sovviene, e scorrono
tra le alghe del sangue, più forti,
i vermigli tremori, acquazzoni
di una festante vita, che risorge,
intatta, e strugge, come lo scricchio
del gelo che si scioglie, o come
il chiuso bocciolo della gemma, sul quale
la stagione incide il suo
imperioso sigillo. Addio, foschi giorni
spazzati da un’insana acrimonia, e voi,
acque del tempo che sanguina, e s’impaluda.
Torna a battere, cuore, disserra
le dure palpebre, offri
un canto non di guado
a questa piagante scorza: sii
la chiglia che si mosse
per prima verso la fatata Colchide, e la sua
stupita ombra, dipinta tra le selve
del mare. Così la forte tolda
dei pensieri – gli audaci, i giovani – 
s’imporpora alla nuova

stagione che viene.

Da Bosco del tempo, Guanda, 2005

lunedì 17 dicembre 2012

Italo Benedetti


I GIORNI D’ORO

Oh il ricordo di quei giorni d’oro
il sole che saliva sulle vette del mondo
io che scendevo gli oscuri itinerari,
la luce che filtrava nel verde
spumando nelle vene della gioventù
che acqua di cristallo sprizzava nei pensieri!
Il sapersi fugace nell’eternità
eppure beato della giovinezza,
conoscere i mattini prima delle albe
e la notte regina dei sospiri.
Piangere era la gioia di possedersi
in un dolore che fu allegria del dramma:
la prima prova dell’eroe solare.

(1982)


Da I giorni d’oro, Remo Croce Editore, 1984

venerdì 14 dicembre 2012

Xavier Seoane


SERAFÍN AVENDAÑO SOGNA LE SUE DUE PATRIE

Di’ alla colomba che passa
e alla nave che parte
che mai tornerò in patria.

La vecchia casa
aspetta invano.

Là stanno le navi,
le isole misteriose
le cale solitarie
che mai tornerò a contemplare.

Quelle onde che baciava l’aria
la segreta dolcezza degli avvampamenti...

Nei porti dell’Ausonia
anelo i promontori e le baie
dell’Atlantico felice della mia infanzia.
Lontano dall’Italia, sogno
i palazzi di marmo di Genova,
la casa solatia
di Quinto al Mare,
gli amici perduti e le aurore passate.

Di’ alla colomba che passa
e alla nave che parte
che non ritornerò mai in patria.



Traduzione di Emilio Coco

Da Poeti spagnoli contemporanei, Edizioni dell’Orso, 2008


mercoledì 12 dicembre 2012

Elio Pecora


IO MI SARÒ FEDELE

Io mi sarò fedele,
fedele a questo corpo e alle voglie salde dell’anima,
fedele a un amore difettoso che il mattino
mi lascia.
Fedele a queste stagioni che si ripetono,
a questi volti che si cancellano,
al mio tempo difficile.
Io vado un gradino al giorno per la scala senza fine.
Verso la pazienza e l’attesa, ma verso il presente.
Non ho speranze, non sogno.
Io sono qui e impasto calce e il muro mi cresce
sotto le mani. Senza frantumare.
E il paradiso?
Il tramite all’assoluto, forse l’arte,
realizzata fuori di sé, in febbre di perfezione.
Forse una promessa.

Da La chiave di vetro, Cappelli Editore, 1970

lunedì 10 dicembre 2012

Walter Savage Landor


ULTIME FOGLIE

Cadon le foglie, e così è di me
Gli ultimi fiori hanno umidi gli occhi.
Così è di me.
Raro si ode sul ramo ora l’uccello
Gioioso o mesto
Per l’intero bosco.

Ecco l’inverno s’avvicina e porta
Più presso al fuoco il cerchio che si stringe,
Ogni anno di più, dei vecchi amici,
Venga esso, già il cielo s’oscura,
Primavera ed estate non son più
Ogni cosa è soave ora quaggiù.




