lunedì 30 maggio 2011

John Keats

SE DEVO ABITARE CON TE, SOLITUDINE

Se devo abitare con te, solitudine,                            
che non sia nel disordine di case buie;                    
sali con me al naturale belvedere
che i clivi fioriti della valle e l’onda
cristallina del fiume fa sembrare
miniature; veglia con me dove i rami
intrecciano un riparo e il daino saltando
rapido scaccia l’ape dal calice del fiore.
Con te traverserei lieto quei luoghi,   
ma l’amabile colloquio d’una mente
innocente, quando parole sono immagini
di fini pensieri, è piacere dell’animo;                   
e è bene supremo del genere umano
quando spiriti affini si rifugiano in te.



Traduzione di Francesco Dalessandro



John Keats, Poetical Works, Oxford University Press, 1972  

venerdì 27 maggio 2011

Fabio Ciriachi



LE RAGIONI DEL DOPO



(E ALTRE POESIE PER ALESSANDRO RICCI)






Rigori

Da dove vieni luce del Novanta-
quattro, casa di Sandro, il Mondiale
USA, l’azzurro di Daniela fianco
a fianco mentre Baggio sbagliava il
rigore, ritorni in quest’ottobre di
spaventi e tenti di convincermi
che non loro - passaggi mai passati -
erano il cuore dell’incantamento
ma un’aria quasi donna che ci amava
soffiando tra di noi tutta presente.


Le ragioni del dopo

Un giorno Sandro s’innamorò
del Marai de Le braci, amava chiunque
amasse quel libro, per questo quando
conobbe S. M. – che, interrogata
su Le braci, gli rispose:
Mi fa pensare al Turgenev
di Padri e figli e anche a Körmendi” –
lui l’amò per sempre, o almeno molto
di più e molto più a lungo
di quanto non l’abbia
riamato lei. Ma chi poteva immaginare
che dietro il suo (di Sandro)
amore per Marai abitasse
quel “15 gennaio 1989: È giunto il momento”
con cui si chiude il diario
di Sandor? E poi il colpo di pistola
del 21 febbraio con cui si chiude
la storia? Né Sandro sapeva
che il 27 agosto dell’anno prima
Sandor aveva scritto – con chiara
disciplina di deluso –
le ragioni del dopo: “Oggi
mi sono mancate molto
la nobiltà e l'eleganza del corpo
di L. Il suo sorriso, la sua voce”.
Ma L. non era S. M. e quando lei,
S. M., lo lasciò, Sandro poté
continuare a vivere, magari
vergognandosi un po’ della propria
incruenta tragedia, magari sognando
un finale alla Sandor o almeno gli stessi
validi motivi
che armarono quella vecchia
mano di non più amato.


Ospedale

Il respiro le voci luce al neon
il corridoio dove passi e passi
come lo passi il tempo come incontri
tutto quello che non hai visto mai?

E quello che già sai come ti aiuta
a sopportare questo tempo nuovo
che non ti lascia diventare vecchio
e benché poco vuole essere tutto?

Da sotto la maschera di ossigeno
hai chiesto della mano di Daniela
hai detto “Sara è brava” e poi “Scusa
se non parlo, mi stanca, parla tu”.

La mano di Daniela è guarita
la Roma non la comprano i russi
Sara ha pubblicato il suo romanzo”
e poi cose di sesso alla noi maschi.

Spenta la radiolina il silenzio
aveva la voce dell’ossigeno
un lieve sfrigolare sopra il letto
e tu pilota astrale di te stesso.

Con fatica “Vai a casa sei stanco”
mi hai detto. E io “Sandrino, sto sempre
in piedi, qui mi posso riposare”.
Hai chiuso gli occhi ho aperto il taccuino.


Morti parallele

Saremo alberi e aria soltanto
e cielo che colora di notturno
il verde attorno al chiaro dei lampioni
sul prato che ne limita il contorno.

Saremo piante, cellule del legno,
contrasto fra colori, puro sfondo,
atomi della voce quando canta
per decifrare silenziosa il mondo.

Saremo strada di casa accogliente
fanali allineati in doppia fila
banche negozi bar quello che serve
ai vivi che attraversano il presente.


