lunedì 31 ottobre 2011

Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini)


OCTOBER

Muoio. Cantan le allodole
Ferme sull’ali nel profondo ciel.
E il sol d’ottobre tepido
Albeggia e rompe della nebbia il vel.

Caldo di vita un alito
Sale fumando dall’arato pian.
Muoio. Cantan le allodole
E le giovenche muggon di lontan.

La vostra lieta porpora,
Roselline d’inverno, io non vedrò,
Le carni mie si sfasciano...
Domani al mio balcon non tornerò.

Da Postuma, Zanichelli Editore, Bologna, 1961


venerdì 28 ottobre 2011

Gianfranco Palmery


TASSO ALL’ASILO DI SANT’ANNA

                               UN RITRATTO


Presso il letto, seduto – la sua smania, fiamma
che sordamente lo consuma, o la calma
stupefatta: i capelli viperei, alle tempie
la rasoiata del tempo; aridi o ardenti
gli occhi, ormai sempre offuscati, senza
più il fuoco dell’immagine, le lenti
inutili, o quasi; ma insieme ai fulvi
funerei baffi completano un’aria curialesca

inquisitoria – che è suprema ironia
per un ritirato dal mondo che interroga
soltanto il suo riflesso, con fatica
come in un appannato corroso specchio,
mentre porta lento alle labbra una mielata
tazza, la tiepida pozione, cura
per l’improvviso raffreddore – con le sue amate
gatte all’intorno: così si figura...

Sui cinquant’anni, se Dio li abbandona
o lo abbandonano loro, ammattiscono
tanti poeti – per dire che escono
fuori di sé, definitivamente. – Il dèmone
familiare imperversa, prende
il sopravvento, oppure si nasconde, scompare,
e se chiamato tace, beffardo irride
con la sua assenza, non risponde più.

Anche dietro una maschera austera, di savia
compostezza si cela questo vuoto
orrore – semplicemente non c’è
più nessuno: il padrone di casa è fuori,
partito – chissà quando, se mai tornerà.
E quello che si vede a piè del letto, intento
a vigilare l’immagine riflessa, è solo
il cane da guardia della sua infermità.


Da Il versipelle, Edizioni della Cometa, 1992

mercoledì 26 ottobre 2011

Jean de Sponde


TRE SONETTI

*

Muoio, e i tormenti che mi dà l’assenza
col martirio dei giorni e delle notti
son tali e tanti che non so mai se senza
scampo peggioro o se riprendo fiato.
Un primo affanno da mille è tallonato
pensando di giovarmi faccio il mio danno,
da un infinito moto di pene trainato
in un turbine mi sento, né so dire altro.
Sono Atteone dai cani dilaniato!
E dell’anima il lume è così alterato
che chi dovrebbe farmi vivere mi uccide:
due dee ci hanno tramato la sorte
e a casi diversi comune è la morte:
io perché non la vedo, e lui la vide.


*

Tu che raggi, mio Sole, dai tuoi occhi
nei miei, e per troppa luce luce gli levi,
io non vedo che te e così fiera
è l’anima che ama solo nei cieli.
Ogni altro amore un inferno mi pare
furioso, di morte e orrore, e mi ritraggo
liberamente via libera lasciando
a chi volendo il meglio fa più male.
Spesso il piacere è l’amo dell’amore,
ma in piu io sento una piu viva forza
che mi farebbe comunque amare quel Sole:
e questa forza è in te, la cui possente
bellezza senza pari, benché assente,
ha ucciso questo amante senza pari.


*

Mentre nell’aria un’altra aria respiro
e il desiderio a gara con il fuoco
accendo e contro l’acqua le acque gonfio del mio
piacere, a terra un molesto martirio
mettendo: quest’aria mi rianima, mi tenta
il desiderio, passo i piaceri in rassegna
avido – assiduo il mio martirio non allenta
la presa, e l’ultima è la pena che più impegna.
Così finisco in un raro patema,
con le forze contrarie tutte contro
di me, che muoio in questa doglia estrema.
Ecco come si sparge la vita in pieno
abbandono, ogni parte del mondo strappa
la sua parte, e quel che resta per noi è il meno.


