mercoledì 26 ottobre 2011

Jean de Sponde


TRE SONETTI

*

Muoio, e i tormenti che mi dà l’assenza
col martirio dei giorni e delle notti
son tali e tanti che non so mai se senza
scampo peggioro o se riprendo fiato.
Un primo affanno da mille è tallonato
pensando di giovarmi faccio il mio danno,
da un infinito moto di pene trainato
in un turbine mi sento, né so dire altro.
Sono Atteone dai cani dilaniato!
E dell’anima il lume è così alterato
che chi dovrebbe farmi vivere mi uccide:
due dee ci hanno tramato la sorte
e a casi diversi comune è la morte:
io perché non la vedo, e lui la vide.


*

Tu che raggi, mio Sole, dai tuoi occhi
nei miei, e per troppa luce luce gli levi,
io non vedo che te e così fiera
è l’anima che ama solo nei cieli.
Ogni altro amore un inferno mi pare
furioso, di morte e orrore, e mi ritraggo
liberamente via libera lasciando
a chi volendo il meglio fa più male.
Spesso il piacere è l’amo dell’amore,
ma in piu io sento una piu viva forza
che mi farebbe comunque amare quel Sole:
e questa forza è in te, la cui possente
bellezza senza pari, benché assente,
ha ucciso questo amante senza pari.


*

Mentre nell’aria un’altra aria respiro
e il desiderio a gara con il fuoco
accendo e contro l’acqua le acque gonfio del mio
piacere, a terra un molesto martirio
mettendo: quest’aria mi rianima, mi tenta
il desiderio, passo i piaceri in rassegna
avido – assiduo il mio martirio non allenta
la presa, e l’ultima è la pena che più impegna.
Così finisco in un raro patema,
con le forze contrarie tutte contro
di me, che muoio in questa doglia estrema.
Ecco come si sparge la vita in pieno
abbandono, ogni parte del mondo strappa
la sua parte, e quel che resta per noi è il meno.


Traduzione di Gianfranco Palmery

Da Versi d’amore e di morte, Il Labirinto, 2007

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