Traduzione di Attilio Bertolucci

Da Attilio Bertolucci, Imitazioni, Libri Scheiwiller, 1994

venerdì 7 dicembre 2012

Alessandro Peregalli


LAMENTI

MORTE, DOLORE SUPREMO

Nella notte profonda, mentre la pioggia
risuona continua nella strada e io
mi appoggio al davanzale e guardo i muri di fronte
lievi e grigi nella tenue luce del cielo, penso
alla grandezza dell’universo, all’inutilità
della mia vita, di quella di tutti, al giorno in cui
giacerò con le mani giunte, solo,
nella bara fredda che mi terrà prigioniero.
E potessi almeno quel giorno ripensare alle rondini
che volano gridando intorno alle grandi cupole
delle chiese al tramonto e ricordare
lei che si china teneramente sopra di me piangendo, potessi 
                                                                                   /pensare
con tutto l’attaccamento a questo mio cielo, a questa terra
calda dolce e dorata, a questa terra nera
e solitaria, di notte, funebre, potessi pensare alla morte,
ultimo dolore immenso che mi ha colpito
e mi ha obbligato le mani giunte e mi ha staccato da tutto.


INARRESTABILE MORTE

Nell’ombra della sera, quando le stelle
fioriscono di luce indistruttibile in cielo,
la mia anima manda ad esse il suo eterno lamento,
perché sono qui in questa mia vita costretto
al lento approssimarsi della mia ora fatale,
sefiza poter levare gli occhi nell’infinito,
senza potermi unire alla gran madre Terra
da cui mi separano queste pareti inderogabili e grige.
Perché il mio amore, indistruttibile come le stelle,
verso il cielo e la terra s’inaridisce nell’apprendere
nozioni schematiche e assurde che mi rubano i giorni
ad uno ad uno, mentre inflessibile s’avvicina l’ora
e un grido di dolore mi scuote al calar d’ogni sera
quando, attraverso il fulgore notturno, vedo la faccia della morte
che avanza sempre più invincibile dall’orizzonte.
O Dio! Tu non sei più che una lontana speranza
e l’essere con Te nella calda gloria diurna un sogno
che sta tramontando nella rosea spuma del mare.

Da La cronaca. Poema 1939-1982, il Saggiatore, 2003

mercoledì 5 dicembre 2012

Carlo Bordini


AMICO

ho visitato un amico che stava morendo.
mi perdonò di essere vivo. mi sono accorto 
che me n’ero sempre vergognato. lui invece mi spiegò
che non era una colpa. non l’avevo fatto apposta, io.
mi spiegò che essere vivo non era una colpa. non facevo male
a nessuno. ma ci volle lui per spiegarmelo. a lui ho creduto.
mi spiegò che se facevo male non era con intenzione. mi perdonò.
mi consolò. sei simpatico, mi disse, anche se non stai morendo. nella
vita avrai tante cose belle, piacerai alle donne. mi fece far pace
con la vita, come si fa con una fidanzata riottosa.

Da I costruttori di vulcani, Luca Sossella Editore, 2010

lunedì 3 dicembre 2012

William Shakespeare


DOVE SEI, MUSA, CHE HAI DIMENTICATO

Dove sei, Musa, che hai dimenticato
a lungo di parlare di chi ti dà forza?
Consumi il fuoco in canti senza meriti
e ne spegni la fiamma illuminando temi oscuri?
Torna, Musa smemorata, e presto riscatta
con nobili ritmi il tempo stupidamente perso;
canta all’orecchio di chi apprezza i canti,
che alla tua penna dà maestria e soggetto.
Svegliati, Musa pigra, e il dolce volto d’amore
scruta, se il Tempo v’abbia inciso rughe;
se una sola ne trovi, schernisci la rovina 
e rendi i suoi saccheggi ovunque disprezzati.
Prima che lo guasti il Tempo, all’amore da’ fama,
anticipa così la falce, la sua curva lama.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da Complete Sonnets and Poems, Oxford University Press, 2002 