Traduzione di Gianfranco Palmery

Da Versi d’amore e di morte, Il Labirinto, 2007

lunedì 24 ottobre 2011

E. E. Cummings




STARSENE (SOLO)


                     starsene (solo) in qualche

                 pomeriggio autunnale:
              a respirare questa
           funesta quiete; mentre

      quell’enorme e paziente

   creatura (che da mai
mai s’è spogliata del
   dì) di sempre si veste

      sempre di sogno, ed è

          assaggiare
             in-(oltre
                 morte e

                     vita)immaginabili misteri

Traduzione di Francesco Dalessandro
da 95 poems, Harbrace Paperbound Library, 1959

venerdì 21 ottobre 2011

Domenico Ludovici

COMPIANTO


I

vorrei essere pietra pietra bianca
la pietra della tomba che ti chiude
la pietra nera che oramai t’affranca
da pene e da fatiche da salute

e malattia da povertà e ricchezza
da una vita infelice da ogni amaro
suo giorno disperato dall’asprezza
di notti solitarie e senza amore

vorrei essere terra terra scura
la terra che t’avvolge e ti preserva
per sempre da dolore e da paura

la terra bianca che oramai consuma
la carne amata e se ne nutre e serba
il tuo fresco respiro e ne profuma

come intorno alla pietra l’aria e l’erba


II

invece sono – ancora – carne stanca
capelli grigi ventre pingue cute
macchiata e palliduccia ovvero manca
colore e fuoco alla mia vita nude

e insonni le mie notti con la sciatica
che mi tormenta e con il mal di schiena
soffro per la tua assenza e disperati
cadono i giorni smagrisce la vena

dei versi che ti dedico si sfianca
anche la musa, amore mio, si stanca
a cercare una rima e per l’acuta

volontà di non crederti perduta
per sempre e di non piangerti s’impicca
al dolore che provo e che conficca

aculei di veleno nei precordi
ché soffrano e non restino mai sordi


III

al richiamo del volto ormai svanito
nella nebbia confusa della morte
allo sguardo dolente e divertito
che nel ricordo mi reca conforto

alla tua voce debole che il sonno
fa giungere attutita dal profondo
della coscienza che però mi parla
chiara di te e di me se l’ascoltarla

non risvegliasse il brivido reale
che suscita l’assenza e non tremassi
sgomento nel silenzio della notte

se insieme alla presenza tua ideale
vivo il tuo corpo non desiderassi
stringere tra le braccia e in una morte

più piccola e violenta scivolare
e perdermi ormai morto nella vita
che insieme a te io non ho mai vissuta


da Sonetti del nostro adulterio (raccolta inedita)


Domenico Ludovici è uno pseudonimo. (Era il nome di un erudito gesuita d'inizio Settecento, del quale - ne Le vite degli illustri aquilani di Alfonso Dragonetti - si legge che scrisse anche carmi in latino a imitazione di Tibullo, nei quali però "indarno vi cercherete la dolce anima e l'ardente affetto del cantore di Delia"). Nessuno conosce la vera identità di questo poeta. 
La raccolta, tuttora inedita, da cui è tratto questo Compianto, fu proposta alcuni anni fa a un piccolo editore aquilano. In qualità di consulente di quello, l’amico Severino Fonte (al quale devo la conoscenza del dattiloscritto) diede parere favorevole alla pubblicazione; l’editore tuttavia rifiutò il testo, spaventato dalla scabrosità dell’argomento. Non potendo chiedergli il permesso di pubblicare la poesia, mi auguro che al poeta non dispiaccia.

mercoledì 19 ottobre 2011

Gabriele D'Annunzio


I CANI DEL NULLA

Qui giacciono i miei cani
gli inutili miei cani,
stupidi ed impudichi,
novi sempre et antichi.
fedeli et infedeli
all’Ozio lor signore,
non a me uom da nulla.
Rosicchiano sotterra
nel buio senza fine
rodon gli ossi i lor ossi,
non cessano di rodere i lor ossi
vuotati di medulla
et io potrei farne
la fistola di Pan
come di sette canne
i’ potrei senzacera e senza lino
farne il flauto di Pan
se Pan è il tutto e
se la morte è il tutto.
Ogni uomo nella culla
succia e sbava il suo dito
ogni uomo seppellito
è il cane del suo nulla.

