mercoledì 31 agosto 2011

Dionisia García


EHEU, FUGACES...

Orazio, Ode XIV, Libro II

Quando ritornerai, non staranno più qui;
saranno gli altri a dipingere i pali,
ad abbracciare le ragazze bionde;
e a regalare accendini automatici.

La moda avrà cambiato il suo colore:
le scarpe viola invecchiano
sopra le loro basi,
sul loro tempo breve nel disprezzo.

Oggi ho voluto estendere la notte
per sentire la musica del clavicordo
che mi arrivava tenue dall’assenza;
qualcuno seppe estrarre la melodia
conservata oltre la soglia del tempo.

Le ragazze se ne andarono;
nella borsa di paglia
avevano una cassetta.

L’autobus si portò via i sorrisi.

Un’aria fresca mi fece chiedere:
sarà qui la vera melodia?

Traduzione di Emilio Coco
da Poeti spagnoli contemporanei, Edizioni dell’Orso, 2008


lunedì 29 agosto 2011

Massimo Gezzi


MATERIES AETERNA

                                                                              nisi materies aeterna teneret
                                                                                                                         Lucrezio

Mi alleno cosi: imparo a numerare
le ombre che mi passano fra palpebra
e pupilla mentre dormo, e quando mi sveglio
devo solo limitarmi a ripetere
l’identico gesto con i vivi –
se le cose fossero le cose
non potrebbero cambiare di valore
in poco tempo: al muro stamattina una bici
che solo un giorno fa era un mezzo
con due ruote è cavalcata da un fantasma –
se le cose restassero cose per sempre,
se non decidessero di saltare sulle dita,
di smaterializzarsi (una notte di lavaggi
ho impiegato per togliermi dal pollice
1l puzzo dell’aglio) – invece le cornacchie
tossiscono sui coppi,
e non se ne avvedono, e il suono
passa vetri e guarnizioni e salta dentro
una persona, conformandosi
alla storia precisa di nevrosi
di ognuno – se le cose restassero le cose,
se fossero forme coerenti e ripetibili
e non si rovinassero le sagome nel tempo:
ora una stessa carne sarebbe il mio guanciale,
e i chiodi sul muro racconterebbero
la storia del mio corpo,
ficcàti bene dentro da bambino,
lasciati a metà quando sai
che poi col martello non riesci a sradicarli,
se non resta uno spazio.
                                            Niente più capelli
nello scarico del bagno, il bolo scende giù
nella rete fognaria, si trasforma in poltiglia
che nutre non so cosa. Avrei desiderato
un tappeto di capelli, per dormire: stenderlo per terra,
rigirarmi quattro volte su me stesso
fino a sentire la tensione delle spire dipendere
da un minimo scatto della testa. Invece,
i capelli sono andati a finire
nei tombini, sono persi come persa
è la foglia che si sbriciola e diventa
frantume che non ricorda più nulla
della gemma.
                              I cancelli dell’università
diventano più freddi con il freddo,
ogni sera fanno il solito
strido di chiusura quando viene
il custode a inchiavarli – per anni
resteranno ancora lì, fino a che
in un giorno come tanti un altro uomo
batterà con il martello sui cardini
per estrarli dal cemento – la ruggine
che rode la vernice farà un’ombra
sulla pietra – saranno trasportati
su un furgone, abbandonati in un deposito
o buttati in un fosso – dove rimarranno
in incognito cancelli, appiglio
di convolvoli, pettine di erbe: nessuno saprà
che aprendosi sui perni gemevano
di attriti - le lumache passeranno
tra le sbarre agilmente.

Da L’attimo dopo, Luca Sossella Editore, 2009

venerdì 26 agosto 2011

Daniela Attanasio


*

poi è accaduto qualcosa che non so capire
qualcosa in agguato da tempo
una crescita della ragione, una sproporzione
di fatti e di incertezze

ora non posso più ridurre il mio amore al tuo nome –
tu non sei più una pianta traboccante di gemme
ma uno smorto giardino
condannato all’abbandono.

