lunedì 28 febbraio 2011

Johann Wolfgang Goethe

ELEGIA IX

Arde la fiamma d’autunno dal rustico focolare socievole,
    crepita e splende alla svelta, con un brusio, dai rami secchi.
Questa sera mi rende più lieto; prima che la fascina
    si riduca carbone, affondi sotto la cenere,
verrà la cara ragazza. Poi ciocchi e rami divampano,
    e la notte col suo tepore sarà per noi splendida festa.
Solerte di prima mattina lascerà il giaciglio d’amore
    per suscitare di nuovo, rapida, fiamme dalla cenere.
A lei, lusingatrice, più che ad altre, Amore il dono concesse
    di svegliare la gioia che non era ancora cenere quieta.



Traduzione di Roberto Fertonani
da Elegie romane, Oscar Mondadori, 1979

venerdì 25 febbraio 2011

Edoardo Cacciatore 

IL PASSATO REMOTO

Nutrita di sere d’estate
    Nulla infanzia hai di terrestre
Si affaccia il cielo e dà occhiate
    Mostro innocuo alle finestre
Sui pori la paura bruca
    Voci in istrada e le inghiotte
Finché a falange sulla nuca
    Striscia il suo soffio la notte.

da Il discorso a meraviglia, Einaudi, 1996

mercoledì 23 febbraio 2011

Vladimír Holan

TI HA CHIESTO...

Una ragazza ti ha chiesto: Che cosa è poesia?
Volevi dirle: Già il fatto che esisti, ah sì, che tu esisti,
e che nel tremore e stupore
che sono testimonianza del miracolo,
soffrendo mi ingelosisco della tua piena bellezza,
e che non posso baciarti e con te non mi posso giacere,
e che non ho nulla, e colui che è sprovvisto di doni
è costretto a cantare...

Ma non glielo hai detto, hai taciuto
e lei non ha udito quel canto...

Traduzione di Angelo Maria Ripellino
da Una notte con Amleto, Einaudi, 1966

lunedì 21 febbraio 2011

Constantinos Kavafis

IL DIO ABBANDONA ANTONIO

Come s’udrà, d’un tratto, a mezza notte,
invisibile tìaso passare
tra musiche mirabili, canoro,
la tua fortuna che trabocca ormai,
le opere fallite, i tuoi disegni
delusi tutti, non piangere in vano.
Come pronto da tempo, come un prode,
salutala, Alessandria che dilegua.
Non t’illudere più, non dire: «è stato
un sogno», oppure «s’ingannò l’udito»:
non piegare a così vuote speranze.
Come pronto da tempo, come un prode,
come s’addice a te, cui fu donato
d’una città sì grande il privilegio,
va’ risoluto accanto alla finestra:
con emozione ascolta e senza preci,
senza le querimonie degl’imbelli,
quasi a fruire di suprema gioia, i suoni,
gli strumenti mirabili di quell’arcano tìaso,
e saluta Alessandria, che tu perdi.

Traduzione di Filippo Maria Pontani
da Poeti greci del Novecento, Meridiani Mondadori, 2010

venerdì 18 febbraio 2011

Francesco Tentori

ALLO SPECCHIO

Nulla che tu non sappia è balenato
o è maturato a lungo in questo volto
intento al tuo dal fondo dello specchio
a cui sembra approdato da un errare
che lo vedeva, non è molto, assorto,
smarrito o teso nell’ansia, in un turbine
di speranza e timore, un solo nodo.
Quasi per riconoscerlo, anche tu
figgi nel suo lo sguardo e ti s’interna
nei meandri oltre il vetro disegnati
dal tuo scomporti, essere qui e riflesso
nell’illusione che di vero ha solo,
e lo patisce, il tuo voler rapire
la verità ad un’immagine vana.

Quanto lasciasti della tua persona
lungo le vie della febbre o del sogno,
nella malinconia che ad ogni viaggio
rinasceva dal colmo dell’ebbrezza,
verità colta al fondo dell’esistere
che traluceva ove passavi, ombra
vagante in piazze notturne, scenari
d’irrealtà che fa suoi il solitario,
tutto d’incanto t’auguri ritorni
dai portici che s’aprono profondi
di là dal chiaro schermo cui ti attardi
quasi debba incrinandosi disperdere
quel che sebbene sembri perso è tuo.
Nulla che tu non sappia e non sapessi
già allora che ti trascinava il vento
come spirava, e volgendoti eri
tu stesso chi scorgevi ad un salpare
di vele o nel grido rotto dei treni
lacerante le sere dell’inerme
giovinezza.
                        Che di lì si accomiata,
testimone ostinatosi a durare
nei tratti appena mutati: non fosse
per lo sguardo che stretto da vicino
si distoglie, cerca nell’ombra l’altro.