venerdì 30 novembre 2012

Gianfranco Palmery


PER ENNE

Se dico che i miei occhi prendono luce
dai tuoi, senza non hanno vita, sono
polvere – non li puoi vedere: gli occhi
d’un morto (che funereo idillio, c’è
chi invidioso commenterà); che la luce
del giorno non mi illude, mi ulcera, l’ultimo
olio della notte consumato, se
tu non spandessi un azzurro alone, pallido
cerchio riparatore, chi vorrebbe – non è
petrarchismo tombale – tirarsi su, aprire
gli occhi, accogliere il rumore dei giorni?

Da Medusa, Il Labirinto, 2001

mercoledì 28 novembre 2012

Rodolfo Di Biasio


POEMETTO DELLA TREGUA 

1

Le strade tutte alle spalle,
le irrisolte strade,
e il loro frastuono
quei lampi che segnarono
il cuore di furori
Rosse in un incendio
vi fiorirono tutte le cose
                                        le rose della vita

2

La tregua:
la richiede il cuore
le sue tessiture
risultano dosaggio
di lente alchimie
Si muove
in una penombra di sangue ispessito

Precipizi
i suoi silenzi sempre più lunghi


3

È questo il tempo (il luogo?)
delle quiete interrogazioni
se fuori
sui muri trapassa
un fiato di vento
il luminoso filo della luna

Tutto è al di là e oscuro:
vi trascorrono
in un incrinato specchio
terra e cielo,
si confondono
in un incastro di corrispondenze

Presiede alla notte
l’abrasa memoria delle cose
                                             delle rose della vita


Da Poemetti elementari, Il Labirinto, 2008

lunedì 26 novembre 2012

Kenneth Rexroth


UNA PERLA VIVA                                                          

A sedici anni venni all’ovest, 
sui merci della Chicago, Milwaukee 
e St. Paul, la grande linea 
del Nord, la Northern Pacific. 
Lavoravo come aiuto di un tale
che radunava enormi branchi
di cavalli selvaggi nell’Okanogan 
e nell’Horse Heaven. Sceglievamo
le bestie migliori del branco, 
tutto il resto era cibo per polli 
e cani. Portammo trenta capi 
sul Methow e il Twisp, attraverso 
le sorgenti del lago Chelan, 
giù per lo Skagit fino alla regione 
di Puget Sound. Mi occupavo 
della cucina e dei lavori del campo. 
In un paio di settimane imparai 
per bene a manovrare le bestie.
Riuscivamo a domare ogni giorno 
un nuovo cavallo. Il giorno dopo 
gli mettevamo il basto. Nel tempo 
che giungevamo a Marblemount 
li avevamo addestrati per bene.
I coglioni che li compravano
li credevano indomiti mustang
del deserto. In poche settimane
li mettevano tranquilli a tirare 
i carri del latte a Sedro-Wooley.
Facevamo tre viaggi a stagione
e ce la passavamo abbastanza bene 
nonostante la depressione post-bellica.
Stanotte,
trent’anni dopo, esco dalla 
capanna abbandonata dai 
minatori di Mono Pass, sotto
la luna piena e poche grandi stelle.
I declivi sono pezzati di neve.
L’aria di mezzanotte è pervasa
dalla luce lunare. Dice Dante:
Parev’a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.
In questo posto, quindici anni fa,
scrissi Verso una filosofia 
organica. È ancora tutto uguale,
e è minima la differenza 
da quel primo passo montano 
che attraversai in quei tempi
tanto lontani con pezzati, zebrati, 
roani scuri e color daino, 
appaloosa maculati, i robusti 
pony selvaggi i cui progenitori 
arrivarono con Coronado. 
Non ci sono campane di cavalli, 
stasera, solo il verso delle rane 
nei prati fradici di neve, il latrato 
stridulo e isolato della volpe 
di montagna, fra le rocce alte
dove le pecore selvatiche si muovono 
in silenzio nella luce cristallina 
della luna. Gli stessi sentimenti
che tornano. Di nuovo 
tutta la meraviglia di un ragazzo 
delle praterie, là dove 
le lanterne si muovono in un buio 
rassicurante, lungo un recinto,
in un campo, a casa; tutta l’emozione
della gioventù improvvisamente
arrivata dalle strade piane 
e geometriche di Chicago nelle 
sterminate e disumane distese 
del Far West, dove la mente ritrova
le forme cercate da Pitagora, 
le relazioni organiche tra pietra, 
nube e fiore, tra il movimento 
del pianeta e l’acqua che cade. 
Marthe e Mary dormono nei sacchi 
a pelo, bozzoli di reciproco amore. 
Ho trascorso all’ovest metà della vita, 
e molta di essa per terra vicino
ai fuochi solitari sotto le stelle 
estive e nei capanni, con la neve 
che s’ammassava tra i pini e sul tetto. 
Qui non farò più il campo come spesso 
facevo prima. I miei trent’anni  
non tornerano più. «Il nostro bivacco 
muore tra le montagne solitarie. 
La luce trasparente della luna 
si stende per migliaia di miglia. 
La purezza della pace non ha fine». 
Gli intensi occhi azzurri di mia figlia 
dormono all’ombra della luna. 
La prossima settimana fa un anno.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