31 ottobre 1935



da Opere, a cura di L. Anceschi, Mondadori, 1982.


lunedì 17 ottobre 2011

Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini)

IL CANTO DELL'ODIO

Quando tu dormirai dimenticata
Sotto la terra grassa
E la croce di Dio sarà piantata
Ritta sulla tua cassa,

Quando ti coleran marcie le gote
Entro i denti malfermi
E nelle occhiaie tue fetenti e vuote
Brulicheranno i vermi,

Per te quel sonno che per altri è pace
Sarà strazio novello
E un rimorso verrà freddo, tenace,
A morderti il cervello.

Un rimorso acutissimo ed atroce
Verrà nella tua fossa
A dispetto di Dio, della sua croce,
A rosicchiarti l’ossa.

Io sarò quel rimorso. Io te cercando
Entro la notte cupa,
Lamia che fugge il dì, verrò latrando
Come latra una lupa;

Io con quest’ugne scaverò la terra
Per te fatta letame
E il turpe legno schioderò che serra
La tua carogna infame.

Oh, come nel tuo core ancor vermiglio
Sazierò l’odio antico,
Oh, con che gioia affonderò l’artiglio
Nel tuo ventre impudico!

Sul tuo putrido ventre accoccolato
Io poserò in eterno,
Spettro della vendetta e del peccato,
Spavento dell’inferno:

Ed all’orecchio tuo che fu sì bello
Sussurrerò implacato
Detti che bruceranno il tuo cervello
Come un ferro infocato.

Quando tu mi dirai: perché mi mordi
E di velen m’imbevi?
Io ti risponderò: non ti ricordi
Che bei caPelli avevi?

Non ti ricordi dei capelli biondi
Che ti coprìan le spalle
E degli occhi nerissimi, profondi,
Pieni di fiamme gialle?

E delle audacie del tuo busto e della
Opulenza dell’anca?
Non ti ricordi più com’eri bella,
Provocatrice e bianca?

Ma non sei dunque tu che nudo il petto
Agli occhi altrui porgesti
E, spumante Licisca, entro al tuo letto
Passar la via facesti?

Ma non sei tu che agli ebbri ed ai soldati
Spalancasti le braccia,
Che discendesti a baci innominati
E a me ridesti in faccia?

Ed io t’amavo, ed io ti son caduto
Pregando innanzi e, vedi,
Quando tu mi guardavi, avrei voluto
Morir sotto a’ tuoi piedi.

Perché negare – a me che pur t’amavo –
Uno sguardo gentile,
Quando per te mi sarei fatto schiavo,
Mi sarei fatto vile?

Perché m’hai detto no quando carponi
Misericordia chiesi,
E sulla strada intanto i tuoi lenoni
Aspettavan gl’Inglesi?

Hai riso? Senti! Dal sepolcro cavo
Questa tua rea carogna,
Nuda la carne tua che tanto amavo
L’inchiodo sulla gogna,

E son la gogna i versi ov’io ti danno
Al vituperio eterno,
A pene che rimpianger ti faranno
Le pene dell’inferno.

Qui rimorir ti faccio, o maledetta,
Piano a colpi di spillo,
E la vergogna tua, la mia vendetta
Tra gli occhi ti sigillo.


Da Postuma, Zanichelli Editore, Bologna, 1961


venerdì 14 ottobre 2011

Giuliano Goroni


RÒNDINA NEL MARE FRA CIELI LUNGHI


Ròndina nel rame fra cieli lunghi
oggi, oblique fughe alla grondaia
e soste d’amore sulla mano d’una
vita che non conclude; la lampada cuce

il giorno alla notte e seduti
vicini proviamo un bene lontano,
una stupìta obbedienza regge
l’arco oscuro della porta e tutto

pare possibile un poco, attorno:
nel vano dove scivola un respiro
di cielo fra due linee di tégoli.
Sghembi rimbalzi gialli di fari

dalla via rigano i muri rugosi,
la sunza ch’è ora, solo finestra.
Attraversa i geranei una taciturna
fragranza che fa di me un figlio,

di te, mia madre.


