mercoledì 29 giugno 2011

Ezra Pound

SESTINA: ALTAFORTE

Loquitur: En Bertrans de Born.

Dante Alighieri mise quest’uomo nell’inferno
perché era un seminatore di discordia.
Eccovi!
Giudicate!
Scavando l’ho tratto fuori nuovamente?
La scena è al suo castello, Altaforte. «Papiols» è il suo giullare.
«Il Leopardo», la divisa di Riccardo Cuor di Leone.



1
All’inferno! la pace appesta tutto il nostro Sud.
Tu, cane bastardo, Papiols, vieni! Diamoci alla musica!
Io non ho vita tranne quando cozzano le spade.
Ma quando vedo stendardi d’oro, di vaio, violacei, opporsi
E i vasti campi sotto loro farsi vermigli,
Allora urla il mio cuore quasi pazzo di gioia.

2
Nell’ardore dell’estate provo immensa gioia
Quando le tempeste sulla terra ne uccidono la sporca pace,
E i fulmini dal cielo nero sfolgorano vermigli,
E i tuoni furiosamente ruggiscono a me la loro musica
E i venti ululano tra le pazze nuvole, nell’opporsi,
E per tutto il cielo lacerato le spade di Dio cozzano.

3
Conceda l’inferno di sentire presto il cozzo delle spade!
E i nitriti acuti dei destrieri che gioiscono nella battaglia,
Petto chiodato opporsi a petto chiodato!
Meglio un’ora di battaglia che un anno di pace
Con tavole opime, lazzi osceni, vino e lieve musica!
Bah! non c’è vino che eguagli il vermiglio del sangue!

4
E io amo vedere il sole levarsi rosso-sangue.
E guardo le sue lance per il buio cozzare di armi
E mi riempie il cuore di gioia
E mi empie la bocca di una forte musica
Quando lo vedo così sdegnare e sfidare la pace,
La sua forza solitaria alle grandi tenebre opporsi.

5
L’uomo che teme la guerra e s’accascia opponendosi
Alle mie parole per la battaglia, non ha sangue vermiglio,
Adatto solo a marcire nella femminea pace
Lungi da dove il valore ha vinto e le spade cozzano
Per la morte di tali baldracche io gioisco;
Sì, riempio tutta l’aria della mia musica.

6
Papiols, Papiols, alla musica!
Non c’è suono che eguagli l’opporsi di spade a spade,
Né grido simile all’urlo di gioia in battaglia
Quando gomiti e spade stillano sangue vermiglio
E le nostre cariche cozzano contro l’assalto del «Leopardo».
Maledica per sempre Iddio quelli che gridano «Pace»!

7
E che la musica delle spade vermigli li renda!
L’inferno conceda presto che di nuovo s’oda il cozzar delle spade!
L’inferno cancelli in nero per sempre il pensiero «Pace»!


Traduzione di Alfredo Rizzardi
da Opere scelte, Meridiani Mondadori, 1970   

lunedì 27 giugno 2011

Dante

AL POCO GIORNO ED AL GRAN CERCHIO D’OMBRA



Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra
son giunto, lasso, ed al bianchir de’ colli
quando si perde lo color ne l’erba;
e ’l mio disio però non cangia il verde,
si è barbato nella dura pietra
che parla e sente come fosse donna.

Similemente questa nova donna
si sta gelata come neve all’ombra;
che non la move se non come pietra
il dolce tempo che riscalda i colli
e che li fa tornar di bianco in verde,
perché·lli cuopre di fioretti e d’erba.

Quand’ell’ha in testa una ghirlanda d’erba
trae della mente nostra ogni altra donna;
perché si mischia il crespo giallo e ’l verde
sì bel, ch’Amor li viene a stare all’ombra,
che m’ha serrato intra piccioli colli
più forte assai che la calcina pietra.

La sua bellezza ha più vertù che pietra,
e ’l colpo suo non può sanar per erba;
ch’i’ son fuggito per piani e per colli
per potere scampar da cotal donna;
e dal suo lume non mi può far ombra
poggio né muro mai né fronda verde.

Io l’h0 veduta già vestita a verde
sì fatta, ch’ell’avrebbe messo in pietra
l’amor ch’i’ porto pur alla sua ombra;
ond’io l’ho chiesta in un bel prato d’erba
innamorata com’anche fu donna,
e chiuso intorno d’altissimi colli.

Ma ben ritorneranno i fiumi a’ colli
prima che questo legno molle e verde
s’infiammi, come suol far bella donna,
di me, che mi torrei dormire in pietra
tutto ’l mio tempo e gir pascendo l’erba,
sol per veder du’ suoi panni fanno ombra.