da Il segreto degli specchi, Poesie 1949 -1994, Biblioteca di Ciminiera, 2005

mercoledì 16 febbraio 2011

Antonio Machado

OH DIMMI, NOTTE AMICA, A LUNGO AMATA


Oh dimmi, notte amica, a lungo amata
tu che mi porti la scena dei sogni
sempre deserta, abbandonata, solo
viva del mio fantasma,
povera ombra triste
sotto il sole di fuoco, in lande aride,
o che sente l’amaro
nella voce d’ogni mistero, dimmi
se lo sai, tu che ho amata a lungo, dimmi
se sono mie le lagrime che verso!
Mi rispose la notte:
Tu non mi hai mai svelato il tuo segreto.
E io non ho saputo
mai se eri tu il fantasma del tuo sogno
né se veniva da te la sua voce
o era quella d’un istrione grottesco.

Dissi alla notte: Amata mentitrice,
conosci il mio segreto;
sai la profonda grotta
dove il mio sogno dà forma al suo vetro
e sai che le mie lagrime son mie,
come conosci il mio vecchio dolore.

Oh no, disse la notte, amato, io
ignoro il tuo segreto,
se anche ho visto vagare quel che dici
desolato fantasma, nel tuo sogno.
Io mi chino sulle anime che piangono,
ne odo la preghiera
profonda, umile e sola,
quella che tu hai chiamata salmo vero;
ma sotto le alte crociere dell’anima
non so se il pianto sia una voce o un’eco.
Per udire il lamento del tuo labbro
t’ho cercato nel sogno
e t’ho visto vagare in un confuso
labirinto di specchi.

Da Solitudini, a cura di Francesco Tentori Montalto, Crocetti Editore,1989

lunedì 14 febbraio 2011

Sergio Corazzini

LA MORTE DI TANTALO

Noi sedemmo sull’orlo
della fontana nella vigna d’oro.
Sedemmo lacrimosi in silenzio.
Le palpebre della mia dolce amica
si gonfiavano dietro le lagrime
come due vele
dietro una leggera brezza marina.

Il nostro dolore non era dolore d’amore
né dolore di nostalgia
né dolore carnale.
Noi morivamo tutti i giorni
cercando una causa divina
il mio dolce bene ed io.

Ma quel giorno già vanìa
e la causa della nostra morte
non era stata rinvenuta.

E calò la sera su la vigna d’oro
e tanto essa era oscura
che alle nostre anime apparve
una nevicata di stelle.

Assaporammo tutta la notte
i meravigliosi grappoli.
Bevemmo l’acqua d’oro,
e l’alba ci trovò seduti
sull’orlo della fontana
nella vigna non più d’oro.

O dolce mio amore,
confessa al viandante
che non abbiamo saputo morire
negandoci il frutto saporoso
e l’acqua d’oro, come la luna.

E aggiungi che non morremo più
e che andremo per la vita
errando per sempre.


Da Poesie, Rizzoli BUR, 1999

venerdì 11 febbraio 2011

Dino Campana

O POESIA TU PIÙ NON TORNERAI


O poesia tu più non tornerai
Eleganza eleganza
Arco teso della bellezza.
La carne è stanca, s’annebbia il cervello, si stanca
Palme grigie senza odore si allungano
Davanti al deserto del mare
Non campane, fischi che lacerano l’azzurro
Non canti, grida
E su questa aridità furente
La forma leggera dai sacri occhi bruni
Ondulante portando il tabernacolo del seno:
I cubi degli alti palazzi torreggiano
Minacciando enormi sull’erta ripida
Nell’ardore catastrofico.


Da Canti Orfici e altre poesie, Garzanti, 1995


mercoledì 9 febbraio 2011

Philip Larkin

AUBADE


Lavoro tutto il giorno, la sera bevo e sono mezzo sbronzo.
Alle quattro sto sveglio nel buio muto, fisso.
Gli orli delle tende via via schiariranno.
Frattanto vedo quello che in realtà c’è sempre:
la morte infaticabile, d’un giorno intero più vicina,
che rende ogni pensiero impossibile tranne
come dove e quando dovrò morire io stesso.
Arido interrogarsi: eppure la paura
di morire, d’essere già morto,
lampeggia nuovamente, avvince e terrorizza.