venerdì 23 novembre 2012

Salvatore Ritrovato


IL GIARDINO PERDUTO

Oggi, mi accoglie un giardino senza pergolato
e nuvole si addensano sulle vette, calcinate,
infiammano l’autunno che alligna in villette senza memoria
come pigra ansia di vita che il tiepido asfalto circonda.
Mi metto a sedere dove un animale sembra che voglia
calpestare, fino a ridurlo in poltiglia, il fango
scivolato dalla lurida grondaia dell’ultima casa.
Una pioggia fine piove da un immoto stagno
che occhieggia nella sera in una piazza di foglie
in esilio tra radure assiepate, ricomposte,
e tutta per se stessa è la terra, con se stessa,
lingua di creta su cui nulla che perduri o muoia
(non un filo d’erba né il vento che soffia e trita
da una grotta, nel bosco, la sua polvere)
riconosce in quella soglia l’eterno.

L’infanzia devi riempirla di gioia se non vuoi fuggire
e riempirla, mi dico, in quest’aria primaverile
che spira fra le corolle e a miliardi instilla
cristalli e grani di rugiada, nello stesso istante
disperde nuove gemme, esplode in germogli
da per tutto, trasformando la lava in vapore
in rifugio la meta, dolcemente e leggera
come una lanterna di sabbia e silicio
appende l’odore della neve ad ali notturne.


Da Come chi non torna, Raffaelli Editore, 2008

mercoledì 21 novembre 2012

Italo Benedetti


LA ROCCA

O rocca espugnata, orto ingiallito
dalla siccità, vento senza più spazio,
marina gremita di barchette
senza più i dorsi lividi delle balene
su cui breve sosta ebbero gli uccelli.

La giovinezza ha carbonizzato il tuo viso
ha stampato su te le altrui cicatrici.

La rivolta che volevi non è venuta
e più non verrà: gli alti castelli
han chiuso i portoni, prosciugato l’acqua.
Dell’infernale paradiso hai atroce olimpo.

Eccoti a trent’anni idiota cittadino!

Da I giorni d’oro, Remo Croce Editore, 1984

lunedì 19 novembre 2012

Mario Quesada


DOVE SEI ORA AMICO DELLE NOTTI

Dove sei ora amico delle notti,
mio dolce Patroclo inventato dall’infanzia
trasposto nella vita dal gran libro
dei sogni.