Nel vento nuovo d’estate l’odore delle piante
si mischia con la polvere e il catrame
tre o quattro gabbiani stridono sopra i tetti con voce umana
come le berte che di notte a Linosa
ghiacciavano il sangue nel grido fossile di un neonato

la luna crepita il nero delle sue ferite
la sua luce balena da un cielo duro
e mi lava la faccia

vieni luna gentile, lava le pietre della mia memoria
attraversa con i tuoi raggi bianchi cuore e cervello
chiudimi dentro una suadente amnesia

Da Il ritorno all’isola, Nino Aragno Editore, 2010

mercoledì 24 agosto 2011

Francisco Brines


OMAGGIO E RIMPROVERO ALLA VITA


Come mi piacerebbe vederti lì seduto,
appoggiato, ragazzo, al tronco di quel pino,
come nei vecchi giorni già perduti,
sentendo i canti degli uccelli alti
coprire la tua testa,
mentre, di ramo in ramo, scendono dall’azzurro,
e vedere i tuoi occhi neri pensierosi.
E che mi parlassi della vita
con la capacità del tuo entusiasmo.
Espiare la tristezza che ora nascondi,
fino al delirio amare la tua innocenza.
Che così mi guardassi e mi parlassi.
Sentirti a me vicino, eppure estraneo.
E che tu non sapessi chi sono io,
che non mi indovinassi,
non conoscendo, pur se consapevole,
la stranezza e il mistero della vita.
Hai le mani piene dell’oro della luce dei mattini.
Il nome del luogo è oggi uguale a quello di ieri,
ma né tu né io,
né questa casa che amammo, sono gli stessi.
Guarda, altrimenti, le mie mani e dimmi
che è stato di tanta luce e di quelle mattine.

Ma non guardare le ombre sulle mie mani.
Devo ancora venire,
o quel che più mi attrista, te ne sei già andato.


Traduzione di Emilio Coco
da Poeti spagnoli contemporanei, Edizioni dell’Orso, 2008

lunedì 22 agosto 2011

Marco Vitale


TRE POESIE


*

Fuori piove di nuovo il foglio è bianco
il sonno un tenue filamento
che torni ad ascoltare. Ancora
accesa è la lampada, riposi
un poco gli occhi e un poco
domandi con parole che sembrano

polveri nel velario dell'acqua


*

Non avevo mai visto così solo
un angelo sorreggere una rosa
di luce come un curvo
Atlante il peso e i sogni della Terra
Non vedevo il suo coro
ma le ali il vento di lassù le aveva
ora consunte – tendere
ai lati quel bel disco
che la pazienza di una gente
anonima scolpì perché restasse
come stasera, così chiaro, in alto

sul pianto della pietra e il silenzio cristiano



*

                                                         a mio padre

Fu l’estate di Eusebio e Bobby Charlton
del grande Yascin di quel goal fantasma
sul bel prato di Wembley
I nostri solo furono umiliati
dalla beffa inattesa di un dentista
lo raccontavano alla radio e tu
per noi ma consolandoci
con quel profumo di bel gioco e d’Inghilterra

Sarà per questo che s’impiglia ancora
nella rètina il dono dei colori
delle maglie e lo schema
coi nomi delle squadre
da te ripreso con impegno
in una sera dopo il mare

Le quattro finaliste come poi mi parvero
per sempre le più forti del mondo

da Canone semplice, Jaca Book, 2007

venerdì 19 agosto 2011

Andrea Inglese


*

Camminavo su coriandoli di cortecce
finissime, bianche di riverbero, nel parco
tra betulle, olmi, platani maestosi.
Tutto il terreno ne era ricoperto
come di soffice neve.

Sul fondo, dove l’occhio si smarrisce,
la sagoma imprecisa delle ville
con i finestroni alti, il portico
d’entrata, le balconate.

Così dovrebbe essere, in continuo
andare, per pungenti strati
di foschia, nel mattino, tutto
ricordando degli abiti posati,
delle sedie portate contro il bordo
del tavolo, tutto vedendo dei vani
non riempiti, l’ombra sottile
che li taglia, lo spessore del vetro
che le macchie d’unto e di fiato
rendono appena opaco.

Camminando nel parco, tra viali
resi uniformi dal regolare
disporsi dei platani, degli olmi,
avendo il tempo di preparare
le poche frasi che servono a chiudere
la giornata, chiarire ultimi equivoci,
rispondere con precisione
al timore di morte dei passanti,
invitando a cena, quando è possibile.

