venerdì 29 aprile 2011

Francesco Villalba

SE AVRAI IL CORAGGIO DI ENTRARE

Se avrai il coraggio di entrare
Nei giardini di tutti e seduto
Sulla pietra esporre il tuo affanno
Ad occhi estranei (ma nessuno ti guarda)
La luna da calme finestre di foglie
E di un’emula luce nel cielo rosato
Fioriti i verdi steli dei lampioni
Nessuno ti raggiungerà ma udrai la voce
Della vita, quieta nella sera
Come il respiro di una dormiente.
E devi servirti di questi momenti
Di deboli curvature, senza abbandoni,
Tu che aspiri a linee distese di vita.
Ma forse la verità è che non sei
Né debole né malinconico
Ma vuoto e di questo non ti compiaci.

3 Agosto 1962


GLI ALBERI, LE FOGLIE, L’UOMO, IO


Gli alberi che abbandonano le foglie
Cercano la complicità del vento
Per giocare all’autunno.
Le foglie prese con violenza riposano
Intorno all’uomo che brucia le castagne
E lo coinvolgono assorto accovacciato
Nella scena del presagio invernale.
L’uomo attira un burlone che si sgamba
Avanzando su agitati bastoni
Che si ferma a comprare castagne arrosto
E vuole essere patetico ai miei occhi.
Io me ne sto con la voglia rinnovata
Di fare l’amore che in fuori mi urge
Ieri a mezzogiorno ero sopra di lei –
E intanto mi faccio gioco della vita
Del canto, di me stesso e del gioco.

Novembre 1963



Notizia


Francesco Villalba (Roma 1940-1969) è autore di poesie e prose che apparvero in varie riviste attive negli anni ’60, quali «La Fiera Letteraria», «Letteratura», «Arte e Poesia». Solitario ma non isolato, non è azzardato affermare che i suoi versi intensi e nuovi abbiano esercitato una segreta o non riconosciuta influenza su alcuni poeti suoi coetanei o di lui più giovani.
Altre notizie su Villalba si possono leggere in «Pagine», XVII, 53, ottobre-dicembre 2007. Il numero contiene una rievocazione di Gianfranco Palmery, che gli fu amico, e la poesia Epigramma romano.

I versi che pubblichiamo sono tratti dalla rivista «Arte e Poesia», 4-6, sett.-dic. 1969 (De Luca Editore, Roma).


mercoledì 27 aprile 2011

David Pujante

BUSSOLOTTI DA MUSEO

In quali cene servirono per giocare ai dadi,
quando i loro padroni arrestavano il corso
della continua festa, io non posso saperlo,
né lo voglio; perduri il mistero del passato
e all’anima offra il verso ciò che la storia nega.

In asettiche sale di musei
hanno perduto il senso ch’ebbero al loro tempo.

Così ce li descrive qualche critico:
«Considerando la precisa idea
che oggi abbiamo del classico,
un circolo di scheletri balla in altorilievo
intorno al vaso».
                               Contrappeso perfetto
della festa notturna in cui forse li usarono
tra le risa e le burle!

Potete immaginare i commensali
snervati dal vino, le loro risa alcoliche
fetide e patetiche.

Quante coppe trincate a affogare lo spirito:
la coscienza insaziabile e tragica dell’uomo!
Si fa prima a ferire col ferro il mare o il vento
che a vincere la smania della mente.

Uomini tristi che trascinano la vita
sono riuniti in un podere, a Boscoreale.
Nessuno pensa all’aurora impudica
che con le fresche dita alza le coltri
e con ali di freddo dissipa il sopore.
Credono che la notte – così propizia alla disperazione! –
sia senza fine. Entrandovi sprofondano
nel fantastico gorgo dell’immensa
tenebra, si dilettano in chiacchiere volgari;
si perdono nei giochi…
                                         I bussolotti
suonano – non ancora da museo –
tra le mani deformi, artritiche ed untuose.
E nel breve contorno del bussolotto mostra
la sua morta presenza il giro degli scheletri.
Uguali nel post mortem, solo qualche
particolare: una lira una maschera…
rivela il loro ceto quando, vivi,
li copriva la carne. E un’iscrizione,
di fianco, incisa a punta,
imita l’esistenza di chi non ne ha più una
in grazia di quel nome che gli uomini ricordano:
anche questo è la gloria.