Chiudo la casa, il diario, quel piccolo
armadio segreto. T’ho preparato una tomba
negli anni di massimo splendore della mia
e della tua – inalterabile – giovinezza.

Davvero, senza saperlo. Gustando questa
solitudine scelta per destino.

Da Poesia verso..., CCRS BNL, 1982

venerdì 16 novembre 2012

John Keats


PERCHÉ HO RISO STANOTTE? NESSUNA VOCE

Perché ho riso stanotte? Nessuna voce – 
di demone o dio che severo risponda –  
da inferi o cieli di rispondere si degna. 
Così al mio cuore d’uomo mi rivolgo: 
siamo qui, soli e tristi, cuore. Ho riso, 
dico, e perché? O mortale pena! Buio, buio! 
Sempre a gemere, invano interrogando 
cielo, inferno e cuore! Perché ho riso?
Di quest’essere so la scadenza – a estremi 
di gioia fantasia la prolunga; ma vorrei
stanotte che fosse alla fine, e i vessilli 
sgargianti del mondo vedere a brandelli. 
Poesia, fama e bellezza – sono intense; 
ma più intensa è la morte, premio della vita. 

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Poetical Works, edited by H. W. Garrod, Oxford University Press, 1972.

mercoledì 14 novembre 2012

Giorgio Bàrberi Squarotti


L’OCCHIALAIO DI AMSTERDAM

– Potrebbe questi occhiali, oggi (mostrando
le lenti rotte, una lunga crepa nel cristallo
come la linea folle di una mano
o i rami di un arido albero d’autunno
nei riflessi d’aria e acqua del canale).
Il vecchio aveva un berretto nero sui capelli
bianchi, disordinati, un lungo naso adunco,
le mani delicate, lievemente
curvo sul tavolino pieno di fogli mezzo scritti.
– Il  signore (disse sorridendo)
dovrebbe andare altrove, in questa
città ci sono molti ottici più bravi
di me, e hanno lenti perfette con le quali
si può vedere ciò che c’è davvero:
queste case borghesi, brune,
le anatre sulle acque appena mosse
dal vento, le nuvole che sono solo nuvole e non fumi
d’averno o angeli in fitto volo verso il Sud,
bionde le ragazze in bicicletta:
io ho lenti mal riuscite, che deformano
le figure e anche i cieli, creano strisce
di vario colore, cubi, linee nere
lunghe fino all’orizzonte e ancora oltre,
volti quadrati e cerchi che non hanno
centro, e il fondo anche dei canali sporchi
dove dorme il pesce di Giona nel buio
sotto le banchine, ed ecco il visitatore frettoloso
nel mattino, si toglie il cappello, guarda intorno,
calcola i danni che il ladro della notte ha provocato,
le tazze sparse a terra, ancora un poco
macchiato il corpo della signora nuda sopra il letto,
le tracce del caffè sopra il tappeto,
il libro lasciato aperto: ma se non crede che
dalla nebbia leggera possa uscire
il carro d’Elia invece della chiatta
carica di cemento e di mattoni,
se non le interessa il dio che io qui aggiusto
meglio che gli occhiali certamente,
oggi i raggi di luce, ieri forse il tuono
o il fuoco o anche la memoria e la mano
troppo debole ormai perché possa
scrivere nuovamente qualche vecchia
parola sulle tavole di carta:
è di là, respira appena, un soffio lieve
più di quello dell’acqua che lo spirito
percorre, segnando con il sangue le porte brune e bianche,
altre come dimenticando per la fretta,
forse non è neppure visibile del tutto,
ma se con queste lenti (frugò in un cassetto,
sempre più impaziente, fra tintinnii di vetri,
limpidi urti di metalli, nell’odore
di antico legno, e anche la bottega ne era piena
come una barca venuta di lontano;
poi scosse il capo): vada da un’altra parte
(disse), di là, oltre la piazza,
oltre la sinagoga, dove sono
i negozi moderni, illuminati
fin negli angoli in cui non c’è mai stata
la polvere che qui è sopra ogni cosa,
scesa dai cieli mentre si sfacevano
a uno a uno, dai libri scritti in lingue incomprensibili
o non più scritti ormai, il lavoro dei tarli e del silenzio
o dell’umido vento di qui: io non aggiusto più
nulla, certo non questi occhiali, forse
non c’è più nulla da aggiustare
davvero, le nuvole enormi di tempesta
sono solo nei quadri dove non
lasciano più cadere pioggia e gelo e inondazione
sulle pianure grige, gli alberi spezzati
hanno ancora fronde verdi, né la strada è
interrotta, le navi non affondano anche se sono
orizzontali sopra le acque nere,
tutto è immobile e sereno nelle grandi
cornici d’oro, sì, ha la barba, è un poco
stanco, dipinge, la domenica, su tele
molto consunte, un po’ piangendo a tratti,
sempre lo stesso paesaggio di canali
di prati d’ombre, e anche qualche autoritratto
un po’ infedele, anche se aveva 
fin dal principio vietato che si facessero figure 
e false immagini di sé.