Quandunque i colli fanno più nera ombra,
sotto un bel verde la giovane donna
la fa sparer come pietra sott’erba.


da Rime, a cura di Domenico De Robertis, Edizioni del Galluzzo, 2005

venerdì 24 giugno 2011

Attilio Bertolucci

RIVOLGENDOSI ALLA PROPRIA ANIMA

Tutte le piante che abbiamo amato
tu e io le vere e le dipinte
che s’inverano nel ricordo e s’abbracciano
mortalmente dai muri reclusi

del Palazzo di Giovanni Rossetti
a quelle affaticate del suo parco –
pini innevati da un lungo inverno
e magnolie stuprate nella carne

bambina e già materna in un’estate
che non può non essere fuggevole –
dobbiamo anima mia onorarle
e salutarle forse per l’ultima volta?

Le vedi allontanarsi in senso opposto
a te che t’allontani da loro e si trascinano stormi
di ospiti invadenti da primavere future
in cori assordanti di figure e canti?

Addio e addio ancora sante piante.

da Verso le sorgenti del Cinghio, Garzanti, 1993

mercoledì 22 giugno 2011

Wisława Szymborska


QUALCHE PAROLA SULL'ANIMA

L'anima la si ha ogni tanto.
Nessuna la ha di continuo
e per sempre.

Giorno dopo giorno,
anno dopo anno
possono passare senza di lei.

A volte 
nidifica un po’ più a lungo
solo in estasi e paure dell'infanzia.
A volte solo nello stupore
dell'essere vecchi.

Di rado ci dà una mano
in occupazioni faticose,
come spostare mobili,
portare valigie
o percorrere le strade con scarpe strette.

Quando si compilano moduli
e si trita la carne
di regola ha il suo giorno libero.

Su mille nostre conversazioni
partecipa a una,
e anche questo non necessariamente,
poiché preferisce il silenzio.

Quando il corpo comincia a dolerci e dolerci,
smonta di turno alla chetichella.

È schifiltosa:
non le piace vederci nella folla,
il nostro lottare per un vantaggio qualunque
e lo strepito degli affari la disgustano.

Gioia e tristezza
non sono per lei due sentimenti diversi.
È presente accanto a noi
solo quando essi sono uniti.

Possiamo contare su di lei
quando non siamo sicuri di niente
e curiosi di tutto.

Tra gli oggetti materiali
le piacciono gli orologi a pendolo
e gli specchi, che lavorano con zelo
anche quando nessuno guarda.

Non dice da dove viene
e quando sparirà di nuovo,
ma aspetta chiaramente simili domande.

Si direbbe che
così come lei a noi,
anche noi
siamo necessari a lei per qualcosa.

Traduzione di Pietro Marchesani
da La gioia di scrivere, Adelphi, 2010





lunedì 20 giugno 2011

Andrew Marvell

DIALOGO FRA L’ANIMA E IL CORPO

Anima
Chi rialzerà da questa prigionia
un’anima costretta a esser schiava
in mille modi? Con catenacci d’ossa,
incatenata ai piedi, con le mani
ammanettate, qui accecata a un occhio,
là assordata da rulli di tamburi
ad un orecchio. Un’anima legata
da catene di nervi arterie e vene
e, oltre ogni altra parte, torturata
in una testa vuota e un cuore doppio.

Corpo
Chi mai potrà liberarmi del tutto
dai ceppi di quest’anima tirannica?
Ergendosi m’impala ad un’altezza
che mi fa il precipizio di me stesso,
eccita e spinge quest’inutile carcassa
(come neanche una febbre lo potrebbe).
Volendo un dove per provare il suo livore
mi diede vita per farmi morire.
Un corpo che non ebbe mai riposo
posseduto da quel malvagio spirito.

Anima
Quale magia poté imprigionarmi
nel dolore di un altro da patire
dove per ogni cosa che lo affligge,
anche se non potrei, provo dolore?
Tutta la mia attenzione è dedicata
a difendere quel che mi distrugge –
obbligata non solo a sopportare
il male ma di peggio: la sua cura –
e pronta spesso a guadagnare il porto
nella salute torno a naufragare.

Corpo
Ma la Fisica non potrà comprendere
le malattie che tu stessa mi insegni:
prima tra tutte mi strazia il crampo
della speranza e subito lo spasmo
della paura; la peste dell’amore
brucia, o divora l’ulcera dell’odio;
la follia lieta della gioia mi confonde,
m’irrita invece la follia del dolore;
questo la conoscenza costringe a sapere,
né la memoria vi vuol rinunciare.
Che cosa con arguzia se non l’anima
poteva farmi così adatto al peccato?
Gli architetti così tagliano e squadrano
i verdi alberi cresciuti nella foresta.