Traghetto per la Sardegna

Sembrava stare lì - col suo viso
da vivo - sul morto allinearsi
dei sedili, e forse diceva,
come fosse proprio lui tornato:
Non c'è neppure il minimo spessore”
o anche, protetto da un sorriso:
Deve toccare a noi prima o poi”.
Io, poi, avevo solo guardato
altrove per mettere alla prova
l'incertezza; se Sandro è qui, pensavo,
devo trovare un posto adatto
all'incontro, lo devo preparare
alla mia sventura di troppo amato,
al perdifiato dei delusi
cui non so rinunciare,
ma c'era mare e mare
alle sue spalle, o meglio dietro dove
già non sedeva più nessuno
e nessuna traccia restava dell'amico
né si affacciava ancora il mio stupore
nel credulo fidarsi di una svista
in somiglianza.


Roma

A Trastevere, Ostiense, Salario,
a Monteverde oppure al Nomentano,
a Vigna Clara, Appio, Monte Mario,
a San Lorenzo, Testaccio, Tuscolano,
a Colonna, a Trevi, a Ludovisi,
a Castro Pretorio, al Foro Romano,
anche al Flaminio, Monti, Esquilino,
al Trieste, all’Eur, a San Saba,
al Quadraro, Aurelio, Prenestino,
a Borgo Pio, Magliana, Garbatella,
a San Giovanni come al Laurentino,
a Tor Marancio, Prati, Centocelle,
a Campo Marzio, Celio, Aventino,
a Balduina, Parioli, Tufello,
a San Pietro, Mandrione, Tiburtino,
a Montesacro e sulle consolari,
lungo le mura, sotto gli acquedotti,
a piedi, in autobus, in macchina,
ad ogni ora del giorno e della notte
quante persone che non sono Sandro!




Queste poesie fanno parte della sezione Passaggi mai passati del libro di prossima uscita per l'editrice Empiria che avrà per titolo PASTORIZIA.  

mercoledì 25 maggio 2011

Eloy Sánchez Rosillo

RECIDIVA

A volte pretendiamo
riordinare la vita
in un’altra maniera.
Diciamo: “Da oggi, basta,
mai più, così non posso
continuare”. Vorremmo
che niente ci legasse
a quel che siamo stati.
E serriamo le porte
della memoria, andiamo
poco a poco acquisendo
abilità e destrezza
nella difficile arte
della dimenticanza.
Procediamo indecisi
per estranei paesaggi
sconosciuti. Risplende
in cielo un sole raro.

Arriva il giorno, infine,
in cui siamo sicuri
che non siamo già più
quel che eravamo.
                                 Nello
specchio di questa luce
nuova, la nostra immagine,
ha un’aria ben diversa.
Con quanto confidenza
ci diciamo: “Non resta
niente di tutto quello;
ora possiamo nuova-
mente ricominciare”.

Però subito accade
qualcosa d’imprevisto:
una sera di pioggia,
un libro, le parole
di qualcuno che passa,
una musica, un volto,
un albero isolato,
la luna che trascorre
lentamente nel cielo
d’una notte di luglio.
E il caso, con la forza
di ciò ch’è inaspettato,
ci priva molto presto
del sogno d’essere altri.

Che avessimo iniziato
il viaggio non è vero:
svegliandoci, guardiamo
con sorpresa la casa
da dove credevamo
d’esser partiti.
                           E torna
la vita alle sue cose,
alle vecchie abitudini.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Eloy Sánchez Rosillo, Las cosas como fueron, Tusquets Editores, 2004



lunedì 23 maggio 2011

Guido Cavalcanti

NOI SIÀN LE TRISTE PENNE ISBIGOTTITE

Noi siàn le triste penne isbigotite,
le cesoiuzze e ’l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.

Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente:
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;

le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
ch’altro non v’è rimaso che sospiri.

Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegniate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.

da Rime, BUR, 1978



venerdì 20 maggio 2011

Alessandro Ricci

COSÌ

                                                     A S.

Le parla l’ascolta le dice
la sfiora la tocca la sente.