Amsterdam, 21 novembre 1981

da Visioni e altro, Piovan Editore, 1983

lunedì 12 novembre 2012

Gianfranco Palmery


EXIT

1

Un malato pensa il suo male – è il suo
pensiero, il suo peso, la passione
pratica del suo apparecchiare
la morte: non prega, non lavora
per la gloria del cielo o della poesia:
macera e filtra dalla sua malattia
una fine – in saliva parole
veleni: tutto è pari sulla via
del palato – precario impasto che non dà
gioia o luce – niente bellezza, le sue pene,
perdute

2

Anche se resta il corpo, un altro anno
o dieci, la dicitura è EXIT: fuori,
uscita, via – è EX, il vuoto pieno
dell’ex – EX  OMNIBUS – la vita che dura
nel futile ogniggiorno, come nei funerali
un fremere di necessità intorno
al morto – ex per eccellenza – excellens – e ora
neanche più ex – presto incellato: il vero
personaggio cui si addice l’exit – giunto al
silenzio, smascherato, mentre cade
a pezzi


Da Medusa, Il Labirinto, 2001

venerdì 9 novembre 2012

Kenneth Rexroth


INVERSAMENTE, COME IL QUADRATO DELLE DISTANZE TRA LORO                                                                                                     

                                                                                                                                         
Impossibile vedere qualcosa in questo buio;
ma so che questo sono io, Rexroth,
immerso nella notte su un pianeta ghiacciato.
Un caldo inquieto occupa quest’oscurità
vegetale in cui cervi invisibili brucano tranquilli.
Cielo caldo e opprimente, neanche gli alberi
alti sulla mia testa si riesce a distinguere.
Ma sono conifere, lo so, e le loro pigne
resistono chiuse sui rami crescendo 
confitte nel legno, aspettando che il fuoco
le schiuda e risemini la foresta bruciata.
Io sono in attesa, solitario, sulle montagne,
nella foresta, nelle tenebre, e il mondo
scende rapidamente nell’ellisse regolare.




Così calda è la notte e così calma.
Le stelle sono velate e il fiume – 
orribile e indistinto sotto le lucciole – 
s’ode a fatica, con un sordo suono 
profondo, quasi impercettibile.               
Vedo appena i tuoi occhi, le labbra
umide. Invisibile, solenne, profumata,
la tua carne s’apre a me in segreto.
Noi non sapremo mai altro mistero.
Dopo tanti anni niente è così strano. 
Come una sola cosa ma sdoppiata
ci conosciamo; muovendo i nostri arti, 
abili strumenti dello stesso desiderio, 
siamo misteri l’un l’altro abbracciati.  