Traduzione di Francesco Dalessandro


Andrew Marvell, Selected Poems, Oxford University Press, 1994

venerdì 17 giugno 2011

Camillo Sbarbaro

TACI, ANIMA STANCA DI GODERE

Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
                                    Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
                                Noi non ci stupiremmo
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato...
                 Invece camminiamo.
Camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
                 Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.

Da Pianissimo, Marsilio, 2001

mercoledì 15 giugno 2011

Tristan Corbière

ORE

Elemosina al malandrino a caccia!
Malocchio all’occhio assassino!
Ferro contro ferro allo spadaccino!
La mia anima non è in stato di grazia! –

Io sono il pazzo di Pamplona,
ho paura del riso della Luna
bacchettona, col suo nero velo...
Orrore! è dunque tutto uno spegnitoio il cielo.

Sento come un rumor di raganella...
è la mala ora che fa il suo appello.
Nel vuoto delle notti cade: un rintocco, due rintocchi.

Di ore ne ho contate piu di quattordici...
Ogni ora è una lacrima. – Quanti pianti
mio cuore!... Ma ora non conti piu – canti.

Traduzione di Gianfranco Palmery
da Quel rospo sono io, Il Labirinto, 2006

lunedì 13 giugno 2011

Torquato Tasso

RAGIONA CON L’AURE E CON L’ORE AFFETTUOSAMENTE

Ore, fermate il volo
nel lucido oriente,
mentre se ’n vola il ciel rapidamente:
e carolando intorno
a l’alba mattutina
ch’esce da la marina,
l’umana vita ritardate e ’l giomo.
E voi, Aure veloci,
portate i miei sospiri
là dove Laura spiri:
e riportate a me sue chiare voci,
sì che l’ascolti io solo,
sol voi presenti e ’l signor nostro Amore,
Aure soavi ed Ore.




da Aminta e rime, a cura di Francesco Flora, Einaudi, 1976

venerdì 10 giugno 2011

GENERAZIONI DI FOGLIE





La specie umana come generazioni di foglie. Il tema fu introdotto da Omero (Iliade VI, 145-149, e anche XXI, 462-466), ripreso da Mimnermo e da Virgilio (Eneide, VI, 305-312), più tardi da Dante (Inferno, III, 112-117). Particolare fortuna sembra aver avuto nell’Ottocento, trattato da diversi poeti (Shelley nell’ultima strofe dell’Ode to the West Wind, Lamartine, Leopardi nella sua piccola Imitazione, il russo Tjutčev, Gerard Manley Hopkins), e ad inizio Novecento (Rilke, Trofa e Ungaretti).
Ognuno di questi poeti, nel corso del tempo, ha ripensato l’antico tema a suo modo, introducendo variazioni di tono, ovvero privilegiando, nella similitudine fra gli uomini e le foglie, la caducità o la brevità della loro vita, la loro dispersione, ma anche la rinascita e il rinnovamento.
Lunedì avete letto Mimnermo, nella versione di Quasimodo; mercoledì, i poeti dell’Ottocento, da Shelley a Hopkins. Oggi, ecco Rilke, Trofa e Ungaretti.



RAINER MARIA RILKE (1875-1926)
Autunno

Le foglie cadono da lontano, quasi
giardini remoti sfiorissero nei cieli;
con un gesto che nega cadono le foglie.

Ed ogni notte pesante la terra
cade dagli astri nella solitudine.

Tutti cadiamo. Cade questa mano,
e così ogni altra mano che tu vedi.

Ma tutte queste cose che cadono, Qualcuno
con dolcezza infinita le tiene nella mano.

Traduzione di Giacomo Cacciapaglia
da Poesie, Einaudi-Gallimard, 1994



LUIGI ANTONIO TROFA (1879-1936)


Steme comm’a la fronne sotte vierne:
ze reie e nen ze reie ’mbacce a la chiante.

Stiamo come la foglia sotto inverno: / si regge e non si regge sulla pianta.

(Fronte dell’Isonzo, agosto 1916)

da Giuseppe Rosato, Sentimento del Molise in Luigi Antonio Trofa, per Banca Popolare del Molise, Campobasso, 1972


GIUSEPPE UNGARETTI  (1888-1970)
Soldati

Si sta come  
d’autunno  
sugli alberi  
le foglie.