In sogno questo è possibile.
La corrente raccoglie nel verso giusto.
Nel campo diurno, è sufficiente osservare
un paio di scarpe, il collo liso di una giacca,
il frigorifero che chiude male, in una casa.
E il disgusto si fa continuo, le pareti
sempre d’una spanna troppo vicine.
Nelle bocche mancano i denti,
alcuni pensieri, nelle teste,
non hanno più sbocco, spiano
interni, e gli occhi compiono cerchi
faticosi e complessi
intorno a quanto vive
o posa inerte nella luce.
Gli occhi, nel campo diurno,
cercano un punto di spegnimento.

Da La distrazione, Luca Sossella Editore, 2008

mercoledì 17 agosto 2011

Carlos Marzal


UCCELLO DEL MIO SPAVENTO

Uccello del mio spavento,
pellegrino usignolo di stupore,
lascia la tua migrazione per un attimo,
abbandona il tuo errare immotivato,
volgi nell’aria inospite le tue ali,
e dirigi la rotta verso il paese
della chiaroveggenza permanente,
quel fatale paesaggio senza scusa
di essere sempre insonne.

Uccello del mio spavento,
delicato usignolo della mia inquietudine,
plana gracile sull’odioso mondo
e posati su quel ramo che l’albero
delle certezze serba ancor per te.

Tu non ignori, uccello del delirio,
con la tua saggezza atroce di realtà,
che è un debole sogno essere in vita,
una luce spettrale che di notte si estingue.
Tu non ignori, uccello inconsolabile,
che si spegnerà il sole e l’universo
sarà steppa gelata senza coscienza di steppa,
senza memoria del sole né del suo smarrimento,
senza uccello che voli inconsolabile.

Per questo adesso voglio, uccello malinconico,
che intoni la canzone del nonsenso,
e che il tuo trillo fievole risuoni,
in un istante di purezza eterna,
come un’azione di grazia assoluta;
che il tuo gorgheggio sia una preghiera
per il prossimo dio dello sconcerto,
inno eseguito in acconto del nulla,
impulso di splendore casuale
che ovunque si propaghi,
e celebri nel suo perfetto scandalo
le torpide rovine del futuro.

Dimentica così i tuoi smarrimenti,
calda creatura d’angoscia,
usignolo dell’anima mia errante,
uccello di spavento.

Traduzione di Emilio Coco
da Poeti spagnoli contemporanei, Edizioni dell’Orso, 2008

 

lunedì 15 agosto 2011

Alessandro Ricci

DONNE


Se è vero che la sofferenza d’amore possono misurarla
i nipoti di Freud, il prof. Cazzullo, gli stregoni, dio padre
onnipotente e chi altro mai negli intermundia
delle trascendenze, fino al punto di convincerci
che tutto sommato non ci va malissimo o che, amen,
è stata una pessima idea, noi stiamo al fenomeno:

chi scava il corridoio e vuota i posacenere
nei sacchetti di plastica e questi nei cassonetti sotto
casa guardando con invidiosa malizia i palombari
della N. U. sprofondarli con gli altri universi pattumi
nei camion(s) bianchi e verdoni che fanno il giro
degli isolati – nel senso reale e metaforico
della parola – e poi risale a dirlo alle piante,
allo specchio senza guardarsi, al bottiglione
di odio controllato senza contare i bicchieri…

E chi danza.

Perché nelle sale da ballo – classico o moderno che sia – non
si insegna la storia: né le vittorie di Pirro, né la presa
di Singapore, e meno che mai i proclami delle porche
madonne sull’abbattimento dei muri e i turni
alle culle piene senza concorso di padri; promesse
velocemente disdette, ma fatte, firmate ed approvate
in un ristorante cinese di mezza periferia, mezza estate
ed intera finzione.

(inedita)

venerdì 12 agosto 2011

Gianfranco Palmery

*

Di me non so più che un perpetuo
star male, mancare, fermarmi
in ogni luogo, come capita, a ogni momento
per ridar fiato all’affanno, polso al corpo
svuotato: vento, animo, con qualche
goccia sulla lingua mi comunico
con la mente umana che ha immaginato
non redenzioni, ma soccorsi, veloci
salvezze, in strade o stanze, dove mi sfinisco
in un perpetuo star male, mancare, cedere
di colpo tutto: tormento circolare
che solo il sonno interrompe o qualche
goccia sulla lingua liquida
per un momento – non facendomi sapere
      di me più che il lento annullamento


da Compassioni della mente, Passigli, 2011

mercoledì 10 agosto 2011

Luis Alberto De Cuenca

AVVERTENZA AL LETTORE

Udendo Dinah Washington, alle dieci di sera
di un ventitré di ottobre, vorrei dire al presunto
lettore della mia «letteratura»
che cerchi di evitarla come si evita un ospite
molesto – un erudito, un topo dentro il bagno –,
e se per un motivo che mi sfugge,
vuol continuare a leggerla, intenda ciò che legge
per quello che è: un grido (o un sussurro) di angoscia
e solitudine.