Ai margini del bosco alla luce della luna 
lasciammo cadere i vestiti stando nudi, 
sospesi, macchiati d’ombra, racchiusi 
l’uno nell’altra e insieme 
nella notte. Non udimmo il caprimulgo 
né i pioppi stormire; se il gufo 
in silenzio prese il volo o gridò forte, 
noi non lo sappiamo. Non potemmo 
udire altro che il cuore, né vedere 
le tenebre frementi, o la luce, 
stelle fisse o cadenti, o stelle già 
cadute. E se caddero tutte noi non 
lo sapemmo. Noi stessi eravamo 
cadenti meteoriti, tenebrosi nella fredda
oscurità l’uno contro l’altra, compatti, 
sfavillanti nell’aria entro la terra.




Sono solo in un letto estraneo 
in una casa straniera e un mattino
più crudele d’una mezzanotte
versa luce attraverso la finestra –
rami di ciliegio con fiori
appassiti e dietro quelli dorate
maestose fronde d’acero,
più dietro immenso e puro 
il cielo d’aprile e una bianca nube lacera 
e dietro tutto questo in ogni cosa
l’inevitabile e vuota
distanza della solitudine.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

mercoledì 7 novembre 2012

Herman Melville


LA TEMPESTA IMMINENTE

Per il quadro di S. R. Gifford, di proprietà di E. B., 
esposto alla Mostra Nazionale nell’aprile 1865


Ogni cuore che ha vita vibrerà per lui
che visse nelle sue fibre questo quadro. Oscuro
presagio, oscuri indizi dalla sfera d’ombre
lo inchiodarono, trascinato in quel paesaggio.
Una nube demonica come una montagna bruciava
in un cuore mite, come questo lago rinchiuso a urna,
dimora delle ombre, nient’altro
che un pensoso figlio di Shakespeare.
E mai le linee separavano nettamente, immerse
nel mito, nel destino.
L’Amleto del suo cuore sapeva che tali cuori vedono
oltre; nessuna sorpresa coglierà chi giunge
nel nucleo segreto di Shakespeare: quello
che cerchiamo e fuggiamo è lì,
l’estrema conoscenza umana.

Traduzione di Roberto Mussapi

Da Poesie di guerra e di mare, Oscar Mondadori, 1984

lunedì 5 novembre 2012

Lucianna Argentino


LEI SAPEVA DEL SILENZIO CHE SAREBBE VENUTO POI

Lei sapeva del silenzio che sarebbe venuto poi
per questo gli chiedeva “abbassa la voce”
pensava che se le parole si fossero fatte
simili al silenzio la loro assenza sarebbe stata
più lieve come un bisbigliare oltre una porta chiusa
o come qualcuno che senti muoversi nella stanza accanto.

“Cambia tono” diceva a lei lui che non capiva,
e confuso rallentava il passo, cercava un riparo
da quell’estate improvvisa, dall’assalto dell’inatteso.
Ma fu in quella luce stinta che cominciò a sentire
che le cose a volte implodono, senza implorare altro,
e tornano in se stesse e stanno affini al silenzio.
Così cedette e abbassò la voce tanto che tacque.


Da Diario inverso, Manni, 2006

venerdì 2 novembre 2012

John Keats







SCRITTO CON DISGUSTO DELLA VOLGARE SUPERSTIZIONE

Campane di chiesa con cupi rintocchi
richiamano la gente a altre preghiere, 
a nuove tristezze, a spaventosi assilli, 
ascoltando il terribile suono del sermone.
Qualche oscuro incanto costringe 
la mente a strapparsi dalle gioie del focolare,
dalle arie lidie, dai nobili discorsi 
sulla gloria e chi ne fu incoronato. 
Rintoccano ancora, rintoccano. Il gelo
sentirei, come da un umido sepolcro, 
se non sapessi che si vanno spegnendo
come lampade, con un ultimo soffio
e un lamento verso l’oblio; che fiori 
nuovi nascono e segni immortali di gloria.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Poetical Works, edited by H. W. Garrod, Oxford University Press, 1972.