Ma non succede: il sedile alla sua destra
è vuoto, la cintura che
le taglia i seni in diagonale, l’uno
chino per sua dolcezza, l’altro
in alto levato, così vicino: riaccende
il loro quieto infiammarsi, quel
desiderio che li accompagna dall’inizio
del viaggio – né primo né ultimo
sia pure nel tempo che finge ma
non cessa d’esistere anche se loro
due non ci pensano non ci penseranno
mai e se lo sanno smettono
di saperlo –;
                        quella cintura non
(lo vede forte e lo dice piano) non
avvolge alcuna compagna, è
ammarata deserta piegata sola.

A Bressanone-Brixen non esco,
non esco mai – l’EGLI finisce se
non c’è LEI , quella neve eccelsa là
su, leggera sulle montagne
è neve di confine, traccia esigua,
millimetrata: indifferente o ignara,
cambia lira in scellino, verde in blu
sui cartelli stradali, rimasugli mediterranei
in tetti aguzzi, ninnoli da camera, assuefazioni
domestiche, fedeltà inutili ma non
apparenti.
                     L’onda non solo marina
che afflisse o ammaliò in sagitte di calma
le nuche dorate della Scuola Eleatica – la mia
Ascea, l’Ascea dove s’attende
chi non arriva – dista mille
e cento chilometri alle spalle,
sopravvive forse (o lo chiedo?)
nella superiore eleganza di quei cavalli
lontani al pascolo sullo smeraldo.

Sono vecchio, sono stanco, più
abbandonato che solo. Altro è il pianeta, ma meno
l’astronauta di Kubrik finito nel più bianco
dei secoli, nella stanza
più trasparente.
                             Sarà per questo?
Sarà per questo che miei
resti di vita sopravvivono in presunzione
mediocre riscatto – nelle curve più strette,
più buie di galleria, dove
risupero facilmente chi confida nei rettilinei
e lì soltanto si sente forte. Ma forse
è così che si campa.

A Vipiteno-Sterling bevo l’ultimo caffè italiano
e mi leggo dentro guardando la tranquilla
tenacia degli avventori. Sì, lo so: saranno,
sono stati provati ai funerali di chi,
di che li amò; ma sono rinati,
rinasceranno.
                         E allora.
È vanità credermi uno che manca?
È bastante il conto che pago, la pompa rossa,
il nero tubo che vedo, la sigaretta che fumo,
la porta che apro, il vetro che mi riflette in parte,
e fuori l’uccello intero dal becco strano
che mi fugge?
                          O non esisto? Sto
dove credo di stare? E se no, dove?
Sono niente, mezzo, meno? Chi m’ha preso
tutto, mezzo, più? E se l’ha fatto,
c’ero?

Non c’ero.
                   Il vuoto dell’assenza
s’è riempito di cose, persone, forse anche
parole. Mi sono, sono stato costretto
ad amare me in loro, LORO che hanno
invaso il mio posto non occupato.

                    Ora LEI. Dunque è lei
a vedere la penna d’aquila o falco sul cappello
del tirolese e i calzettoni bianchi e gli scarponi
unti di grasso animale e il camioncino azzurro
dei gelati e semifreddi che si sposta quel
tanto che basta perché possa
uscire dal parcheggio, e le chiede
quasi scusa, educatamente,
confidenzialmente?

Molto lontano un treno, di nessuno
dei due, dei tre, di tutti, ma a sé solo
sufficiente e grato, come pazzo
della sua gioia, attraversa
una frontiera più del tempo che
del luogo, senza fermarsi,
senza fermarsi,
così.

Roma, 15 febbraio 2001

(inedita)

mercoledì 18 maggio 2011

E. E. Cummings

UNA PICCOLA CHIESA

io sono una piccola chiesa (non una cattedrale)
lontana da splendori e squallori di città frettolose
-io non m’affliggo se i già brevi giorni diventano più brevi
né mi dispiace quando sole e pioggia fanno aprile

la mia vita è la vita di chi semina e miete,
le mie preghiere sono le preghiere di rozzi ragazzi della terra
che lottano (trovano e perdono ridono e piangono)
le loro gioie o tristezze sono la mia felicità o il mio dolore

un miracolo incessante fiorisce intorno a me:
nascita gloria morte e resurrezione,
su di me quando dormo fluttuano simboli ardenti
di speranza e io veglio montagne di perfetta pazienza

io sono una piccola chiesa (lontana dal frenetico mondo
del tormento e dell’estasi) in pace con la natura
-io non m’affliggo se notti già lunghe diventano più lunghe,
né mi dispiace quando il silenzio si fa canto

da inverno a primavera, la minuscola cuspide
io levo alla Sua grazia la quale sola è eterna:
eretta nell’immortale verità della Sua presenza
(con umiltà accogliendo la Sua luce, con orgoglio la tenebra)