Da Stanze della vita, Rotundo, 1988

mercoledì 12 ottobre 2011

Marsden Hartley

ROBIN HOOD COVE – GEORGETOWN, MAINE

Quando la sera viene alle gentili arie
lungo l’oscura baia
e come un pigro dardo l’azzurro airone
vola lungo i vivagni della baia,
come a dare il segnale per una bella musica,
e i piccoli uccelli che durante il giorno
così ardenti son stati si ritirano tra gli aghi
di pino per il giusto riposo –
il bianco ponte che unisce riva a riva del fiume
di marea dai bassi toni della sera prende grazia
e i gabbiani non hanno da dirsi
più niente, ali raccolte come pure mani
congiunte per un muto pensiero.
A loro m’unisco in rispettoso saluto,
dicendomi « grazie – ben fatto – belle cose –
da voi grazia ricevo in abbondanza
e m’accingo al riposo col canto della sera».


Traduzione di Francesco Dalessandro


da Selected Poems, The Wiking Press, 1945


Marsden Hartley (Lewiston, Maine, 1877 – Ellsworth, Maine, 1943) fu pittore e poeta. Dipinse circa un migliaio di quadri e, alla sua morte, lasciò più di cinquecento poesie manoscritte, in aggiunta a tre piccoli volumi pubblicati in vita.  

lunedì 10 ottobre 2011

Francesco Dalessandro

AMORE IN GIARDINO


Affacciato in giardino con gli occhi
appesi alla luce matura del tardo
mattino festivo assisto allo scontro
d’amore di due tartarughe.
E’ il maschio a insidiare a inseguire
la femmina a metterla alle strette;
la tormenta mordendole il muso
e le zampe l’assale senza darle
tregua ostinato le sale sul guscio
le dà colpi sofferti ma a vuoto
perché lei si ritrae si sottrae paziente
agli assalti ai suoi morsi amorosi
cerca riparo sotto i rami bassi
degli allori e poi prova a liberarsi.


Finché stanca di resistere e negarsi
eccola vinta cedere all’ardore
del compagno e concedersi…
E lui giovane maschio finalmente
con il piccolo guscio eretto contro
il gran guscio di lei le dà colpi
elastici e decisi – che lei prona
e ferma ora accoglie e riceve –
ma accompagnati con un forte grido
anzi forse uno spasimo… Piacere
e pena forse prova per la prima
volta. Io noi stessi riconosco
in quel muto cercarsi, il tuo fuggire
in quella fuga la tua resa in quella resa.


Da Lezioni di respiro, Il Labirinto, 2003

venerdì 7 ottobre 2011

Giuseppe Conte

IL POMERIGGIO D’AMORE DI DUE TARTARUGHE

Che violenta, sorda, cozzante pazienza
quella della tartaruga maschio, dal
piccolo guscio verde e marrone, che
per tutto il pomeriggio ha stretto al muro
della cunetta nel giardino la
tartaruga femmina, compagna
ben più grande di lui, quieta, pacatamente
ritrosa.
Con la sua testa vischiosa, retrattile
avanzava e le mordeva le
zampe anteriori, poi
quelle posteriori – e chi può dire
la dolcezza del mordere d’amore
di una tartaruga – le sollevava
il guscio, le si infilava
sotto, veloce e determinato più di quanto
gli consentisse la sua natura.
Faticando, ma irriducibile, preciso
tra brevi, ripetuti cozzi, sordi come
di scaglie di pietra, di cavità che si
incontrano, la stringeva al muro e la
mordeva, e se lei provava a fuggire, la
seguiva con un suo breve scatto a
zig-zag.
Poi d’improvviso alzava le sue zampe
anteriori sul guscio di lei, cercava come
un suo equilibrio nello spingere,
brutale ma elastico e di una
sua impensabile tormenta leggerezza.
Lei emetteva un grido
di paura, mai sentito da tartarughe, tanto
che abbiamo creduto subito che fosse
quello di un uccello ferito
caduto o sotto l’abete o tra le
rose del giardino; e Baffo il cane
da caccia correva qua e là senza degnare
la scena di uno sguardo.
Così sino al tramonto hanno giocato
le tartarughe, animali buffi ma capaci
di questo inesauribile cercarsi, di fatiche
immani, di movimenti di avvicinamento
tortuosi e minerali.
Quei gusci, e il loro battere, rintoccare,
pietre impazzite, pietre d’amore, e
quel contatto caldo, invisibile, e per il quale
nessuna, neppure la più aggirante manovra
era superflua. Infine hanno raggiunto il
piacere.
Noi dobbiamo parlare per cercarci, diventare
sguardi, e se fuggiamo insieme forse è per
tentare di morire senza toccarci: carezzare
è difficile per chi
crede di avere un’anima, e baciare
è difficile, o di una tenerezza
troppo facile, troppo raggiungibile
forse.