(Bosco di Courton, luglio 1918)


da Vita d’un uomo, Meridiani Mondadori, 1971


mercoledì 8 giugno 2011

GENERAZIONI DI FOGLIE




La specie umana come generazioni di foglie. Il tema fu introdotto da Omero (Iliade VI, 145-149, e anche XXI, 462-466), ripreso da Mimnermo e da Virgilio (Eneide, VI, 305-312), più tardi da Dante (Inferno, III, 112-117). Particolare fortuna sembra aver avuto nell’Ottocento, trattato da diversi poeti (Shelley nell’ultima strofe dell’Ode to the West Wind, Lamartine, Leopardi nella sua piccola Imitazione, il russo Tjutčev, Gerard Manley Hopkins), e ad inizio Novecento (Rilke, Trofa e Ungaretti).
Ognuno di questi poeti, nel corso del tempo, ha ripensato l’antico tema a suo modo, introducendo variazioni di tono, ovvero privilegiando, nella similitudine fra gli uomini e le foglie, la caducità o la brevità della loro vita, la loro dispersione, ma anche la rinascita e il rinnovamento.
Lunedì avete letto Mimnermo, nella versione di Quasimodo. Oggi, ecco i poeti dell’Ottocento, da Shelley a Hopkins. Venerdì, Rilke, Trofa e Ungaretti.




PERCY BYSSHE SHELLEY (1792-1822)
da Ode al vento occidentale, V

Fa’ di me la tua lira come il bosco.
Le nostre foglie appassiranno insieme
ma l’impeto di quelle tue armonie
trascinatrici a noi farà sgorgare
un gemito profondo ed autunnale
pur dolce nella sua tristezza. Sii
il mio spirito tu, spirito fiero!
Spargi sull’universo i miei pensieri
come foglie avvizzite a nuova nascita!
Sommuovi con il fascino di questi
versi come da un ceppo inestinguibile
e ceneri e faville in mezzo agli uomini.
E per la terra ancora addormentata
sii traverso le mie labbra la tromba
di una profezia. L’inverno viene,
ma può la primavera essere lontana?

Traduzione di Franco Giovanelli
da Poesie, Newton Compton, 2008


GIACOMO LEOPARDI (1798-1837)
Imitazione (da Antoine-Vincent Arnault)

Lungi dal proprio ramo,
povera foglia frale, 
dove vai tu? – Dal faggio
là dov’io nacqui, mi divise il vento.
Esso, tornando, a volo
dal bosco alla campagna,
dalla valle mi porta alla montagna.
Seco perpetuamente
vo pellegrina, e tutto l’altro ignoro.
Vo dove ogni altra cosa,
dove naturalmente
va la foglia di rosa,
e la foglia d’alloro.

Da Canti, Einaudi, 1969


FJODOR I. TJUTČEV (1803-1873)
Le foglie

Stiano alti tutto l’inverno
I pini e gli abeti,
E di neve e bufere
Dormano avvolti.
Il loro scarno verde,
Come gli aghi di un riccio,
Se mai non ingiallisce,
Pure non è mai fresco.

Noi, popolo lieve,
Fioriamo e splendiamo
E solo per breve tempo
Siamo ospiti dei rami.
Tutta la splendida estate
Siamo state in bellezza,
Abbiamo giocato coi raggi,
Immerse nella rugiada.

Ma è finito il canto degli uccelli,
E i fiori sono sfioriti,
Più pallidi sono i raggi,
E gli zefiri sono lontani.
Perché dunque invano
Pendere e ingiallire?
Non è forse meglio per noi
Volar via con i venti?

O venti furiosi,
Più veloci, più veloci,
Più veloci strappateci via
Dai rami noiosi!
Strappateci, portateci via,
Non vogliamo aspettare.
Volate, volate!
Voleremo con voi.

Traduzione di Eridano Bazzarelli
da Poesie, BUR, 1993


GERARD MANLEY HOPKINS (1844-1889)
Primavera e autunno (a una bambina)

Margherita, ti rattrista
che Goldengrove perda le foglie?
Le foglie, come le cose umane, con i tuoi
freschi pensieri tu le curi, puoi?
Ah, ma il cuore indurendo via via
più freddo a quella vista non spende
un sospiro, anche se mondi di foglie
frantumate giacciono morte spoglie;
però tu piangerai e saprai perché.
Ora, bambina, non importa il nome:
le fonti del dolore sono uguali.
Né la bocca, o la mente, aveva detto
ciò che il cuore sentiva e l’anima intuiva:
per il danno cui l’uomo è nato,
per Margherita, per te stessa piangi.

Traduzione di Francesco Dalessandro


The Poems of Gerard Manley Hopkins, Oxford University Press, 1967