Traduzione di Francesco Dalessandro

E. E. Cummings, 95 poems, Harcourt Brace Jovanovich, Inc, 1958,

lunedì 16 maggio 2011

Guido Cavalcanti

TU M’HAI SÌ PIENA DI DOLOR LA MENTE

Tu m’hai sì piena di dolor la mente,
che l’anima si briga di partire,
e li sospir’ che manda ’l cor dolente
mostrano agli occhi che non può soffrire.

Amor, che lo tuo grande valor sente,
dice: «E’ mi duol che ti convien morire
per questa fiera donna, che nïente
par che piatate di te voglia udire».

I’ vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,

che si conduca sol per maestria
e porti ne lo core una ferita
che sia, com’egli è morto, aperto segno.

da Rime, BUR, 1978

venerdì 13 maggio 2011

Gianfranco Palmery

FORSE CE NE ANDIAMO VIA TUTTI INSIEME

Forse ce ne andiamo via tutti insieme – avanti,
mia bella carovana: siamo rimasti
in tre di tutta la felina famiglia,
o il tempo ancora ci assottiglia – con voi
al fianco, code orecchie tese attente,
voglio entrare nella terra, nelle tenebre,
come foste la mia funebre scorta – come
correndo girando, ogni giorno, siete
guizzi lampi, un’alata pattuglia,
alle mie gambe: date fierezza, luce
quelle lasciate nella mia poesia –
al nostro inquieto corteo che si avvia.

(3.I.95)

da Gatti e prodigi, Il Labirinto, 1997

mercoledì 11 maggio 2011

Henri Cole

AUTORITRATTO CON GATTI

Andando a stendere la biancheria, visito i gatti.
«Non appartengo a nessuno» insiste Yang, pesantemente.
«Yang» rispondo, «non capisci niente».
Yin, una soriana arancione, concorda,
ma antepone la gentilezza alla rigida verità.
La ammiro ma vorrei che non idolatrasse
chi la vittimizza. È capitato anche a me.
Il suo silenzio è pungente quando Yang sfrega
il brutto corpo tartaruga addosso a lei,
stesa nel mio cosmo. «Non mi dà fastidio, davvero»
dice con le fusa, gli occhi orizzontali, la bocca
un sorriso ionio, le zampe nobilmente incrociate
sul davanti, un modello di Nirvana felino:
«Lesinando il suo affetto, mi ha fatta più forte».

Traduzione di Massimo Bacigalupo
da Autoritratto con gatti, Guanda, 2010

lunedì 9 maggio 2011

Torquato Tasso

A LE GATTE DE LO SPEDALE DI SANT'ANNA

1.

Come ne l’ocean, s’oscura e ’nfesta
Procella il rende torbido e sonante,
A le stelle onde il polo è fiammeggiante
Stanco nocchier di notte alza la testa,
Così io mi volgo, 0 bella gatta, in questa
Fortuna avversa a le tue luci sante,
E mi sembra due stelle aver davante
Che tramontana sian ne la tempesta.
Veggio un’altra gattina, e veder parmi
L’Orsa maggior con la minore: o gatte,
Lucerne del mio studio, o gatte amate,
Se Dio vi guardi da le bastonate,
Se ’l ciel voi pasca di carne e di latte,
Fatemi luce a scriver questi carmi.

2.

Tanto le gatte son moltiplicate,
Ch’a doppio son più che l’Orse nel cielo:
Gatte ci son c’han tutto bianco il pelo,
Gatte nere ci son, gatte pezzate;
Gatte con coda, gatte discodate:
Una gatta con gobba di cammelo
Vorrei vedere e vestita di velo
Come bertuccia; or che non la trovate?
Guardinsi i monti pur di partorire,
Che s’un topo nascesse, il poverello
Da tante gatte non potria fuggire.
Massara, io t’ammonisco, abbi ’l cervello
E l’occhi0 al lavezzuol ch’è sul bollire:
Corri, ve’, ch’una se ’n porta il vitello.
Vo’ farci il ritornello,
Perché il sonetto a pieno non si loda
Se non somiglia a i gatti da la coda.