30 luglio, 9 agosto 1977


da L’ultimo aprile bianco, Società di Poesia, 1979

mercoledì 5 ottobre 2011

Marsden Hartley

SE POTESSIMO FARE

Se potessimo fare quel che i bianchi uccelli
fanno:
spezzare l’orlo del vento con lama
d’ala dura,
frantumarlo come onda che si frange
sulle rocce, urlando forte:
«Posso prenderlo anch’io, se puoi tu», quasi ridendo;
e le spirali leggère del fumo
che salgono dagli incessanti
camini
stringendosi in una bianca nube,
possono essere apertamente
erudite.

Se potessi fare quel che i bianchi uccelli
fanno:
misurare ogni spazio di mare
con disinvoltura,
accogliere l’urto del tuono alle spalle
con cortesia
o plaudendo la vampa del mattino –
ciò sarebbe qualcosa per cui
ricordarci di noi,
che così meditiamo.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da Selected Poems, The Wiking Press, 1945


Marsden Hartley (Lewiston, Maine, 1877 – Ellsworth, Maine, 1943) fu pittore e poeta. Dipinse circa un migliaio di quadri e, alla sua morte, lasciò più di cinquecento poesie manoscritte, in aggiunta a tre piccoli volumi pubblicati in vita.  


lunedì 3 ottobre 2011

Mario Santagostini

ANÈR, ANDRÒS

                                                                  a M. G., G. B. C., L. B.

Bench’io sapessi già la noia e l’incertezza e da molto
desiderando allontanarmi mi riscoprivo come ritrovato,
rinato all’erba della buca...
affrontando la direzione, il cielo, dirigendo
il segnale al di là delle case e del confine, oltre il paese
chiaro fra i sassi, un po’ più in alto... Bench’io
sapessi degli odori e i fumi ripetendo l’origine
da oltre la breccia, dai ruderi provenivano di nuovo
e ancora si fermava la strada, durava fatica rivivere
ma era poco, solo un attimo, poi
tutto torna, o va dal fondo a passare... Ma benché sapessi, io
mi attaccavo al posto, raccoglievo energie per dare il colpo,
il getto d’acqua controsole, l’orlo prima del
nodo al collo, cambiando tono d’incanto o dal principio...
e se tutto ritorna, mi ritrova
Bench’io sapessi...
                                Ogni volta, si apriva un nuovo aspetto,
                                e all’aperto eretto imitando l’insieme
                                delle cose, ero attento nel
                                guardare il raccolto, l’eremita
                                uscire, incidere la terra, farla propria
                                decidere il futuro... e allora ricordarmi
                                da sempre come già andato, morto,
                                avviato a essere odore, fumo, somiglianza
                                d’altro... ma non scomparso ancora.
Bench’io sapessi già da tempo... « anèr – ripetevi dalla macchina
riconoscendomi la pelle, i pantaloni, gli occhi –
« Kommen wir nach der Welt
around the tellus Thule qui ricostruiremo
ma qui potevi nascere una volta ».

da Il sogno di Agostino, Quaderni delle Fenice, 36, Guanda, 1978