Ma certo tra il clamore di risate e battute,
in uno dei signori del bacchico festino
qualche volta s’insinua
la gelida coscienza del tragico non senso;
forse quando raccoglie il vaso con i dadi
e anziché alzarlo subito per aria
nel volteggio sonoro si sofferma a guardarlo:
tra le ghirlande del rilievo legge
i nomi di quegli uomini che furono gli spettri.
Giunto al nome di Mosco o Menandro, alla base
del vaso un’iscrizione più lunga così dice:
«Anche i grandi scrittori, i sottili filosofi,
muoiono; noi, i lettori, sappiamolo e beviamo».

Allora, di sicuro, è più rapido il tiro,
gesto pieno di rabbia che nessuno
potrà scambiare per disperazione;
poi quell’attimo lucido in un sorso di vino
naufragherà e fuggendolo il signore riflessivo
si lancerà di nuovo nel gioco e l’incoscienza.


Traduzione di Francesco Dalessandro


David Pujante, La propia vida, Editora Regional de Murcia, 1986


lunedì 25 aprile 2011

Ugo Foscolo

ALLA SERA

Forse perché della fatal quïete
Tu sei l’immago a me sì cara vieni
O sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,

E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all’universo meni
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme

Delle cure onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

da Tutte le poesie, BUR, 1952

venerdì 22 aprile 2011

Pier Paolo Pasolini

POESIE MONDANE

                                          21 giugno 1962

Lavoro tutto il giorno come un monaco
e la notte in giro, come un gattaccio
in cerca d’amore... Farò proposta
alla Curia d’esser fatto santo.
Rispondo infatti alla mistificazione
con la mitezza. Guardo con l’occhio
d’un’immagine gli addetti al linciaggio.
Osservo me stesso massacrato col sereno
coraggio d’uno scenziato. Sembro
provare odio, e invece scrivo
dei versi pieni di puntuale amore.
Studio la perfidia come un fenomeno
fatale, quasi non ne fossi oggetto.
Ho pietà per i giovani fascisti,
e ai vecchi, che considero forme
del più orribile male, oppongo
solo la violenza della ragione.
Passivo come un uccello che vede
tutto, volando, e si porta in cuore
nel volo in cielo la coscienza
che non perdona.

Da Poesia in forma di rosa, Garzanti, 1964

mercoledì 20 aprile 2011

Eloy Sánchez Rosillo

MATTINA DI FEBBRAIO

Dinnanzi al foglio bianco, è un po’ che aspetto
le parole. Che però non arrivano.
Non ottengo che, docili, si posino
sul quaderno e che dicano quel che ora
tento di dire: che questa mattina
il sole di febbraio gioca sopra
i tetti del quartiere, che in un cielo
così azzurro ci sono solo due
o tre nuvole bianche,
che suona mezzogiorno all’orologio
della parrocchia e allegro
un passero si posa all’improvviso
sulla ringhiera del balcone:
                                               batte
le ali, saltella, col becco si liscia
le piume, guarda, inquieto,
di qua, di là, e, d’un tratto,
gaio riprende il volo nella luce del giorno.

Traduzione di Francesco Dalessandro
da Las cosas como fueron, Tusquets, 2004



lunedì 18 aprile 2011

George Gordon Byron

ALLA CONTESSA DI BLESSINGTON


Mi hai chiesto pochi versi: che un poeta
li neghi sembra strano; solo il cuore
era la mia Ippocrène e i sentimenti
alla fonte si sono inariditi.

Oggi, fossi qual ero, canterei
quel che ha dipinto Lawrence così bene,
ma sulle labbra morirebbe il canto,
troppo tenue il motivo per il liuto.

Cenere c’è dove era fuoco un tempo,
e la poesia s’è spenta nel mio petto;
posso solo ammirare quel che amavo
e grigio è il cuore come le mie tempie.

Non la datano gli anni la mia vita,
ma ci sono momenti che da aratri
agiscono, nell’anima tracciando
solchi profondi come sulla fronte.

Lascia che aspiri gioventù e talento
a cantare quel che ora invano ammiro:
il dolore ha spezzato alla mia lira
l’unica corda degna di quel canto.

Traduzione di Francesco Dalessandro
da Il sogno e altri pezzi domestici, Il Labirinto, 2008


venerdì 15 aprile 2011

IL TUMULTO DELL'ANIMO




Tema antico, trattato da poeti e filosofi lungo il corso del tempo: cambiare luogo può guarire la nostra inquietudine, può placare affanno e irrequietezza? Oppure solo in noi stessi possiamo trovare pace?
Dopo i testi di Lucrezio, Orazio e Leopardi, di lunedì scorso, e il testo di Kavafis di mercoledì, questi sono gli ultimi che vi proponiamo: il primo è di Giuseppe Rosato, che scrive in dialetto abruzzese; il secondo, di Camillo Fonte, altro abruzzese, poeta inedito e sconosciuto; infine, Giancarlo Pontiggia, milanese, che chiude perfettamente il cerchio con la sua sentenziosità.