mercoledì 31 ottobre 2012

Mario Quesada


PER LUNGHE ORE HO GUARDATO GLI OGGETTI


Per lunghe ore ho guardato gli oggetti
della tua stanza
tra i quali non c’era posto per i
miei biglietti d’amore.
Così – mentre i tuoi occhi carezzavano lieti
le fotografie di qualche anno prima,
quei dischi tante volte ascoltati,
tutto ciò cui ero illegittimo – io sentivo
di appartenere al vento che fuori dalle imposte
frantumava il cespuglio dei fiori
ed invocavo il suo algido furore per travolgere
dall’interno la tua eletta beatitudine.
Poi, come una mano che si oppone al pericolo,
prendendomi accanto hai ripetuto, ripensandolo,
un verso che ti avevo regalato.


Da Poesia verso..., CCRS BNL, 1982

lunedì 29 ottobre 2012

Xavier Seoane


TESTAMENTO

Che cosa lascerai?
                                    Occhi
di pioggia e cenere, ciechi
dal tanto guardar la luce e afferrare la sera
nella nostalgia delle nubi sui fili dell’aria.

Che cosa lascerai?
Un pugno
di inutili parole
che dormono la cecità di un sogno millenario
su un foglio che il tarlo rode
nella remota umidità di un solaio.

Che cosa lascerai?
                                   L’ombra dei tuoi occhi
che inseguono chimere
nella ferita degli ultimi crepuscoli spezzati.


Traduzione di Emilio Coco

Da Poeti spagnoli contemporanei, Edizioni dell’Orso, 2008

venerdì 26 ottobre 2012

Emily Dickinson


C’È UN CERTO TAGLIO DI LUCE

C’è un certo taglio di luce,
i pomeriggi invernali – 
che opprime, come la gravità
di armonie da cattedrale – 

ferita celestiale, ci procura – 
non troviamo cicatrice,
ma una differenza interna,
dove stanno i significati – 

nessuno può insegnarlo – ad altri – 
è il marchio Disperazione – 
un’afflizione imperiale
mandataci dall’aria – 

quando viene, il paesaggio ascolta – 
ombre – trattengono il respiro – 
quando va, è come la distanza
sui lineamenti della morte – 

Traduzione di Silvia Bre

Da Centoquattro poesie, Einaudi, 2011

mercoledì 24 ottobre 2012

Italo Benedetti


LA BOTOLA

Che tu ci venga o no, poco importa.
La botola è ampia
il cerchio d’acciaio non mi terrà
sospeso tra il buio e la luce
dei due emisferi.

Scenderò da solo: avrò
prima i brividi toccando col pollice
polpose granfie e viscide pareti
poi tremerò al soffio delle correnti.

Ogni botola sigilla un cupo Maelstrom.

Ma bisogna agire, aprire, scendere.

Non necessariamente soli.
Ma quasi sempre soli.

Da I giorni d’oro, Remo Croce Editore, 1984

lunedì 22 ottobre 2012

Ezra Pound


LO ZINGARO

Fu in cima alla strada che disse:
« Ne avete visti altri dei nostri
Con scimmie o orsi? »
                   Un tipo bruno, dritto,
Non come i meticci,
                    Sulla strada bagnata presso Clermont.
Il vento venne, e la pioggia,
E la nebbia s’ispessì sugli alberi della valle,
E io avevo dietro le lunghe strade,
                    La grigia Arles e Beaucaire,
E lui disse: « Ne avete visti altri, dei nostri? »
Ne avevo visti tanti dei suoi
                    Sin da Rhodez,
Che scendevano dalla fiera
                    Di San Giovanni,
Con carrozzoni, ma neppure un orso o una scimmia.

Traduzione di Attilio Bertolucci

Da Attilio Bertolucci, Imitazioni, Libri Scheiwiller, 1994