venerdì 19 agosto 2011

Andrea Inglese


*

Camminavo su coriandoli di cortecce
finissime, bianche di riverbero, nel parco
tra betulle, olmi, platani maestosi.
Tutto il terreno ne era ricoperto
come di soffice neve.

Sul fondo, dove l’occhio si smarrisce,
la sagoma imprecisa delle ville
con i finestroni alti, il portico
d’entrata, le balconate.

Così dovrebbe essere, in continuo
andare, per pungenti strati
di foschia, nel mattino, tutto
ricordando degli abiti posati,
delle sedie portate contro il bordo
del tavolo, tutto vedendo dei vani
non riempiti, l’ombra sottile
che li taglia, lo spessore del vetro
che le macchie d’unto e di fiato
rendono appena opaco.

Camminando nel parco, tra viali
resi uniformi dal regolare
disporsi dei platani, degli olmi,
avendo il tempo di preparare
le poche frasi che servono a chiudere
la giornata, chiarire ultimi equivoci,
rispondere con precisione
al timore di morte dei passanti,
invitando a cena, quando è possibile.

In sogno questo è possibile.
La corrente raccoglie nel verso giusto.
Nel campo diurno, è sufficiente osservare
un paio di scarpe, il collo liso di una giacca,
il frigorifero che chiude male, in una casa.
E il disgusto si fa continuo, le pareti
sempre d’una spanna troppo vicine.
Nelle bocche mancano i denti,
alcuni pensieri, nelle teste,
non hanno più sbocco, spiano
interni, e gli occhi compiono cerchi
faticosi e complessi
intorno a quanto vive
o posa inerte nella luce.
Gli occhi, nel campo diurno,
cercano un punto di spegnimento.

Da La distrazione, Luca Sossella Editore, 2008

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