Giuseppe Rosato 

*

E mò ddò vî scappènne, a qualu quarte
de lu monne te vute, pe’ truvàrece
che cose, come t’avisse all’ùteme
scurdàte, proprie all’ùteme, de quelle
che sî sempre sapùte. A-ècche dentre
tutte lu monne, e mare e terre addò
te ne pû ì’ streghenne t’arepòrte
a-ècche dentre, dope che nijènte
n t’ha putùte assudì’. A-ècche dentre
tutte la vita tê, o chelu ccòne
de vite addò la morte t’ha landàte.

Ed ora dove vai scappando, a quale parte / del mondo ti volti, per trovarci / che cosa, come se ti fossi all’ultimo / scordato, ma proprio all’ultimo, di quello / che hai sempre saputo. Qua dentro / tutto il mondo, e mare e terre dove / te ne possa andare a perderti ti riportano / qua dentro, dopo che niente / hanno potuto risolverti. Qua dentro / tutta la tua vita, o quel poco / di vita dove la morte ti ha lasciato.

da Lu scure che s’attonne, Raffaelli Editore, 2009


Camillo Fonte

NUOVE PARTENZE


1.

Ah, guarda
la rondine parte.
L’ala s’incurva rapida,
vira fra nubi gonfie,
scompare.

Io sto solo
in questo
pomeriggio d’autunno, io, a stupire
di un’altra partenza,
non mia.

Più in basso
il mare si muove,
fa paura.


2.

ogni nave alla fonda è un’occasione
sofferta che mi tenta
ma che resta intenzione


3.

se un giorno infine trovi
insperato il coraggio di salire a bordo
e di levare l’àncora

(se l’intenzione ha un senso
cui non credevi più, che non
speravi) è forse solo

un abbaglio dei sensi, come quando
basta un giorno di sole in pieno inverno
a far credere prossima l’estate

e non è che una falsa primavera.


4.

Per troppo mi ha provato
la vita e l’ho provata.
Spenta la smania di nuove partenze,
oggi mi sento vecchio. Di che calma
ora mi so capace. Pianto il remo.
Anche il mare è placato.


da L’isola (inedita)


Giancarlo Pontiggia

*

Chi s’incammina
già pensa al suo ritorno.
Ma chi resta,

salpa ogni giorno.


da Lux nox, alla chiara fonte, 2008


mercoledì 13 aprile 2011

IL TUMULTO DELL'ANIMO



Tema antico, trattato da poeti e filosofi lungo il corso del tempo: cambiare luogo può guarire la nostra inquietudine, può placare affanno e irrequietezza? Oppure solo in noi stessi possiamo trovare pace?
Dopo i testi di lunedì (da Lucrezio, Orazio e Giacomo Leopardi), ecco questo di Kavafis, tra i più belli ed emblematici. Senza credere di esaurire il tema (vi invitiamo, nei commenti, a suggerirci altri testi), venerdì toccherà a tre poeti contemporanei.



Constandinos Kavafis
LA CITTÀ

Hai detto: «Per altre terre andrò per altro mare.
Altra città, più amabile di questa, dove
ogni mio sforzo è votato al fallimento
dove il mio cuore come un morto sta sepolto
ci sarà pure. Fino a quando patirò questa mia inerzia?
Dei lunghi anni, se mi guardo intorno,
della mia vita consumata qui, non vedo
che nere macerie e solitudine e rovina».

Non troverai altro luogo non troverai altro mare.
La città ti verrà dietro. Andrai vagando
per le stesse strade. Invecchierai nello stesso quartiere.
Imbiancherai in queste stesse case. Sempre
farai capo a questa città. Altrove, non sperare,
non c’è nave non c’è strada per te.
Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto
tu l’hai sciupata su tutta la terra.

Traduzione di Margherita Dalmati e Nelo Risi
da Cinquantacinque poesie, Einaudi, 1968

lunedì 11 aprile 2011

IL TUMULTO DELL'ANIMO



Tema antico, trattato da poeti e filosofi lungo il corso del tempo: cambiare luogo può guarire la nostra inquietudine, può placare affanno e irrequietezza? Oppure solo in noi stessi possiamo trovare pace?