Traduzione di Emilio Coco
da Poeti spagnoli contemporanei, Edizioni dell’Orso, 2008

lunedì 8 agosto 2011

Vittorio Bodini

Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto da bestia macellata.
L'aria è piena di sangue,
e gli ulivi, e le foglie del tabacco,
e ancora non s'accende un lume.

Un bisbigliare fitto, di mille voci,
s’ode lontano dai vicini cortili:
tutto il paese vuole far sapere
che vive ancora
nell'ombra in cui rientra decapitato
un carrettiere dalle cave. Il buio,
com’è lungo nel Sud! Tardi s’accendono
le luci delle case e dei fanali.

Le bambine negli orti
ad ogni grido aggiungono una foglia
alla luna e al basilico.


da Tutte le poesie, Besa, 2010

venerdì 5 agosto 2011

Francesco Villalba

EPIGRAMMA ROMANO

La luna sull’azzurra non celeste
Banca d’America e d’Italia
Galeone nella rada illuminata
Dell’ondoso Tritone serale

E l’aria gelata che solleva,
Appena volge l’angolo, le accese
Tovaglie a inaspettati tavolini
Approdi ormai deserti dell’estate

Placano all’improvviso non so come
Il duello della Voce e del Silenzio
Che disciolgono in stupore le armi
Mentre salgo la via Francesco Crispi.

Dicembre 1963



Notizia

Francesco Villalba (Roma 1940-1969) è autore di poesie e prose che apparvero in varie riviste attive negli anni ’60, quali «La Fiera Letteraria», «Letteratura», «Arte e Poesia». Solitario ma non isolato, non è azzardato affermare che i suoi versi intensi e nuovi abbiano esercitato una segreta o non riconosciuta influenza su alcuni poeti suoi coetanei o di lui più giovani.
Altre notizie su Villalba si possono leggere in «Pagine», XVII, 53, ottobre-dicembre 2007. Il numero contiene una rievocazione di Gianfranco Palmery, che gli fu amico, e la poesia Epigramma romano.

I versi che pubblichiamo sono tratti dalla rivista «Arte e Poesia», 4-6, sett.-dic. 1969 (De Luca Editore, Roma).

mercoledì 3 agosto 2011

José María Alvarez

LA BAMBINA DI DUINO

Fu in una mattina di settembre. Il mare risplendeva
come il sole in uno specchio. Io
venivo da Trieste, e mi fermai
in un piccolo ristorante vicino alla spiaggia
sotto il castello di Duino.
Assaporavo un bianco
eccellente e qualche riccio, quando
come in sogno, dalle acque
emerse una creatura fantastica.
Non aveva più di nove anni.
Lunghi capelli lisci come l’oro,
nuda, molto abbronzata. Che spuntava
dal mare come la luce
dell’alba. Mi passò accanto
lasciando al suolo le sue impronte
umide. M’innamorai del suo volto, dei suoi
occhi, di quelle forme
acerbe e perfette, la sua immagine
s’impadronì della mia anima. Il suo sguardo
non aveva fondo, con la forza
di chi ignora la sofferenza, ogni gesto
esaltava la bellezza
selvaggia di un mistero animale. Guardandola
compresi che m’era stato concesso
di contemplare qualcosa di sacro.
Era un dio al quale affidarti.
Pura lode.

E adorando quella bellezza, desiderai
che nell’ora della morte
fosse lei che, uscendo
dalle acque della mia vita, venisse
come quella mattina
e prendendomi per mano
mi guidasse alla distruzione.


Traduzione di Francesco Dalessandro
José María Alvarez, El escudo de Aquiles, Ediciones del Dragón, 1987

lunedì 1 agosto 2011

Cesare Pavese

LO STEDDAZZU

L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquìo.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonn0 tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

Da Le poesie, Einaudi, 1998