La mente sbianca all’abbaglio. Ma non di rimorso
il bene non fatto, l’amore non dato, il tempo
strappato e non usato – né disgraziatamente
perché una sola vita può spendersi tutta a riscattare
i suoi inizi sbagliati, e non riuscirci mai;
ma per il vuoto totale ed eterno,
la sicura estinzione alla quale andiamo incontro,
dove saremo persi per sempre. Non essere qui,
né in nessun altro luogo,
e presto. Nulla di più terribile, nulla di più vero.

Ecco un modo speciale di prendersi quella paura
che nessun trucco scaccia. Provò la religione,
quel logoro e vasto broccato musicale
creato a farci credere che non morremo mai,
tutte quelle sciocchezze del tipo Nessun essere pensante
può temere una cosa che non sente, senza accorgersi
che è questo a spaventarci: niente vista, niente suono,
niente tatto o sapore, né odore, niente con cui pensare,
niente da amare e niente a cui legarsi,
l’anestesia dalla quale nessuno si risveglia.

Così rimane ai margini della visione,
una piccola fioca presenza, un freddo immobile
che frena i nostri impulsi fino all’indecisione.
Tante cose potrebbero non accadere mai:
questa accadrà, e il capirlo deflagra furioso
in bruciante paura se ci coglie senza niente
da bere o compagnia. Il coraggio non serve:
vale a non spaventare altri. L’essere forte
non risparmia la tomba a nessuno.
La morte non cambia se frigni o se l’affronti.

Lentamente la luce cresce, la stanza prende forma.
Certo come un armadio sta quello che sappiamo,
che abbiamo sempre saputo, che non si può sfuggire,
ma nemmeno accettare. Una parte dovrà cedere.
Frattanto i telefoni vegliano, pronti a squillare
in uffici ancora chiusi, e l’intero indifferente
intricato mondo in affitto comincia a svegliarsi.
Il cielo è bianco come calce, senza sole.
Il lavoro va fatto.
Postini come dottori vanno di casa in casa.

Traduzione di Francesco Dalessandro


da Collected Poems, Faber and Faber, 1988

lunedì 7 febbraio 2011

John Keats

AL SONNO


O tu che imbalsami l’immota mezzanotte,
con dita lievi indulgenti ci chiudi gli occhi
già beati al buio, dalla luce
salvi, inombrati in un divino oblio:
o Sonno serenissimo, serra se vuoi
nel mezzo di quest’inno i miei occhi docili,
o aspetta l’amen, prima che sul mio
letto il papavero sparga cullanti elemosine.
Poi salvami, o sul cuscino luccicherà
il giorno andato, e non darà che affanni;
salvami dalla coscienza all’erta che si fa
più forte per il buio – traforante talpa;
gira la chiave nella toppa oliata
e blocca il silenzioso scrigno dell’anima.





Traduzione di Gianfranco Palmery
da Sulla fama e altri sonetti, Il Labirinto, 2003



John Keats, Poetical Works, Oxford University Press, 1972  

venerdì 4 febbraio 2011

Camillo Sbarbaro

SONNO, DOLCE FRATELLO DELLA MORTE


Sonno, dolce fratello della Morte,
che dalla Vita per un po’ ci affranchi
ma ci rilasci tosto in sua balìa
come gatto che gioca col gomitolo;
di te,finché la mia vita giustifichi
la vita della mia sorella e un segno
che son vissuto anch’io finché non lasci,
io mi contenterò e del tuo inganno.

Vieni, consolatore degli afflitti.
Abolisci per me lo spazio e il tempo
e nel nulla dissolvi questo io.
Nessun bambino mai cosi fidente
s’abbandonò sul seno della madre
com’io nelle tue mani m’abbandono.
Quando si dorme non si sa piu nulla.

da Pianissimo, Marsilio, 2001

mercoledì 2 febbraio 2011

James Joyce

ORA DORMI


Ora dormi, dormi,
Cuore inquieto!
La voce che grida «Ora dormi»
La sento nel cuore.

La voce dell’inverno
S’ode alla porta.
Oh, dormi, ché l’inverno
Grida «Più non dormire!»

Ora il mio bacio darà
Quiete e riposo al tuo cuore...
Ora dormi, dormi in pace,
Cuore inquieto!

Traduzione di Alfredo Giuliani
da Poesie, Oscar Mondadori, 1967