Offriamo qui, per primi, due esempi classici, da Lucrezio e da Orazio; poi, alcuni versi romantici, da Leopardi. Mercoledì e venerdì prossimi, quattro altri esempi.



Lucrezio
LA NATURA DELLE COSE, III, vv. 1053-1072

[...]
Se ciascuno sapesse, quando sente gravare
tanto peso sull’anima, che cosa mai lo tormenta
e da dove gli giunga questo dolore assillante
del perenne fardello che gli pesa sul cuore
non sprecherebbe il suo tempo, come spesso gli accade,
nella continua ricerca di quello che ancora gli manca
o di luoghi in cui andare per liberarsi dall’incubo:
c’è chi lascia ad un tratto anche la propria casa
dove non vuole più stare, ma poi vi torna sollecito
perché non trova al di fuori qualcosa di meglio;
c’è qualcuno che corre alla sua villa in campagna
e si affretta spedito, come temendo che bruci:
quando arriva sbadiglia ancora prima di entrare
e sprofonda nel sonno cercando l’oblio,
o di nuovo si affanna per ritornare in città.
In questo modo si fugge soltanto se stessi
ma non ci si stacca da ciò che si vuole fuggire.
Come un malato che ignori la vera natura del male:
se riuscisse a scoprirla pure tra grandi dolori
riuscirebbe a curarsi e a vivere in modo migliore.
[...]

Traduzione di Francesco Vizioli
Lucrezio, La natura delle cose, Newton & Compton Editori, 2000



Orazio
EPISTOLE, I, 11 (a Bullazio)

Allora, Bullazio, che ne pensi di Chio,
della tanto decantata Lesbo,
dell’eleganza di Samo,
della reggia di Creso a Sardi,
e di Colofone, di Smirne?
meglio o peggio della loro fama?
Nessuna, proprio, che valga
Tevere e Campo Marzio?
o t’ha rapito il cuore
una città di Attalo,
e ti entusiasmi di Lèbedo
nauseato di viaggi e crociere?
Sai Lèbedo com’è:
un villaggio più deserto di Gabi e Fidene;
ma io lì vorrei vivere,
dimenticando i miei,
dimenticato da loro,
e da riva guardare lontano
il mare in burrasca.
Certo nessuno si propone,
fradicio di pioggia e fango
da Capua verso Roma,
di passare la vita in una bettola;
nessuno, intirizzito dal freddo,
ritiene il calore delle terme
il culmine della felicità terrena;
neppure tu, se la violenza del vento
t’avesse travolto in mezzo al mare,
venderesti la nave, raggiunta la riva.
Sano e salvo, la bellezza di Rodi e di Mitilene
ti serve come d’estate un mantello
o un perizoma quando tira aria di neve,
un bagno nel Tevere d’inverno
o un braciere nel mese di agosto.
Finché è possibile e la fortuna ti sorride,
Samo, Chio e Rodi
è bene lodarle da lontano, a Roma.
Qualunque ora lieta ti concedano gli dèi
prendila con riconoscenza,
non rimandarne di anno in anno le gioie,
e si possa dire che in ogni situazione
sei vissuto volentieri.
Se la logica della saggezza, e non i luoghi
che dominano la distesa del mare,
allontana gli affanni,
chi solca il mare muta cielo, non natura.
Un’inquietudine impotente ci tormenta
e andiamo per acque e terre
inseguendo la felicità.
Ma ciò che insegui è qui, a Úlubre,
se non ti manca la ragione.

Traduzione di Mario Ramous
Orazio, Epistole, Garzanti, 1985



Giacomo Leopardi
AL CONTE CARLO PEPOLI, vv. 78-87

[...]
Altri, quasi a fuggir volto la trista
umana sorte, in cangiar terre e climi
l’età spendendo, e mari e poggi errando,
tutto l’orbe trascorre, ogni confine
degli spazi che all’uom negl’infiniti
campi del tutto la natura aperse,
peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside
su l’alte prue la negra cura, e sotto
ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
felicità, vive tristezza e regna.
[...]