da Aminta e rime, a cura di Francesco Flora, Einaudi, 1976

venerdì 6 maggio 2011

Francesco Dalessandro

UNA FOTO
                                         a Dora

Le boe rosa sull’acqua azzurro-
verde il riflesso tremulo di lunghi
alberi e pali le chiglie di barche
attraccate i pavesi e noi in posa
sul molo in attesa dello scatto,
alle spalle del porto il moderno
Arsenale, fuori quadro gabbiani
in crocchio sulla punta estrema
della baia vocianti ma sazi
di cibo come noi del nostro vizio
lieve: è il trentuno dicembre
del mille novecento ottantasette
è una tiepida sera già primaverile
su Calle Mayor e sull’intera
città apparecchiata al passaggio
dell’anno…
                      Se oggi volgendomi
guardo indietro a quell’attimo
colto e impresso da un occhio
gentile ma estraneo, un remoto
presente di serene aria e luce
non nostre di cui profittammo
presto perso e rimpianto si dona
a noi dalla foto che negli anni
è stata ricordo e ammonimento
severo; ma se guardo al futuro
impensabile inatteso che da quei
lontanissimi giorni in cui la mente
innamorata di segni a dilezioni
atroci legò il cuore poi che verdi
speranze gli si offrivano (gelo
e delusioni alternandovi) sarebbe
nato oggi ricordando il lontano
transito dall’anno ottantasette
all’ottantotto nell’ora di un altro
e più intimo passaggio dell’età
riconosco nell’attimo il nostro
sentimento (di ciò che avevamo
e perdemmo di ciò che perduto
ritrovammo) e a tale conoscenza
si fa riflessivo anche il cuore
sopportabile il peso dei ricordi
e segreta come al polso il battito
l’ansia dolce di vivere invecchiare
insieme.

(8.V.2001)



da Ore dorate, Il Labirinto, 2008

mercoledì 4 maggio 2011

José María Alvarez

SEPOLCRO CLASSICO

Fu nella primavera
del 1485. Alcuni operai scavavano
sull’Appia. Immaginate
la lentezza del mattino, certi canti.

All’improvviso, voci. I picconi
hanno colpito – scintille
del marmo – una
lapide.
Mani callose scansano
la terra. E appare
un sepolcro e una
iscrizione: “Giulia” – “Figlia di
Claudio”.
                  Quando alzano la lapide
un profumo soave – dice il
libro – dolciastro, come di fiori,
impregna l’aria. Lì c’è, addormentata,
una giovane di delicata bellezza.
Non avrà più di 15 anni, capelli di seta
le coprono le spalle, e socchiusa
(come per dare un bacio) la bocca, e le guance colorite.

Si fermarono sbalordite
quelle brave persone. E nel silenzio più profondo
contemplarono rispettose
quell’immagine che rivelava
ciò che un tempo era Roma,
ciò che una volta essi erano stati
come romani.

E davanti alla fanciulla s’inginocchiarono
come avevano imparato dalla Chiesa
a prostrarsi davanti alla Vergine.

Poi, portarono il sarcofago
in Campidoglio. E presto Roma fu meta
di pellegrini, moltitudini
d’ogni lingua e regione, che venivano
a contemplare la dormiente.

E anche nella grandezza imperitura
di quella Roma già cristiana
regnava Innocenzo VIII –
la bellezza pagana
e classica trionfò.

Traduzione di Francesco Dalessandro
José María Alvarez, El escudo de Aquiles, Ediciones del Dragón, 1987






lunedì 2 maggio 2011

Michelangelo Buonarroti

MENTRE LAVORAVA ALLA SISTINA

I’ ho già fatto un gozzo in questo stento,
come fa l’acqua a’ gatti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
c’a forza ’l ventre appicca sotto ’l mento.
La barba al cielo, e la memoria sento
in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia,
e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento.
E’ lombi entrati mi son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,
e’ passi senza gli occhi muovo invano.
Dinanzi mi s’allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco sorïano.
Però fallace e strano
surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra’ per cerbottana torta.
La mia pittura morta
difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore,
non sendo in loco bon, né io pittore.

da Rime, BUR, 1975