Giacomo Leopardi, Canti, Einaudi, 1969

venerdì 8 aprile 2011

Giorgio Caproni

1944

Le carrette del latte ahi mentre il sole
sta per pungere i cani! Cosa insacca
la morte sopra i selci nel fragore
di bottiglie in sobbalzo? Sulla faccia
punge già il foglio del primo giornale
col suo afrore di piombo – immensa un’acqua
passa deserta nel sangue a chi muove
a un muro, e già a una scarica una latta
ha un sussulto fra i cocci. O amore, amore
che disastro è nell’alba! Dai portoni
dove geme una prima chiave, o amore
non fuggire con l’ultimo tepore
notturno – non scandire questi suoni
mentre ai miei denti il tuo tremito imponi!


da Tutte le poesie, Garzanti, 1983

mercoledì 6 aprile 2011

William Butler Yeats

QUANDO TU SARAI VECCHIA

Quando tu sarai vecchia e grigia e sonnolenta,
Col capo tentennante accanto al fuoco, prenditi questo libro,
E lentamente leggilo, e sogna del tenero sguardo
Che gli occhi tuoi ebbero un tempo, e delle loro ombre

Profonde; quanti furono a amare i tuoi attimi
Di grazia felice, e quanti amarono, con falso o vero amore,
La tua bellezza; ma uno solo amò l’anima peregrina
Che era in te, e il dolore del tuo volto che muta.

Curva di fronte ai ceppi risplendenti mormora,
Con lieve tristezza, come Amore fuggì, come percorse,
Passando, i monti che ci stanno alti sul capo,
E nascose il suo viso tra un nuvolo di stelle.

Traduzione di Roberto Sanesi
da Poesie, Oscar Mondadori, 1974  

lunedì 4 aprile 2011

Andrew Marvell

ALLA SUA DONNA RITROSA

Se Mondo e Tempo bastassero, questa
tua ritrosia non sarebbe un delitto.
Siederemmo pensando dove andare
a passare il lungo giorno d’amore.
Sulle sponde del Gange tu potresti
trovare rubini, io sulla corrente
dell’Humber andrei a lamentarmi.
Dieci anni prima del diluvio t’amerei
e tu, volendo, potresti negarti
fino alla conversione degli ebrei.
Il rigoglioso amore crescerebbe
più vasto d’un impero e più lento.
Cento anni passerebbero a lodare
i tuoi occhi e a fissare il tuo viso.
Duecento per adorare i tuoi seni
e trentamila per tutto il resto.
Un’età intera per ciascuna parte
e l’ultima svelerebbe il tuo cuore.
Perché, signora, tutto questo meriti
né io a più basso prezzo t’amerei.
Ma dietro le spalle odo il carro
alato del tempo avvicinarsi veloce
e davanti a noi vedo le deserte
distese di una vasta eternità.
Perderai per sempre la bellezza
e sotto la volta di marmo non udrai
più l’eco del mio canto; solo i vermi
metteranno alla prova la purezza
lungamente difesa; sarà polvere
il tuo bizzarro onore, la mia brama
cenere. Luogo intimo e grazioso
la tomba, ma non là voglio abbracciarti.
Mentre sul tuo incarnato la rugiada
della giovinezza indugia ancora
e lo colora, mentre da ogni poro
la tua anima avvampa di voglie,
ora che possiamo, godiamoci la vita;
e affrettiamoci, come sparvieri
appassionati, a divorare il tempo
anziché patire schiacciati
dalle sue lente fauci. In una sola
sfera saldiamo forza e dolcezza,
e con dura lotta strappiamo il piacere
tra i ferrei cancelli della vita.
Se non possiamo fermare il sole,
facciamolo correre più veloce.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Andrew Marvell, Selected Poems, Oxford University Press, 1994



venerdì 1 aprile 2011

Umberto Saba

CENERI

Ceneri
di cose morte, di mali perduti,
di contatti ineffabili, di muti
sospiri;

vivide
fiamme da voi m’investono nell’atto
che d’ansia in ansia approssimo alle soglie
del sonno;

e al sonno,
con quei legami appassionati e teneri
ch’ànno il bimbo e la madre, ed a voi ceneri
mi fondo.


L’angoscia
insidia al varco, io la disarmo. Come
un beato la via del paradiso,
salgo una scala, sosto ad una porta
a cui suonavo in altri tempi. Il tempo
ha ceduto di colpo.
                                 Mi sento,
con i panni e con l’anima di allora,
in una luce di folgore; al cuore
una gioia si abbatte vorticosa
come la fine.
                       Ma non grido.
                                                Muto
parto dell’ombre per l’immenso impero.


Da Parole – Ultime cose – Mediterranee – Uccelli – Quasi un racconto, Oscar Mondadori, 1966